
|
Umanità: pittura e segno
Luigi Cavallo
Articoli collegati:
Ottone Rosai ad Arezzo
Umanità: pittura e segno
Come una biografia dellanima
Riceviamo e pubblichiamo:
Pittura, esperienza di vita e realtà spirituale
Lidea, o la sensazione, per quanto riguarda un artista di statura elevata e
complessa come Ottone Rosai, è di dover ogni volta ricominciare da capo. Rifare il
percorso della sua vita e allineare gli svolgimenti dellopera sapendo che i dipinti
proiettano una parte della sua esistenza con grande rilievo e lasciano nellombra
tanto ancora.
La speranza è appunto che ritornando dallinizio a scorrere i grani di questo
rosario, meglio dire la corona di spine, si possa trovare ciò che è sfuggito, quel tale
episodio o tale scritto, disegno, quadro che consenta finalmente a talune pagine di
trovare sistemazione; del resto una mostra di Rosai serve a dare prospettiva ad alcuni
particolari che nel complesso dellopera, nel merito della pittura, cioè della
lingua con la quale sono pronunciati, si innestano nella storia della cultura oltre che in
quella dellarte. Portare allo scoperto qualche nervo, un argomento scabroso,
significa anche scavalcare quei luoghi comuni che si sono incrostati alla scogliera di
Rosai come folcloristici parassiti.
Nellinsieme, dopo quasi quarantanni che ci occupiamo di lui, sappiamo che
tanto del Rosai uomo e dellartista ci sfugge. È come se ci fossero due, tre
esistenze che talvolta si intrecciano oppure divergono in una inestricabile miscellanea,
sottraendosi allo scandaglio. Eppure la vicenda Rosai ha avuto unità di spazio, si è
svolta in ununica città, ha seguito le sorti di un solo ceppo filosofico e sociale,
quello italiano e toscano; non vi sono state finzioni alternative né pretesti creativi
che non sorgessero dalla realtà. Egli si è sempre protestato contrario alle complicanze
del fantastico.
Ma è quel blocco di materia compatta, il suo nucleo di umanità traslata in pittura che
è difficile da sciogliere. Nonostante gli studi su Rosai e il suo lavoro occupino ormai
alcuni scaffali, gli epistolari dati alle stampe costituiscano un corpo importante, siano
affiorati centinaia di disegni e pitture del tutto inediti o dispersi, le mostre ripetute
in sedi pubbliche e private abbiano aggiunto molti tasselli.
E non basta. Rosai è sempre lì con la sua ingombrante presenza a sfidare le nostre
risibili velleità di completezza, ad ammonirci che la validità di un artista sta pure
nel suo essere insondabile, contraddittorio, inesauribile, cioè fuori dalla portata di
chi pretende di misurarlo in largo e in lungo per confezionargli, magari con le migliori
intenzioni, un abito definitivo. Rosai ci ha infatti lasciato per suo duraturo valore una
quantità di zone feconde e oscure, inesplorate - o inesplorabili - e quantità di terreni
impervi ancora da dissodare, dove esercitare, semmai, la nostra insaziata curiosità.
Pare impossibile che un uomo, da alcuni giudicato teppista, bighellone, sfaccendato, che
certo aveva il vizio del gioco, abitudini notturne, immerso daltra parte nella
pittura in modo totale, assillato dal fare così da sembrare parossistica la sua attività
in certi anni, abbia potuto anche scrivere libri, articoli, presentazioni, insegnare
allAccademia con riconosciute capacità, e mantenere rapporti con una selva di
parenti, amici letterati e colleghi, allievi, questuanti, collezionisti, galleristi,
editori, tanto che il volume delle sue lettere assomma a diverse migliaia. Soltanto la sua
fibra di operaio ha potuto reggere, finché ha retto, essendo scomparso a sessantadue
anni, a tale mole di lavoro.
La corrispondenza, senzaltro, assieme con gli scritti a stampa che Carlo Cordié da
decenni va riunendo, è una delle fonti principali per mettere sempre meglio a fuoco la
figura dellartista. Manoscritti e lettere ricevute da Rosai, di cui era depositaria
Vittoria Corti - uno dei più meritevoli studiosi del pittore, scomparsa lo scorso anno a
Firenze-, da lei pubblicati o del tutto inediti abbiamo avuti in eredità per proseguire
nelle ricerche che richiederanno cospicui approfondimenti specie per allineare i dati con
lopera pittorica. Il materiale riguarda una delle parti nevralgiche, meglio
rivelatrici di alcuni almeno degli interrogativi che urgono nel cosmo rosaiano e
rappresenta altresì una componente considerevole della cultura in Toscana nel secolo XX.
Ma perché insistere anche nel titolo sul lato di «umanità», una linea di lettura che
tiene strettamente connessi i risvolti della vita e lopera dellartista?
Frequentando Rosai non si può ignorare la lezione critica di Renato Serra che nei termini
di espressività cercava di riconoscere lumanità; per lui lordine dei valori
era nel rispecchiamento umano che consente la poesia. Né si può dimenticare quanto di
Rosai hanno scritto Berto Ricci e Dino Garrone, proprio «Sulla strada indicata da Serra»
insistendo sul «riconoscimento umano oltre che estetico dellopera darte».
Nellopuscolo Il Rosai, Firenze, 1930, il testo iniziale, anonimo, ma scritto
da Berto Ricci, resta un punto di riferimento: «Rosai, bestemmiatore, negatore micidiale
delle virtù borghesi, è immensamente più vicino a Dio degli onesti atei e cattolici che
a tutte le cantonate danno esempio di specchiatezza familiare e civile, ma tuffati
nellonda fangosa moderna son cenci sudici davanti allessenza della vita [...]
libero dal giogo delle finzioni può scrivere quello che non scriverebbe un altro ridotto
schiavo, anche con più ingegno. Sia ben chiaro che nellarte, come davanti a Cristo,
lingegno è strumento e soltanto strumento: nulla perciò in sé, e moltissimo
quando è mosso da più alto. Poeta dunque più di tutti i poeti oggi vivi, eguagliato
soltanto da Palazzeschi e dal pazzo bellissimo Campana, Rosai è quello che dà a noi e a
tutti più umanità.»
E ancor prima preme rispettare quelle che sono le stimmate dellidentità rosaiana:
legare alla verità delluomo, alle sue passioni, ossessioni, sentimenti
lessenza delle immagini in una concezione che latamente potrebbe dirsi, senza troppo
enfatizzare, spiritualistico-religiosa e che, in sostanza, è una ammirevole fabula,
da leggersi come altre vicende di pittori, antichi e moderni, da Pontormo, da Cellini a
Van Gogh.
Per Rosai si trattava di creare una forma che fosse somma di esperienze, di riscontri sul
vivo, di vibranti necessità espressive, come una trasfusione di umanità da figura a
figura, da figura a paesaggio, in una cascata di notazioni sonore, rilievi umorosi, di
cenni quasi biografici e di ambientazioni, di riconoscimenti quotidiani che da uno sguardo
amichevole potevano arrivare alla notazione spietata.
Così che tutto prendesse significato nellambito delle cose umane, anche le ambigue
attrazioni sensuali - già nel 1931, Sandro Volta parlava di «una sensualità
raffinatissima e, perfino, un po morbosa» - e la solitudine, la sofferenza, la
miseria, la denuncia sociale, argomenti questi universali, e il cinismo, lironia che
attengono al popolo toscano. Rosai cercava di provocare un coinvolgimento del riguardante:
che si potesse magari riconoscere in quella tale fisonomia, in quellatteggiamento di
sfida o rassegnazione, o rancore, nello striscio di luce sotteso a una visione, nel colore
di una strada, di un fiume, di un paese che risvegliano un momento dellesistenza,
uno scampolo di memoria nei sotterranei del nostro essere.
Cè chi chiede allarte, ai dipinti, una vacanza dalla realtà giornaliera, una
pausa rasserenante. Non così Rosai consapevole del delicato ruolo di mediazione e
disvelamento spirituale dellartista («[lartista] quando è tale, comincia col
capire più degli altri e, di conseguenza, sente più degli altri le responsabilità di
cui il tempo lha caricato»), come uomo il più esposto alle intemperie
dellesistenza («Lartista di tutti i tempi è stato e sarà sempre una
creatura personificante la tragedia»), e tenuto quindi a uno sforzo espressivo, senza
pause di compiacimento.
Egli vuole per la pittura una continuità con la vita, dunque una collocazione nel
panorama interiore, nellanimo più che sulle pareti delle stanze («Io voglio
scoprire lanima della mia creatura, il suo viso interno; voglio trovare il suo
dramma: essere quella santità di luce e di spazio dipinti in cui si esala il suo
grido»), e questo lo accomuna a pittori come Carrà, come Sironi, per certi versi come
Viani, che agiscono nellintimo, nel silenzio arcaico, nelle forze essenziali e
primordiali, che fanno crescere sensazioni di densità drammatica e di vastità misteriosa
delluniverso umano dando così profilo moderno al tempo nostro. Pensiamo anche a
Rouault, a Munch.
A queste specifiche intese Rosai ha sempre tenuto fede, e nella patria dellermetismo
non si è mai mimetizzato su posizioni nebulose o indecise per apparire raffinato. Al di
fuori delle cose vere - sincerità è pure accettare quanto di strano e inquietante la
natura ha seminato dentro lindividuo - non vi era, secondo lui, che un esercizio
professionale: su tale versante però, ed era convinzione allora molto radicata (peccato
non lo sia ancora oggi), la pittura poteva mostrarsi velleitaria e illusionistica, al di
fuori di quelli che erano i caratteri italiani, non poteva fregiarsi della dignità
dellarte né mettere fondamenta per linguaggi di poesia.
Nel mondo avvilito dal dilagare della finzione, dal gusto della virtualità persino in
amore, i propositi rosaiani, i suoi scrupoli essenzialmente morali ed etici - tanto libero
era di costumi quanto rigoroso nel proprio mestiere - possono sembrare rottami di
medioevo, davvero infrequentabili sul filo della velocità, della superficialità e del
provvisorio che sono i denominatori, se non i dominatori del contemporaneo. Ma
costituiscono anche unalternativa di pensiero e di meditazione, come i grandi libri
che non seguono le mode e sono i contrafforti della cultura di ogni tempo.
«La mia vita e la mia arte son corse avanti con me, [...] io credo alla strada, ai fatti
della strada, alla vita vivente e mutevole, allumanità cui piace stare in piedi e
mordere il vento e lazzurro delle salite; credo alle cose chempiono il santo
giorno, e non a tutto ciò che sa di sbiadito riflesso di tutta questa divina diversità
[...]. Credo in Dio nel senso più vasto della parola, e cioè a un Dio giusto e persino
tremendo: lIddio degli uomini e non dei mezzuomini che han sempre paura di
compromettersi con un po di cervello o di cuore.Ȍ
Riudiamo accenti che non ammettono replica, che mescolano del Savonarola e del Pontormo il
senso di una verginità mentale, e la vertigine di sapersi in alto, nel punto di
convergenza fra le cose mortali e quelle eterne, quelle che si identificano nel pensiero e
nella figura con il Creatore. Ma evitando che prendano campo sentimenti o atteggiamenti di
superiorità, anzi vi è un accostamento semplice, alla pari con i più umili, i poveracci
che faticano per campare la giornata. Si capisce come questo testo di Rosai fosse ben
accolto su Il Frontespizio che al misticismo cattolico dava voce con i contributi
di Carlo Betocchi, Nicola Lisi, Piero Bargellini e di Domenico Giuliotti, ancora più
estremista dei colleghi, un vandeano, il quale pubblicava in quellanno 1936 Pensieri
di un malpensante «polemica [...] ispirata dalla intransigenza duna fede
cattolica che investe tutti gli aspetti della vita e dellarte, raggiunge quasi in
ogni riga, lasciuttezza risecchita dellepigramma benedetto da una luce di
poesia».
È chiaro che su tale abbrivio i suoi referenti delezione non potessero essere che i
«grandi maestri toscani», coloro che stanno alle radici della nostra civiltà, Giotto,
Beato Angelico, Masaccio, e sono il ceppo ideale dellumanità moderna consentendo
immagini al senso del dolore e al pentimento, alla libertà interiore, alla fede, alla
dignità che è aspirazione a superare i limiti materiali, riconoscendo nellarte un
supremo riscatto spirituale.
Rosai ammira «i cari nonni pieni deternità, tutti secchezza, sobrietà ed
essenzialità», sono questi, insiste a dire, con trasporto ideale molto simile a quello
dellamico Giuliotti, «i caratteri che sento damare, ai quali mi sento di
aderire con vero cuore, e che vorrei continuare non da imitatore, sintende, ma con
quella fusione e trasfigurazione di spiriti che mi permetta dessere me stesso, uomo
ed artista dei nostri tempi [...]. Io tento di rendere luomo, il mondo, Dio».
La materia, la forma, la natura, un teatro vitale.
Lasciarsi condurre dallumore sanguigno del pittore sulla china contaminata da
emozioni e rivendicazioni, cioè da scorie che dovrebbero essere messe da parte
nellesame delle opere, portarsi nel campo della partecipazione anziché sul piano
sterilizzato della critica, certo è far torto alla giudiziosa separazione fra arte e
contingenze occasionali, fra evoluzione formale e frange psicologico-letterarie.
Ma per Rosai è accettabile qualche rischio di fuori pista; si possono percorrere strade
diverse per seguire un pittore che ha toccato il cuore popolare non osservando
dallalto di un pulpito come taluni amici suoi, leggi Papini, Soffici, o pittori come
Carena, ma stando fra il popolo con passione. La sua opera fa presa sul pubblico più
variato - ed è la popolarità che tiene accesa lopera rosaiana più delle tepidezze
degli storici dellarte - anche per motivi di aneddotica, omini, venditori ambulanti,
cantastorie, caffeucci, concertini, riscattati però da unardita energia di
osservazione, vizi, tenerezze e malumori subito saldati allespressione.
Si può così risentire, al di là dei criteri analitici, il corso turbolento nel quale
Rosai si trovò per tutta la vita, fra ammiratori sfegatati e irriducibili detrattori i
quali, oltretutto, mal sopportavano quella specie di dittatura rosaiana che a un certo
punto, verso la fine degli anni Quaranta, sembrò instaurarsi tra le mura fiorentine. In
quel clima di contrasti la sua pittura trovava alimento, stava senza disagi il suo spirito
di animoso combattente, di vecchio ardito. Del resto Rosai è materia bollente, che
solleva accenti polemici anche negli scambi fra addetti ai lavori. Al convegno Ottone
Rosai oggi, 1974, in Palazzo Strozzi, le discussioni salaci non erano sul palco, ma al
bar negli intervalli: allora sbottavano le invettive, recriminazioni, vespai velenosi su
falsi e falsari, scambi di accuse che la platea, rosaiana e non, teneva in corpo.
Era un modo anche quello per aver vivo e vicino, nella contesa, come si usa nella Firenze
guelfa e ghibellina, il pittore, lamico, il compagno troppo presto e improvvisamente
scomparso, al quale ancora si avevano tante cose da dire e da rinfacciare. Gli amici si
sentivano orfani, gli altri traditi: ma come? proprio quando Rosai era diventato, dopo
tanto battagliare, moneta sonante, se ne andava sulla cresta del successo?
Alcuni che vivacchiavano proprio in seno a quella specie di corte che il Rosai toccato dal
benessere si era lasciato crescere intorno, e non avevano più da mungere profitti, si
sentirono mancare la terra sotto i piedi. Per prendersi qualche risarcimento trovarono che
non era poi così sconveniente rifare e vendere un po di quadri soprattutto
dellultima pittura rosaiana, quella chiara, che sembrava tanto semplice. Conoscevano
i fornitori, i colori usati, avevano visto il maestro come lavorava al cavalletto. Erano
nei luoghi, tra i soggetti prediletti. Mercanti di pochi scrupoli portarono laffare
su larga scala e dilagò quel disastro che già era iniziato vivo il pittore. E non che
Rosai ignorasse quanto gli accadeva accanto; ma era tollerante sapendo che in quelle mene
erano coinvolti amici intimi, i cui nomi meglio omettere per non scivolare dalla storia
nel pettegolezzo.
Comunque la pittura di Rosai trovò salvezza in se stessa. Si faceva riconoscere autentica
per la materia-luce da cui è costituita, nel colore incandescente e furioso,
nellandamento della pennellata che mentre si appoggia alla superficie disegna, che
ha della mano lenergia e porta alla forma una determinata quantità oltre che
qualità di colore. Potevano essere copiati con qualche facilità i temi, gli schemi, le
profilature esterne, ma quanto la pittura con il suo tessuto plastico inconfondibile
dispone sulla superficie era molto difficile, quasi impossibile ricreare.
La materia di Rosai fa sorgere le luci dal dietro, dallinterno, con una sorta di
illuminazione febbrile (in Scipione, in Guidi troviamo qualche simile evidenza). Le sue
sono forme ricche di versamenti improvvisi, di cambiamenti, talvolta di pentimenti. La
rigidezza compitata dei falsi o gli eccessi dolciastri che inseguono il tipico,
sono ormai elementi scoperti; così appare irripetibile la morfologia delle stesure, delle
campiture rosaiane cosparse di minuscoli frammenti di colore rappreso, di corteccia, di
sporchi prelevati dalla tavolozza, di setole lasciate dai pennelli, quasi per dare ancor
più naturalezza allinsieme. Non erano malizie, costituivano la particolarità di un
mestiere cresciuto in decenni di appassionato esercizio, di convivenza con le ostilità
della pittura.
Se de Chirico teneva a dire che la definizione di «metafisica» non riguardava il
soggetto, ma la qualità della pittura, per Rosai bisogna riconoscere che la sua umanità
inizia proprio nel modo di usare la pittura, nella sua grana addensata di elementi che
sembrano prodotti direttamente dalla natura, dalla terra, dal fango, dalle foglie, dal
seccume della paglia, dal fiele, dal sangue, da quelle entità che Giovanni Testori
avrebbe chiamato «corporali», quasi a tradurre nella pagina dipinta quanto scorreva
fisiologicamente nel suo corpo.
Cè questa frequenza quasi ossessiva nel quadro rosaiano, dellautore che veste
ogni forma con i suoi propri abiti, morali e materiali, che dà vita alle creature con il
suo fiato, diresti, e le illumina a seconda delle ispirate misure che la giornata gli
suggerisce. Non cè nulla di condizionato da concetti teorico-formali. La sua
narrazione, che pure ha intense ragioni mentali e psicologiche, è anche fisica e anzi da
qui, per questa fisicità, ha principiato quellidentificazione fra Rosai e la sua
città, fra Rosai e il popolo dOltrarno, da vedersi in qualità di esempio, campione
aderente di più vasti riferimenti, poiché sappiamo che soltanto chi sa essere del
proprio paese (Dante, Machiavelli) può ambire a essere universale.
Nei rioni dOltrarno sembra non si siano mai sedate le fazioni; gli artigiani e i
commercianti danticaglie di borgo Tegolaio, via Toscanella, via Maggio, tengono duro
sul loro Ottone; a sollevare qualche critica si rischia di scatenare una rissa. Non
sappiamo di altro pittore italiano che abbia una zona sua tuttora vivacemente presidiata
da fedelissimi; forse, ma molto meno, Soffici a Poggio a Caiano e Morandi nelle strade
bolognesi attorno a via Fondazza e piazza Santo Stefano dove Giuseppe Raimondi aveva la
bottega di fumista. La gente umile, in fondo, è quella che più difende i parenti
illustri.
Nulla Rosai ha distrutto o cancellato di proposito dei propri documenti, neppure dei primi
anni teppisti o della occasionale vicinanza con i futuristi, né del ventennio che altri
hanno tentato di occultare nella propria biografia persino strappando nelle biblioteche
pubbliche le pagine di giornali che li riguardavano. Rosai ha tenuto copia delle penose
autodifese e petizioni ai funzionari pubblici per controbattere le accuse che avevano
provocato (1944) il suo provvisorio allontanamento dallinsegnamento. Se qualche cosa
è andato perduto lo si deve allalluvione dArno del 1966 che invase le stanze
a piano terra della moglie Francesca, in via Giotto, doverano conservati carte e
oggetti del pittore.
E se lui medesimo non ha coperto talune verità che possono sembrare compromettenti ai
benpensanti e agli ipocriti, e non ha fatto mistero di ripensamenti, incongruenze,
tendenze sessuali, perché dovremmo noi avere pudori postumi e, almeno in via teorica, non
tenere conto di una quantità di indizi e di eventi che ci fanno chiarire più a fondo il
patrimonio del suo nucleo creativo, limpasto magari torbido di pulsioni che trovano
decantazione sulla tela e laspirazione verso una tensione spirituale dove male e
bene mostrano il loro aspetto segreto, facce opposte, spesso, di una medesima figurazione.
Lo stesso manifestarsi della natura proietta nelle immagini rosaiane il duplice senso
della burrasca e della quiete, della tempesta con gli elementi in rivolta simbolica contro
luomo, e della serenità persino sfiorata dallidillio (Colline fiorentine,
1932; Paesaggio, 1943; nn. 27, 34). Rosai non si vieta momenti di melodia pura né
attingimenti dalla poesia lirica come confessa allamico Aldo Palazzeschi: «Sei uno
dei pochi scrittori che mi han fatto dipingere.»
Dalle finestre di via San Leonardo, in uno dei posti toccati dalla grazia di Dio, era
losservatore sensibile che registrava sulle tele, notte e giorno, gli impulsi
segreti e gli spettacoli della natura («la sua opera ripresa dalla natura sarà
unaltra natura, la perfezione della natura, lapporto di un suo volto alla
stessa natura»), la qualità dei colori che la luce ammorbidiva o incendiava dando sempre
diversa narrazione alle forme (Via San Leonardo, 1945; Via San Leonardo 1952
c., nn. 35, 38). E quella stradina monumentale chiusa dai muri e dalle case sta tuttora
intatta nelle sue pietre, nelle alberature che spuntano come giardini pensili, a gloria di
un pittore che lha amata quale creatura vivente.
Così come era attento alle variazioni anche minime del tempo, studiava i sussulti di
umore sui volti dei suoi personaggi. Modifiche seguite dappresso con il vaglio del
disegno. Si potessero ordinare cronologicamente i lavori, si avrebbe una sorta di
rappresentazione giorno per giorno, talvolta ora per ora, del teatro vitale che Rosai
organizzava. Per ciò sembra utile individuare, almeno per anni, le date di esecuzione di
disegni e dipinti, proprio per ricostruire tali sequenze eloquenti che permettono di avere
una lettura sincronica dellopera sua con quanto si andava facendo non solo nel
nostro Paese.
Scene di ritmo duro, arcigno, dove il soggetto, si diceva, è caricato di rispecchiamenti
con lautore, in ciascuna figura è inoculata una semenza di autoritratto...
Autoritratti sbalzati a fuoco (n. 28, 1933), modellati con potenza primitiva o gettati tra
gli altri personaggi come una provocazione. Vediamole queste icone che hanno una potenza
fosca e plebea, un colore fuso nel piombo, magari in parallelo con opere celebri come il Doppio
ritratto di due amici del Pontormo (Fondazione Giorgio Cini, Venezia), apparizioni che
sembrano voler rientrare nel buio da cui sono state evocate, e potremo apprezzare quali
siano le desinenze che tengono lopera rosaiana, presa al suo meglio, nel filone
maggiore dellarte toscana. Unottica senza sofismi, portata allosso dei
sentimenti e dei sensi, dove la giustezza formale governa il più lieve sussulto, ed
equilibra la presenza fisica con quella metafisica.
Volti e figure umane, quindi, con le loro ambigue valenze, assunti da Rosai con il
coraggio di riconoscervi i propri difetti, la volgarità, il rimorso o il disagio di «non
poter giungere a dare con la sua opera la pace né a sé né agli altri», esplicitamente
si offrivano a fitte e inclementi indagini. Forme create dal divino che venivano
trascinate dalla vita fino allorrido della dannazione, nei quadri rosaiani avevano
comunque riscatto presentandosi a nudo (Crocefissione, 1937-43, n. 32), come in
sacrificio di espiazione, per redenzione collettiva. Questo modo di alludere al volto del
Cristo nelle maschere tragiche dei suoi uomini è una delle costanti e profonde intuizioni
dellartista, risulta una delle chiavi per entrare nel suo mondo. Scrive:
«[Lartista] Non conoscerà compromessi: tra i suoi atti e la sua arte tutto sarà
coerenza. La croce addossatasi la porterà non come condanna, ma quale simbolo di fede.
Unico tormento: larte; sola preoccupazione: donare.» Perché non dare credito a
queste che non sono recitazioni di teoria?
Certe omissioni quindi, che si potevano giudicare caritatevoli, risultano invece
improvvide castrazioni alla storia di Rosai e alla sua cultura nutrita di realtà anche le
più scabrose. Rosai che sinfuria al ritorno dalla prima guerra vedendo premiati i
più vili, gli imboscati - non saranno casi solo di allora -; che ha sopportato un intimo
martirio con il suicidio del padre cui era legato da profondissimo amore; ancora gli
risuonavano quelle parole scritte dal genitore: «Ottone amato Figlio nostro / Io ti stimo
e ti venero». Rosai che ha fatto ingoiare rabbia ai colleghi, Magnelli e Conti,
abbracciando la causa di Strapaese, che ha aggredito in modo duro nel periodo dello
squadrismo nero, e poi ha sventolato con Berto Ricci le spavalderie del fascismo
integralista. Rosai che si è umiliato, lui così orgoglioso, accettando i mezzi termini e
i mezzi busti della politica; che ha subìto povertà ed emarginazione pur di non
rinunciare mai a quella che intendeva come una missione: la pittura.
Ha ceduto su altri argomenti, ha persino ammesso di essere un vigliacco - di questo lo
accusava lo scrittore Piero Jahier -, ma avendo sempre fisso il dovere di difendere
larte sua, di essere prima di ogni altra cosa partigiano del proprio lavoro. In
questo solo si sentiva schietto e grande, nella pittura, e per questo pagava qualunque
prezzo, ma per ciò esigeva rispetto e attenzione.
Non siamo, come si vede, soltanto in una mostra di quadri, ma nellesposizione di una
coscienza e di un cuore. Una dolorosa creatura, scarnificando egoismi e perbenismo, ha
preso su di sé gravami e amarezze di un periodo storico segnato da sovvertimenti sociali,
sconvolto da guerre e rivoluzioni - lo hanno fatto artisti come Arturo Martini e Mario
Sironi. Ma ebbe anche la gioia, lesaltazione di vedersi sorgere davanti, per forza
di scavo, di lavoro incessante, un universo vero, inciso nella corteccia della vita, non
soltanto nelle marginature dellestetica, che per lui, dicevamo, era poca cosa se
applicata a sé stante come esibizione di gusto e virtuosismo di mano.
Questo fa di Rosai un pittore imperfetto, se la perfezione è lecito indicarla in Giorgio
Morandi che distillava ogni luce; ma quanto profondamente impresso nel tempo a somiglianza
e testimonianza degli anni che ha attraversato con uno stile rustico, ruvido, tutto suo.
«Tutto ciò che apparirà difetto nella sua opera» ha tenuto a spiegare Rosai con
esemplare chiarezza «sarà il pregio maggiore in quanto proprio nellevidenza di
tali difetti starà la raggiunta drammaticità della cosa rappresentata e solo così gli
uomini avran davanti a loro ben visibili le lacune da colmare.»
Dal futurismo al realismo
Riprendiamo proprio le carte iniziali del particolare futurismo rosaiano, futurismo cioè
che Rosai fu pronto ad accogliere come una spinta alle sue native inclinazioni becere e
stradaiole, al chiasso e allingiuria. Conviene dare attenzione a qualche pagina
manoscritta. A suo tempo, a proposito di questo capitolo avanguardistico, avevamo
riportato una testimonianza di Giuseppe Lega il quale ci diceva come il fratello Achille e
Rosai fossero stati presi da infrenabile entusiasmo, come euforia che dà il luna-park,
per quanto era esposto nella mostra fiorentina di Lacerba alla fine del 1913.
Esaltati dal fatto che fosse possibile appropriarsi delle cose dellarte non solo con
la ponderata, noiosa compitazione scolastica, con i sofismi degli esteti marzocchiani, ma
con la gioiosa disinvoltura del gioco, con allegria. Nei quadri potevano precipitarsi in
modo estemporaneo felicità e ardori, sberleffo e movimento, colori sgargianti da circo
equestre, scritte, bandiere, giornali: ogni cosa dalle loro tasche di ragazzi poteva
essere versata sui cartoni di pittura; allimprovviso era stato tolto lo sbarramento
alle giovanili esuberanze.
Si sfogavano così cercando di rifare in studio quelle strane e per loro inusitate
composizioni che portavano le firme di Balla, Boccioni, Carrà, Russolo, Severini,
Soffici. Quadri con titoli buffi e provocatori, Dinamismo di un ciclista, Forme
e odori in una donna, Sintesi di un teatro di varietà, Il tango argentino,
Scomposizione di una figura di donna, infiammavano la fantasia di ragazzi
spregiudicati. Con spirito giocoso e di burla quasi, in barba al professorume che
imperversava nella capitale dei macchiaioli, Rosai e Lega avevano colto laria nuova,
il respiro di libertà che conveniva al loro temperamento e, presto lusingati da
Marinetti, si erano aggregati a quel manipolo di intrepidi che sfidavano i borghesi a viso
aperto nei teatri cittadini buscandosi ortaggi in testa e qualche cazzotto, tirando fuori,
finalmente, larte dal silenzio sacrale dei musei e portandola in mezzo alla gente, a
costo di strappare il velo di Maya, il mistero che consentiva appunto allarte di
mantenersi sopra le contese cronistiche in un ambito di aristocratica serietà.
Sarà poi destino delle opere futuriste dessere anche loro fagocitate dal sistema -
la rivincita del museo - e ora sono ben serrate in quelle sale che avevano dileggiato,
musei privati e pubblici, sotto vigile scorta di burocrati e conservatori, gelosi
giustamente di un patrimonio che però era nato per essere presentato diciamo alla piazza
e che quindi porta in sé i termini di una condizione radicalmente diversa dalla
segregazione museale. Questo si dice solo per invitare a maggiore disponibilità di
prestito per quel materiale futurista indispensabile alle mostre pubbliche.
Per dare comunque il colore di fondo che distingue Rosai nellapproccio con il gruppo
lacerbiano, sentire da che vivacità vernacola prende avvio il suo linguaggio e dar
risalto a talune divergenze che rendevano inconciliabili le schiette radici popolane del
pittore fiorentino con le mascherature cosmopolite dei marinettiani, leggiamo nelle Bischerate,
una pagina passata un po troppo inosservata, nonostante sia stata pubblicata in un
gustoso libretto curato da Vittoria Corti, dialoghetto fra un visitatore della mostra di Lacerba
(lo stesso Rosai?) e un imbianchino:
DA FUTURISTI
Nano se stao te da futuristi?
Ndoe?
Lì nvia cavurre ndo cè quadri.
A ho capio! noe nci sono stao, perche?
Dioboia tu vedessi che troiai, ce ne sarà na cinquantina di que tappeti, davvero sai
sembran diocane migliacci.
Daretta cè que riffosi gli stanno tutti giorno lie, ti piglian la gente
pe i groppone, e gni diano vede qui cè i braccio, qua cè i
piede, qui la faccia, ma come la un lo ede nbecille, lei lè un grullo,
bischeraccio.
Diooo ma a me n mhanno detto nulla sai perché n sennò la sarebbe staca
maghera via, daretta di già se maessero detto quarcosa a mene dioboia
gnaré tirao madonnatroia na manaa glandaa ia loro e cadri.
E noe, eppo diomaiale se no venio anchio, e io sai nfo pe dire di
quarcosa me nentendo va, e glie diecanni che ti fo limbianchino, e
ormai e credo che quando gno dao na mano io armeno diomaiale lè unita, ba!
Giusto, dignene, ma icche gliae, dioboia tu ne sa più te di loro di già n
cè daffa nemmen confronti.
Ma.... addio sai ciabina.
A va di lae tene, allora ti saluto, addio sai sta bene.
Dio.
Fuori dai denti il Rosai diciottenne scriveva le sue impressioni che dovevano essere
comuni in città, non solo tra i benpensanti borghesi, ma pure tra gli artigiani e gli
operai saggi nel loro sano realismo. Bisogna però aggiungere che se cogliendo al volo la
scenetta sembra di veder Rosai parteggiare per i due, e seppure fosse stato improvviso e
garibaldino laccostamento ai futuristi, le poche opere sue che rimangono di allora
sono di elevata qualità anche viste nellinsieme del futurismo lacerbiano dove
eccellono Soffici con il suo apporto cubista e Carrà.
Rosai riesce nel 1914 a mettere in valore qualità pittoriche che già si avvertivano nel
primo manifestarsi tra simbolismo ed espressionismo (vedi Processione, 1913; I
fuochi, 1913; nn. 2, 1). La ricerca di un colore tenuto denso, corposo, tra luce e
buio, di un colore mai superficiale e decorativo, si organizza ora con strutture
originali, con masse e piani che favoriscono una coerenza formale, lidentificazione
di uno spazio personale nel quale subito dopo la guerra potranno stabilirsi figure e
ambienti a lui più congeniali.
Quanto fosse stata nutriente quellesperienza lo si vede in opere come Bottiglia e
bicchiere del 1919 (n. 8), dove gli oggetti nella loro semplicità sono un organismo
geometrico di grande purezza. Persino Serenata (n. 10) risente dellottica
cubista nella sghemba prospettiva di tavolo e seggiola che danno lavvio plastico in
elevazione alla scena chiusa sullalto dallarco ribassato, in un contenitore
piccolo per tanta espressività; e le figure sono compresse fino alla deformazione,
appiattite con sintetiche profilature.
Rimarrà quindi nella dote rosaiana, nel suo modo di ordinare la pagina e renderla
essenziale compositivamente, quellincontro cubofuturista. Unincidenza
nellintimo del lavoro, ma anche nei valori umani; anni dopo, 1931, quando si guastò
con Soffici, gli rinfacciava: «Quella ventata di libertà futurista ti fece bene, ruppe i
tuoi argini di preconcetti, fece mussare il tuo sangue, tinspirò, ti squassò, ti
fece cantare liberamente. [...] soltanto allora fosti bello, raggiungesti il tuo massimo
di bellezza.» E forse così Rosai ripensava anche a se stesso.
Si può dire senzaltro che il futurismo accelerò la maturazione del pittore; colui
che era stato un allievo insofferente sui banchi di scuola aveva trovato il verso giusto
per apprendere, con le capacità straordinarie di percezione che fin da giovanissimo aveva
dimostrato, e messo in pratica mirabilmente nelle incisioni sotto la guida di Celestino
Celestini. Rosai procede con sicurezza nelloriginale articolazione di masse e volumi
(Alla Rotonda, 1916, Follie estive, 1918-19; nn. 5, 7) che trovano
spiegazione in un orientamento su Cézanne, indubbio acquisto da Soffici.
Si affaccia anche la declinazione di un vignettismo infantile-popolare che se può avere
qualche aggancio nelle compitazioni di Rousseau il Doganiere, sempre importato da Soffici,
ha pure schietta fioritura nellautonomo primitivismo rosaiano, quel Rosai che
copiava dai muri i disegnetti lasciati dai bambini (Guerra + rancio, 1916, n. 3) o
virava di favola (Vallesina, 1916, n. 4) quanto aveva ammirato sui fondali delle
pitture senesi trecentesche.
IV. Pagine della mostra
Alla ripresa del 1919, dopo le esperienze belliche vissute eroicamente, Rosai è presente
nella Grande Esposizione Nazionale Futurista nel Palazzo Cova di Milano. La
manifestazione è portata a Genova e quindi al Salone della Pergola di Firenze: Rosai
gioca in casa mostrando quattro opere delle sue migliori: Vallesina, 1916, Guerra
+ rancio, 1916, Scomposizione di una strada, 1914, Dinamismo Bar San Marco,
1914 (nn. 255-258 del catalogo). Ancora è legato emotivamente con i compagni che aveva
sentito vicini durante il conflitto; una poetica che non era rimasta soltanto teoria: Guerrapittura,
il libro di Carrà del 1915, con dodici disegni guerreschi, riecheggia nel Guerra +
rancio, il quadro-teatrino rosaiano del 1916.
In apparenza le immagini sono ironiche e irridenti, tuttaltro che drammatiche
comunque; ma quanto era stato presentato dagli interventisti come evento purificatore,
igienico, che avrebbe ringiovanito la società, in realtà aveva affogato nel fango e nel
sangue intere generazioni.
I futuristi si erano distinti su tutti i fronti. Marinetti (in Democrazia futurista.
Dinamismo politico, Facchi, Milano, 1919) rende noti gli elenchi dei morti e feriti
che ha contato nelle sue file. Tra i «Feriti in prima linea», Ottone Rosai (medaglia
dargento) e Marcello Manni.
Scrive Marinetti (Futurismo e fascismo, Campitelli, Foligno, 1924): «Dopo
Caporetto i futuristi Marinetti, Settimelli, e Mario Carli fondarono "Roma
Futurista" e i Fasci politici futuristi che si trasformarono gradualmente in Fasci di
combattimento.» E fa i nomi dei componenti le forze cui veniva affidata la prosecuzione
dellattività. Nel manipolo di coloro che costituivano il «Fascio di Firenze» e ne
avevano preso in mano le sorti troviamo anche Rosai e Manni.
Scrittore a macchina e Follie estive (qui nn. 6, 7) sono eloquenti campioni di
tale rinnovarsi dellimpegno davanguardia di Rosai. Si vede come lartista
si sia appropriato a fondo di modi compositivi in linea con i dettami futuristi: ma questo
lavorare attentamente di maniera è pure la spia dellesaurirsi dei suoi interessi
verso il movimento. Aveva sperimentato a su modo il linguaggio futurista, in
un primo spontaneo entusiasmo; ne aveva usato le varianti cubiste e primitiveggianti;
adesso organizzava strutture fra simultaneismo formale, compenetrazione e cenni al
dinamismo (Scrittore a macchina).
Sollecitati i diversi motivi espressivi, Rosai non può che ascoltare ora quel richiamo
forte della realtà che il suo amico Soffici addita come indispensabile per procedere a
piene vele verso un lavoro autonomo, originale, sganciato da qualsivoglia formalismo o
estremismo. Il «richiamo allordine» per Rosai significa eliminare quanto di
estraneo si interpone al genuino sgorgare dalla sua fonte di emozioni, di passioni, di
energia vitale. Egli doveva aderire profondamente alle proprie immagini con il carattere,
lindole, le necessità espressive e umane.
Soffici nella recensione alla mostra di Rosai del 1920 nota «Spontaneità di visione, di
elaborazione e di espressione tecnica». Allesperto collega le opere di Rosai
appaiono come «un seguito di annotazioni giornaliere e notturne di felici rivelazioni
avute nel contatto commovente fra lartista e la realtà, e, pertanto, una specie di
autobiografia lirica e spirituale di una sincerità assoluta».
Così si consolida il nuovo importante passaggio da una fase di studio e sperimentazione a
una di individuazione e resa personale delle figure, forma e sostanza di un pensiero.
Siamo tra il 1919 e il 1920, al momento che decide di tutta la vicenda rosaiana. Nei
disegni seguiamo il sovrapporsi delle tendenze stilistiche sulle quali opera Rosai, si
direbbe, in contemporanea. Sulle due facciate di un foglio (qui n. 9/dis) una Composizione
futurista con case e tranvai - titolo apposto di recente ma eloquente - e il disegno
pertinente I filosofi, quadro di essenziale semplicità figurativa e di inquietante
scavo espressivo. Questa è la concreta concomitanza e se vogliamo il confine tra
lambito futurista e lapertura del capitolo «realtà» - che subito
lartista sa trasformare nel mito della realtà - venato da intuizioni che per
intenderci potremmo definire metafisiche nellaccezione dechirichiana di
sostanza pittorica che trasforma e travalica il vero.
Rosai conferisce ai gruppi di persone fermate al caffè o per le strade fiorentine, una
sospesa e attonita presenza, come un incanto di visione fissato in un tempo immobile, in
una stagione inventata tra notturna e spettrale.
La scelta di pagine pittoriche quali Bottiglia e bicchiere, 1919, Serenata
(1919-20), Lattesa (1920), I filosofi (1920), Interno di caffè
(1920-22) - qui nn. 8, 10, 11, 13, 14 - prospetta in sintesi lo sganciamento di Rosai dai
suoi precedenti, ma anche la permanenza di certe componenti sia simboliste sia cubiste che
intessono nel quadro indizi molto moderni: effetti di ribaltamento spaziale nelle nature
morte, arcane atmosfere eccitate fino allespressionismo, la fuga prospettica e
lincasso geometrico dei gruppi di figure. Sono valorizzati i piani e le partiture
spaziali con rese astratte nella prospettiva o addirittura è usato (Interno di caffè)
un suggestivo fascio di linee curve che nascono a raggiera da un solo punto come troviamo
in Balla e Depero.
Proviene dallamico Marcello Manni linedito Caffè Bottegone, 1920 c.
(n. 12) che incrementa la dote dei più significativi dipinti rosaiani. Afferma un ordine
compositivo serrato nei profili, con guizzi di realismo nei corpi e nelle teste fulminate
da unocchiata, in un crescendo che dal piano del tavolo si avvia su su fino alle
case, nelle feritoie delle finestre, sul colmo dei tetti che addentano il poco di cielo
come in taluni scorci di Telemaco Signorini. La Toscana si sente nello spessore di questi
ordini strutturati con energica percezione del vero, un vero che nellarchitettura
delle forme suscita ritmi secchi, incalzanti nello svolgimento grafico e modulati nel
chiaroscuro pittorico.
Lo sbalzo plastico ha potenza contenuta, concentrata; ne scatta una qualità di commento
umano come una battuta fra teatrale e cerimoniale che diviene sigillo dellopera
rosaiana.
Nei contrasti quindi si accende la sua poesia. In questi anni il portato latamente
ottocentesco, macchiaiolo, sembra mescolarsi con spunti ancora più remoti; e si
dovrebbero ricordare le tavolette medievali della biccherna senese, dove in più casi le
figurine miniate dei camarlinghi sono chiuse sullalto da arconi di portico. Possiamo
accampare simiglianze anche con la pittura di quegli etruschi che in una presentazione del
1933. Savinio invoca come ascendenti, «antichi compaesani»: «lanima etrusca»,
che «rifiorisce e si perpetua nella pittura di Ottone Rosai»; anima «Terriera e non
aulica.
Religiosa, fidente, drammatica [...]. Curva a un lavoro costante dal quale di momento in
momento si leva un fatto altissimo, unaltissima voce. Non taglia i ponti tra sé e
le ragioni prime, le ragioni più torturate, più tenebrose della vita umana.» Insomma
«Questi "omini" sono l"uomo tozzo", luomo etrusco». E
pure luomo monumentale, se si tengono presenti i quadri Interno con figure,
1935, Uomo al tavolo, 1948 c. (nn. 31 e 37).
Ogni ricorso allantico è così pienamente risolto con nuovo, acuminato spirito
critico; potremmo persino trovare un precedente quanto mai azzardato, per il gusto del
pittore fiorentino di ritrarre gente seduta al caffè, in quel disegno di Rousseau il
Doganiere, Pavillon, posseduto da Soffici, nel quale figurano omini e donnine
raccolti sotto le tende di un locale.
Rousseau, che Rosai aveva visto a Poggio a Caiano, diversi disegni, un dipinto, molte
fotografie, già aveva lasciato qualche traccia nel suo primitivismo, e ora corrobora in
certo senso, la sua ottica e, perché no? il suo piacere per la descrizione minuta delle
figure.
Savinio non ha dubbi: «alla grandezza Rosai è destinato». Conferma quanto aveva nel
22 scritto Soffici senza tentennamenti né equivoci dialettici, dicendo Rosai
«promesso alla gloria».
In passato critici meno accorti hanno premuto un po troppo sullepisodico,
sullaneddotico, sui temi quasi caricaturali di Rosai, perdendo di vista la qualità
intrinseca della pittura e il singolare dispiegarsi del disegno. È indubbio, comunque,
che gli argomenti favoriscono il fluire dei mezzi creativi messi in valore
dallautore. Si ponga attenzione a operine come I fidanzati, 1919 o 1920, La
stalla (1922), nn. 9 e 21. Cè un che di prezioso nella pasta ricca di pigmenti
dei piccoli quadri, come largento che brilla sotto i biancoazzurri e loro
sotto le terre.
È godibile e fa parte del linguaggio luso sapiente di malizie artigiane che servono
lo spiccarsi delle immagini, come il bolo che rosseggia sotto le dorature, le patine che
dalle lisciature superficiali, dalle abrasioni, lasciano vedere le sostanze colorate
sottostanti, in un conforto di sapori e intuizioni, di giochi fra materiali e mentali: da
tali finezze esecutive risulta più incisiva la forma dei visi bulinati nei profili, lo
stringere del fuoco sui gruppi isolati o sui singoli personaggi.
La miniera delle risorse rosaiane è a cielo aperto: poeti, critici, artisti non si
possono sottrarre al fascino di quanto egli va rappresentando. Sotto la pergola, Via
Toscanella, Incontro in via Toscanella, del 1922 (nn. 15, 16, 17) divengono le
icone di un rinnovato e intenso spirito italico, misura di un rapporto fra artista e
società, magari povera, ma annobilita dalla tradizione, sposata con un ambiente che si
propone esemplare per quellintimo di umanità che si versa nello spazio civile.
La casa del Tarpa, La casa del vento, Le casacce, del 1922 (nn. 18, 19,
20) fanno suonare altresì le corde bucoliche del Rosai che sfoga la sua ansia di
umanità, il desiderio di far respirare per ogni versante la pittura, aprendo alla natura
campestre quanto assapora nei conclusi orti cittadini (Piazza del Carmine, 1922 c.,
n. 22): muri odorosi e siepi, alberi e coltivi, «i prati e i campi infiniti dove il sole
arrivava a comprimere la vegetazione col suo calore come assordante» non sono soltanto soggetti,
sono il materiale nel quale Rosai impasta la sua visione, tanto da arricchire, è questa
lidea, con le luci naturali luomo (Chiacchiere in via Toscanella, Carabinieri,
Suonatori ambulanti, del 1927, Uomo sulla panchina, 1930, I pretini,
1945; nn. 23, 24, 25, 26, 36) e la natura con il patrimonio spirituale che dalluomo
proviene (Colline fiorentine, 1932, Il cancelletto rosso, 1933, Via Santa
Margherita a Montici, 1933, Cortona, 1954; nn. 27, 29, 30, 40).
In Arezzo, la sede della Galleria comunale, limponente Chiesa di SantIgnazio,
ha suggerito di presentare del maestro toscano un lato che riguardasse principalmente la
formazione e il senso del linguaggio, anche attraverso il disegno, e lo specifico della
pittura fino agli anni Trenta, considerando il lato di partecipazione vitale e di
evoluzione estetica.
Si è dato poi solo qualche saggio dellincalzare di altre istanze, più tragiche,
contaminate dagli eventi, ripiegamenti nellangoscia esistenziale del secondo
conflitto (si vedano in parallelo gli interni di caffè degli anni Venti con La partita,
catramosa, annebbiata, del 1943, n. 33) e il desolato dopoguerra, ispido di aggressività
e polemiche (Uomo al tavolo, 1948 c., n. 37). Il nuovo dispiegamento in luce, dopo
il periodo di rorido impressionismo dei primi anni Trenta, con i quadri bianchi
degli anni Cinquanta (Via San Leonardo, 1952, c., I giaggioli, 1953 c., Cortona,
1954; nn. 38, 39, 40) anchesso è appena sfiorato, pur essendo questo un capitolo
che, per invenzione e sensibilità del tempo, ha mantenuto autorevolezza allopera di
Rosai.
Articoli collegati:
Ottone Rosai ad Arezzo
Umanità: pittura e segno
Come una biografia dellanima
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da
fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui
Archivio
Attualita' |
|
  
|