Roma, Sala del Refettorio della
Biblioteca della Camera dei Deputati
Via del Seminario (Palazzo S. Macuto) - (Bozza non corretta)
Con questo seminario noi vorremmo offrire la possibilità di
riflettere in modo abbastanza sciolto, anche azzardando ipotesi non verificate, sugli
scenari che lavvento dellEuro ha aperto: per lItalia, ma, naturalmente,
non solo per lItalia. Basta vedere le prime prove di stabilità offerte
dallEuro e come è cambiata in poche settimane la percezione americana.Di colpo si
è passati da una relativa indifferenza per le vicende della Vecchia Europa alla
consapevolezza che le strutture del potere mondiale già non sono più quelle. Ma di ciò
altri parleranno. Io mi concentrerò sui problemi che si pongono allItalia: il
"che sarà di noi", cercando di allargare lo sguardo un po' più in là. Scarto
moltissime cose che si possono e si debbono dire a proposito delle nostre debolezze e
delle nuove opportunità che si offrono. Sollevo qualche quesito.
Il primo è questo. Se di evento storico si tratta, cioè di un
passaggio che, di fatto, pone fine al modo di essere dellItalia repubblicana (del
suo assetto non solo economico ma statale: il che non è poco); se di questo si tratta,
cioè di un fatto che ci spinge, lo vogliamo o no, dentro una nuova storia, noi di questo
dobbiamo discutere, e con lassillo di chi sa che su questo una classe dirigente si
gioca tutto. Il che poi non è così ovvio. Basta guardare al dibattito politico attuale.
Si fondano nuovi partiti, scendono in campo nuovi leader, veri o presunti. I quali di
tutto parlano tranne che di quel piccolo dettaglio per cui il paese è di fronte alla
prova più difficile della sua storia. E che questa partita si decide ora. E che la
condizione per superarla è che le forze dirigenti, innanzitutto politiche, misurino su
ciò i loro disegni e le loro ambizioni. Ricordo a me stesso (come si usa dire) che non
stiamo parlando solo di banche ma di cose che investono linsieme del Paese, le sue
strutture materiali ma anche lidentità, la coscienza di sè, la coesione sociale.
E, quindi, stiamo parlando del come guidare gli italiani in una impresa del tutto nuova,
totalmente politica, nel senso più alto della parola: quella di integrare
lorganismo italiano (e non a caso dico organismo, poichè chiamato in causa è
linsieme del sistema, insomma le virtù e i vizi degli italiani) in
qualcosa,lEuropa, che è anchesso un organismo storico nuovo, una grande
potenza politica in formazione. Per cui a seconda di come lEuropa si farà, di come
peserà come nuovo soggetto mondiale, di come si organizzerà al suo interno, secondo
quali gerarchie, con quali aperture e inclusioni verso le sue frontiere mobili (
lEst, il Mediterraneo, il resto del mondo) cambiano tutti i termini delle nostre
questioni: dalla sorte del Mezzogiorno, al modo di come si raggruppano le famiglie
politiche, al ruolo nuovo degli Stati nazionali.
Altro, quindi, che fine della grande politica o sua riduzione ad
assemblaggio di carovane elettorali. Io non so chi alla fine conterà di più nella
prossima conta elettorale. Credo però di capire che nella Europa in costruzione le
nazioni con istituzioni e partiti deboli conteranno sempre meno. Conteranno le nazioni e i
partiti che hanno radici, che avranno rapporti forti con le culture politiche europee che
saranno in grado di gestire le nuove competenze non più solo nazionali del potere
pubblico, e che porranno alla base del loro agire la difesa dellinteresse nazionale.
Questo forse non si è detto abbastanza: che delegare una sovranità non è impresa
semplice. Tanto più puoi delegare quanto più disponi di una forte identità e autostima.
Quanto più sei capace di ridefinire il profilo anche culturale della nazione e di
rielaborare (certo, in termini nuovi) quella cosa che si ha ancora paura di nominare e che
è linteresse nazionale. Altrimenti non deleghi nulla, ti metti solo nelle mani
degli altri. Questo -sia detto senza retorica- è il grande tema che sta sullo sfondo
della nostra discussione. Ne ha accennato, di recente, anche Bobbio quando, tornando a
riflettere sulle debolezze dello Stato post-risorgimentale esprime un timore e una
speranza. Il timore che -secondo un vecchio costume delle classi dirigenti- il vincolo
estero venga usato per farsi dirigere dagli altri. La speranza che sia la dura
competizione europea a risvegliare negli italiani lorgoglio di essere un grande
popolo e che ciò ci spinga a rafforzare il patto di cittadinanza e lidentità della
nazione
Di qui lassillo che la nostra Fondazione sente di rimettere al
centro del discorso pubblico i programmi. La cui validità si dovrebbe -credo- misurare
sulla capacità di dare una nuova forma e nuovi fattori aggreganti alla società italiana,
una nuova ossatura alla nostra economia. Quindi io cercherò di ragionare, non tanto sui
singoli problemi, peraltro cruciali, ma su ciò che chiamerei "il più complessivo
modo di vivere di una popolazione come forza produttiva". Partendo dal fatto che il
fattore cruciale del successo in una economia post-industriale, sempre più integrata in
una dimensione sovranazionale, è costituito da cose che si chiamano capacità di pensare
soluzioni originali a problemi nuovi, disponibilità al cambiamento, e quindi, affinchè
questa disponibilità ci sia, coesione sociale, condivisione di valori e di obiettivi.
Come sta lItalia da questo punto di vista?Questo è
linterrogativo. Ricordo solo per memoria che se lItalia ha ancora carte da
giocare il merito è dei governi e dei partiti che in questi anni hanno portato il paese
fuori dal marasma e lo hanno ricollocato nel cuore dellEuropa, creando così le
condizioni del rilancio. Ma queste carte si tratta adesso di giocarle. Come? Il presidente
del consiglio ci ha ricordato, in una intervista recente, che tipo di cambiamento è
necessario, un cambiamento molto più profondo di quelli fatti finora. Intanto -cito le
sue parole- perchè finisce un intero modello di sviluppo fondato sul deficit, la spesa
pubblica assistenziale, gli alti tassi dei Bot e la rendita finanziaria. Con in più
lavoro nero e ricorrenti svalutazioni della lira come condizione per restare sui mercati.
Il che ha alimentato un certo modo di essere non solo delleconomia ma della
società, un blocco sociale che prosperava ai danni dei ceti più produttivi e avanzati.
A me sembra utile partire da qui: da qualcosa cioè che riguarda
lassetto complessivo del Paese perchè se è vero che si è rotto un vecchio ordine,
la organizzazione di un nuovo ordine diventa il compito prioritario. Pena -come vediamo-
uno stato di incertezza, una mancanza di fiducia nel futuro e quindi una crescita italiana
che resta parecchio al di sotto della media europea. Le ragioni di ciò sono tante e tutte
ci spingono ad accellerare quelle riforme, sia liberalizzatrici sia neo-regolatrici, che
sappiamo e che in parte si stanno facendo. Ma il punto che io vorrei discutere è anche un
altro: è quello che solleva DAlema quando dice che se vogliamo creare le condizioni
non solo tecniche ma politiche e sociali capaci di dare una nuova ossatura al sistema
italiano, il tema diventa una nuova alleanza tra i produttori. Per evitare equivoci
sarebbe meglio parlare di una alleanza che non si riduce allinteresse
economico-corporativo ma riguarda e ridefinisce un progetto, non in astratto ma in
rapporto a questo passaggio storico. Quindi una alleanza tra le forze più creative del
lavoro, dellimpresa e dellintelligenza interessate a battersi contro il grumo
di conservatorismi vecchi e nuovi che attraversa tutta la società italiana e che rischia
di lasciarci ai margini dei processi innovativi che stanno già determinando il futuro
delle nuove generazioni europee. La ragione e la base di una nuova alleanza io la vedo
così, non solo perchè al posto della vecchia società industriale cè una società
dei servizi e, quindi, i grandi patti neo-corporativi tra sindacati e Confindustria non
sono riproponibili. Ma anche perchè meno che mai i soggetti si definiscono solo in base
al reddito, più che mai contano la coscienza di sè, i valori, la consapevolezza che i
propri interessi immediati non sono difendibili se non stanno in rapporto con gli
interessi generali del paese. Al fondo, quindi, il vero interrogativo che domina la scena
politica italiana è molto serio, ed è quello che dice Bobbio. E se le classi
dirigenti (in senso lato) sono disposte a battersi, e fino a che punto, perchè il paese
si collochi nel nocciolo duro dellEuropa con tutto ciò che ne consegue come riforme
anche dolorose, fine di vecchi privilegi, rafforzamento dellossatura politica e
statale, difesa del capitale sociale e umano. Oppure se per la somma di tante cose,
sceglieranno ancora una volta di farsi dirigere dagli stranieri.
Sbaglierò, ma io credo che dietro la crisi del centro-sinistra ci sono
anche spinte di questo tipo. Ma penso anche che se siamo arrivati a questo nessuno è
innocente. Lascio ad altri dire tutto il male che si può dire dei partiti. Ma se guardo
agli anni recenti, a questa lunga transizione che non si compie e se mi domando
qualè la ragione ultima di questa assurda frammentazione politica, a me sembra che
tra tante spiegazioni bisognerebbe tener conto anche del fatto che le diverse correnti del
riformismo italiano non sono riuscite a misurarsi con quel dato materiale oggettivo,
inseparabile dalla crisi e dal collasso del regime politico, che è la mutazione sociale
di questi anni, dopotutto la più grande e la più profonda dopo decenni, paragonabile
solo al passaggio, alla fine degli anni 50, dallItalia agricola a quella
industriale. Era finito lassetto sociale e il mondo del lavoro modellato dal vecchio
industrialismo. Era cominciata una nuova società, quella dei servizi e del
post-industriale. Non era poco. E non era cosa da lasciare ai sindacalisti e ai sociologi.
Eppure è questo che è accaduto. E forse sta anche quì il dramma della politica
italiana. In parte condizionata e avvilita dalla decadenza politico-morale prima e dal
crollo poi del vecchio sistema. In parte appesantita dai cascami di una vecchia cultura
operaista e ideologizzante che anchessa parlava daltro, di un mondo che non
esisteva più. In parte afflitta dal vecchio vizio politicista che disprezza i programmi e
i contenuti. La verità è che i neo riformisti sono rimasti minoranza ed è un miracolo
che nonostante ciò siano riusciti a portare il paese in Europa. Il lato tragico di questa
storia, con la quale oggi facciamo ancora i conti, è che la società non riesce a darsi
una identità e una forma, mentre la politica, non avendo guidato processi di
trasformazione così profondi, ha perso consenso, perfino legittimità.
Io credo che sia anche per questo insieme di ragioni, non soltanto
economiche, che la realtà italiana appare così magmatica e di così difficile lettura.
Il paese si sta deindustrializzando? Mi sembra azzardato dirlo anche perchè non chiamerei
più servizi quelli che sono pezzi di decentramento industriale oppure la crescita di una
nuova industria della conoscenza. Credo, piuttosto, che sta succedendo unaltra cosa.
Il Nord con la trasformazione del Triveneto e delle province piemontesi, ha ormai compiuto
la sua industrializzazione con una diffusione di imprese che non ha leguale in
Europa. Contemporaneamente, però, è scomparso il Triangolo industriale. E
scomparsa cioè quella ossatura che vedeva una presenza di grandi imprese industriali (e
anche di qualche banca) che fino a 20-30 anni fa erano più o meno forti come le
concorrenti europee. Basti pensare a Olivetti, Montecatini, Breda, Ansaldo, Marelli,
Comit, ecc. Con in più lIRI e lENI. Con in più il Mezzogiorno usato come
serbatoio di mano dopera a basso costo e di risparmio, oltre che di mercato di
consumo chiuso. Con in più una amministrazione debole e inefficiente ma un potere molto
concentrato nelle mani di quello Stato-partito e di quelle grandi consorterie che
sappiamo. Questa, anche se criticabilissima, era pur sempre una ossatura.
Noi cosa mettiamo al suo posto? Oppure dobbiamo accettare la posizione
della cultura dominante secondo cui questo problema non esiste, nel senso che a risolverlo
ci penseranno il mercato,le privatizzazioni e le piccole imprese? In altri termini:
cè o non cè un problema di modello di sviluppo? Ho visto che anche Ciampi ha
sollevato la questione partendo dal fatto che se è inaccettabile il modello americano è
ormai superato anche quello tedesco di "economia sociale di mercato". Una
risposta non è semplice anche perchè in questo vuoto il pericolo paventato da Monti di
essere colonizzati diventa serio ma non possiamo certo evitarlo tornando a proteggere e a
pubblicizzare il sistema. Questo è chiaro. Ci sono però domande alle quali non si può
più sfuggire. Perchè il risultato delle privatizzazioni è stato in troppi casi quello
di resuscitare le vecchie consorterie e il vecchio volto del capitalismo senza capitali?
Solo per errori o perchè ha ragione De Cecco quando sostiene che ciò che precede e
sovrasta questi errori è la crisi organica della grande imprenditoria italiana, cioè del
vertice del nostro sistema economico e finanziario costituito ancora in larga parte da una
oligarchia chiusa che negli anni 70 ha affrontato le proprie incapacità di gestire
la transizione verso i mercati globali e lavvento della rivoluzione tecnologica
prima ricorrendo al decentramento produttivo e poi gettandosi nel turbine dei grandi
affari finanziari e cambiari, invece che puntare sui settori trainanti del mercato
mondiale: con il risultato che, svaniti gli effetti del decentramento e delle alchimie
finanziarie, e inariditosi il fiume dei pubblici sussidi, non riesce a fronteggiare la
sfida europea e rischia di subire una internazionalizzazione passiva.
Ci salveranno le vecchie zie? si chiede tra scetticismo e ironia
Giuseppe De Rita alludendo allesercito delle piccole imprese italiane. Può darsi ma
dobbiamo pur chiederci perchè questo popolo di straordinari imprenditori e di coraggiosi
mercanti resta fermo, investe poco, non osa. Una risposta che guardi al di là della
congiuntura potrebbe essere che una economia, pur di tutto rispetto (la sesta o la settima
del mondo) ma che è costituita essenzialmente da milioni di piccole imprese, si sente
come indifesa a fronte di qualcosa che non è solo un mercato più ampio, ma un mercato
che si sta dando unaltra forma anche politica, cioè altre regole (il cambio fisso,
la moneta unica) e altri poteri sia pubblici che privati, essendo in esso dominanti
imprese grandi come quelle francesi e tedesche e grandi banche, nonchè Stati forti e
orgogliosi che non stanno a guardare ma sollecitano quegli accordi e quelle concentrazioni
che vediamo. Se vogliamo, quindi, mettere al centro -come molti suggeriscono- quella
peculiare risorsa italiana che sono i distretti industriali dove si addensano imprese
piccole ma molto innovative, io -lasciando per un momento da parte le tante cose da fare e
che si stanno già facendo nel campo degli incentivi- mi chiederei se la crescita dei
distretti non comporti anche qualcosa di più e di diverso. Non scopro nulla se dico che
-dopotutto- ciò che è avvenuto in Veneto e in altre regioni italiane è una sorta di
rivoluzione sociale, la quale ha liberato forze produttive. Quindi non si è trattato di
qualcosa che riguardasse solo un settore economico ma di molto più grosso che però
avveniva nel vuoto politico senza una guida nè una base culturale (altrimenti non si
spiegano i fenomeni come Umberto Bossi nè la catastrofe della sinistra in tanta parte del
Nord Italia). Eppure si continua a ragionare come se si trattasse solo di imprese, magari
più piccole di altre, e non di una sorta di "stato nascente" Cioè di qualcosa
che muta il modo di pensare e di vivere di intere zone e che quindi cerca una identità
nuova. E esattamente questo che ha "spiazzato" la sinistra. Ma il rischio
è che mentre la sinistra viene spinta -anche per colpa sua- ai margini del cambiamento
questi ceti restano schiacciati in una dimensione meschina, corporativa, rancorosa e
perfino ribellistica. E ciò essenzialmente per la ragione che non trovano chi fornisce
loro quel fattore necessario anche ai fini della crescita economica che è la
rappresentanza politica e il riconoscimento sociale. Silos Labini lo dice nel modo più
netto: "il problema da parte di questi ceti non sono tanto gli incentivi quanto
quello di assumere una funzione nuova, molto più politica, quella di agenti attivi di un
disegno di sviluppo civile, oltre che economico". Ci misuriamo, quindi, con problemi
molto diversi da quelli che furono alla base dei patti tra produttori tipici delle
"regioni rosse".
Vengo così al dato più preoccupante della situazione italiana e sul
quale non mi pare che ci siano idee chiare. Parlo del fatto che ormai da lungo tempo
lItalia ha smesso di crescere. Questo non è un dato congiunturale ma qualcosa che
ci chiama a ripensare le strutture profonde del paese. Siamo passati da ritmi di sviluppo
del 7 per cento allanno nel decennio 1950-60 al 5 per cento degli anni 70, al 3 per
cento degli anni 80 e all1,5 per cento nellultimo periodo. Abbiamo oggi meno
occupati di quanti se ne contavano nel 1980, e la quota del reddito da lavoro sul totale
del PIL è scesa di quasi 10 punti e la differenza se la sono mangiata i redditi da
capitale più ancora che quelli da impresa. Anche gli indici della povertà sono in
crescita e il divario tra Nord e Sud è tornato quello del dopoguerra. Ma, al di là di
questi dati e tenuto anche conto di segnali più recenti di inversione di tendenza, la
verità è che la voglia di crescere lhanno persa un po' tutti. E dal 1992 che
il numero dei morti supera quello dei nati. Il capitale umano invecchia e si riduce.
Esattamente come il capitale fisico che la spesa pubblica e gli investimenti privati non
riescono a ricostruire, almeno se guardiamo al tasso di accumulazione, cioè al rapporto
tra investimenti fissi e risorse disponibili che è passato tra il 92 e il 97
dal 16 al 13 per cento. Da quanti anni non si progetta unopera pubblica paragonabile
alla rete autostradale o al sistema di acquedotti e fognature della prima Cassa del
Mezzogiorno?
Queste sono cose che riguardano le fibre del paese e che ci dicono più
di tanti discorsi perchè è tempo di tornare a una idea forte della politica come
progetto, come guida. Non basta il mercato per ridare il senso del futuro a un paese che
si è messo sulla difensiva al punto che il 70 per cento dei giovani tra i 18 e i 30 anni
vive ancora a casa con i genitori. Il che dice tutto.
Torno così al tema di quale futuro immaginiamo per lItalia. Non
pretendo di dare le risposte. Temo però che non andremo lontano se non ci poniamo il
problema di una nuova ossatura capace di sorreggere quel grande sistema molecolare che è
diventata la società italiana, e di portarla in quel luogo di poteri forti che è
lEuropa. Ecco perchè sento molto il bisogno di colmare la distanza tra il discorso
politico, troppo ridotto a politologia, e il fatto macroscopico che è nata unaltra
Italia rispetto a quella del passato e che è questa Italia che bisogna guidare: una
Italia di giovani che non trovano più posti stabili, ma iniziano lo stesso a lavorare in
qualche modo, ingrossando le fila del lavoro autonomo, para-subordinato, o addirittura si
mettono in proprio come artigiani e piccoli imprenditori. Di nuovi poveri ma anche di
operai più qualificati. Di lavoratori autonomi dove cresce la componente dei nuovi
mestieri. Di 3 milioni e mezzo di imprese che occupano quasi 14 milioni di persone. Un
mondo che ha minori vincoli, ma anche pochissime tutele, che vive in modo intenso la
necessità di affermare una identità professionale e che, quindi, ha un drammatico
bisogno di formazione e informazione, per riprodurre appunto la sua professionalità. Un
mondo che si distacca dalla politica e dai partiti non perchè non ha bisogno dello Stato
ma, al contrario, perchè questo non risponde alle sue domande. Un mondo che tuttavia
esprime anche grandi spinte solidaristiche (4 milioni di persone fanno volontariato) e una
nuova coscienza civile: come ci dice anche quel fatto ignorato dai giornali che nelle
recenti elezioni sindacali l80 per cento dei dipendenti pubblici hanno votato, hanno
ridotto a frangia i sindacati corporativi e hanno portato la CGIL al primo posto.
Ecco il punto dove volevo arrivare; come dare a questa enorme mutazione
sociale una nuova forma. Dico forma, cioè forma politica e istituzioni. E, quindi, un
progetto. Forma non solo voce perchè non mancano certo i populisti e i demagoghi che
cavalcano le proteste, gli egoismi e le rabbie di una società, appunto, lacerata e
"molecolare". Possiamo noi discutere di come lItalia può reggere alla
sfida dellintegrazione europea senza porci questo problema? Proviamo a immaginare
che cosa sarebbe lItalia se la politica -la grande politica, cioè i grandi partiti
popolari non le cordate elettorali- non avesse saputo guidare la trasformazione di un
paese agricolo, di analfabeti, uscito a pezzi dalla guerra, in una delle maggiori potenze
industriali. Ci riuscì perchè fornì alle forze produttive una direzione di sviluppo, le
istituzioni necessarie e una base di consenso.
Tutto è mutato da allora. Non illudiamoci, quindi, che una alleanza
sociale, potenzialmente maggioritaria, possa basarsi, come nel passato, su un patto
neo-corporativo tra grandi soggetti capaci di regolare consumi, prezzi, redditi. Ma
proprio da ciò deriva la necessità di rivolgersi a questa società con un nuovo
progetto. Il che significa che non è vero affatto che il ruolo della politica si riduce,
anzi diventa più grande. Anche perchè più grande diventa la necessità di un potere di
regolazione di questo mercato storicamente determinato, molto più ricco di liquidità ma
anche molto più esposto a rischi di instabilità e di irrazionale allocazione delle
risorse . E chiaro che sarebbe un grande errore allentare la lotta per la stabilità
finanziaria e il risanamento del corpaccione pubblico: quella che abbiamo chiamato una
rivoluzione liberale volta ad abbattere le gabbie corporative e a liberalizzare e rendere
più spessi i mercati sia dei prodotti che dei capitali. Ed è evidente che non reggiano
con politiche sociali troppo assistenziali. Ma il problema che sollevo è se questo sia
sufficiente. Se, in altri termini, il salto da fare anche come governo non sia quello di
mettere in campo una mediazione più alta tra politiche economiche e politiche sociali,
tra mercato e istituzioni, tra qualità dello sviluppo e qualità del capitale umano.
Altrimenti diventa forte il rischio che lintegrazione monetaria comporti per
lItalia lacerazioni profonde, sia sociali che territoriali.
Che succede quando i salari verranno pagati con la stessa moneta ad
Amburgo e a Bari? Succede che, venendo allo scoperto tutti i differenziali di
produttività e di costo (del lavoro e di servizi), diventerà molto forte la spinta a
cercare laggiustamento sul lavoro e sui diritti e a declassare le regioni più
deboli. Con la conseguenza che -se questa spinta passerà- resterà irrisolto il problema
di fondo che condiziona il nostro avvenire che dopotutto è quello di entrare nella fascia
alta della competitività per riuscire a competere sulla qualità e non sul prezzo, e non
quindi sul lavoro nero, sulla illegalità e sullarte di arrangiarsi. Sapendo che in
questo caso diventerebbe molto difficile mantenere unito il paese, difendere i diritti di
cittadinanza, rilegittimare le istituzioni democratiche.
Io credo che solo rendendo chiari questi dilemmi il dibattito politico
italiano può essere rimesso con i piedi per terra. Solo così si capisce che cosè
oggi la destra e di che cosa si nutre, e si capisce, quindi, perchè è difficile dirsi
"innovatori" se non ci si schiera su discrimini reali come questi; e si capisce
anche perchè un rilancio dello schieramento che vinse il 21 aprile del 1996 e portò
lItalia nella moneta unica presuppone un nuovo programma - un programma non solo per
arrivare ma per restare in questa Europa. Io non so se mi fa velo la partigianeria
politica ma francamente non comprendo come il rilancio del centro-sinistra può farsi
sulla crisi di una sinistra che ha le sue radici nella storia e nelle lotte del mondo del
lavoro. Davvero non sta qui, in queste radici, il "vecchio" che ostacolerebbe il
"nuovo". Chi lo pensa non ha capito che esattamente il lavoro italiano, la sua
qualità, la sua nuova possibile potenza sociale, il suo ruolo potenzialmente più grandi
in una economia basata sulla conoscenza e non sulla manovalanza -e dico, quindi, lavoro
nel senso più ampio, compreso quello creativo, la scienza, la cultura, compreso il lavoro
di chi organizza e intraprende- è esattamente questo al centro dello scontro. Certo, i
vecchi schemi non servono. Senza una forte iniezione di flessibilità restiamo fuori da
processi così rapidi e profondi di trasformazione. Ma flessibilità di tutti i fattori,
compresa la pubblica amministrazione, compresa la contendibilità delle imprese, compreso
luso del capitale. Per ciò che riguarda il lavoro è chiaro che il contratto a
tempo pieno e per tutta la vita non sarà più la regola. Ma tanto più allora diventa
essenziale introdurre nuovi diritti: quello di avere voce nelle scelte che cambiano
lorganizzazione del lavoro e di ricevere una formazione permanente. Per cui -ecco il
punto- una nuova alleanza dovrebbe in sostanza basarsi su una scommessa da proporre anche
alle imprese: riformare il Welfare nel senso di farne una strategia di investimento sulle
persone, di formazione, e quindi di inserimento nella società anche dei più deboli; e al
tempo stesso riformare il mercato del lavoro nel senso di renderlo più flessibile, ma
facendo della difesa del capitale umano unarma per spingere le produzioni su
sentieri più avanzati.
A me pare che stia in ciò limportanza del patto siglato tra il
governo italiano e le parti sociali. E un passo molto importante che va in questa
direzione. Ed è in questa direzione -rafforzare il capitale umano, il sapere,
lintelligenza collettiva- che io cercherei una risposta allinterrogativo circa
quale ossatura dare allItalia per non subire una internazionalizzazione passiva. Una
somma algebrica delle nostre forze e delle nostre debolezze è molto difficile fare. La
partita è aperta e non va sottovalutato il cammino di questi anni. Importanti riforme
sono state avviate e si sono create le condizioni per rimettere il Paese in movimento. Ma
grandi rischi sono davanti a noi. Si ha sempre paura di esagerare; ma che succede se non
si inverte la tendenza per cui tra pochi anni il numero dei pensionati supera quello degli
occupati? Il dato è semplicemente impressionante: tra venti anni ci saranno 6 milioni di
italiani in meno ma come risultato di 5 milioni di ultrasessantenni in più e 11 milioni
di giovani in meno. La Banca dItalia ha misurato le conseguenze di ciò sulla forza
e il dinamismo della nostra economia. Sono catastrofiche. Ma già oggi -ci ricordava il
governatore Fazio- lItalia presenta un deficit grave di scolarizzazione in relazione
alla sua collocazione internazionale: solo il 28 per cento degli italiani di età compresa
tra il 25 e i 64 anni ha un titolo di studio di scuola secondaria superiore o di
università, mentre tale quota è del 50 per cento in Francia, dell82 per cento in
Germania e del 65 per cento in Gran Bretagna.
E allora? Allora il cuore di un nuovo programma non può che essere
quello di rimodellare le istituzioni sociali e le istituzioni politiche per dare al paese
quelle sicurezze, quella voglia di rimettersi in camino. quella disponibilità al
cambiamento, che da anni sembra aver perso. LEuropa ci aiuta? Qui sta la vera
novità con tutti i suoi interrogativi. Io, in effetti, penso di si. Ed essenzialmente per
una ragione: perchè lintegrazione dellItalia in una realtà più ampia e più
aperta, la quale si colloca (e quindi, ci colloca) ai vertici del mondo, rappresenta uno
stimolo potente anche intellettuale per pensare la politica in modo nuovo, per misurarla
di più sui problemi del futuro, per fare quelle cose che altrimenti sarebbe impossibile
fare, e cioè dare soluzioni nuove ai problemi storici e incancreniti di questo paese.
Voglio dire, in altri termini, che se è vero che alcune partite le
abbiamo forse già perse, è vero anche che con lEuropa, altre si riaprono. Quella
del Mezzogiorno, per esempio, che cessa di essere soltanto la questione meridionale, cioè
un problema che il vecchio Stato nazionale non è mai riuscito a risolvere anche perchè
era parte integrante della sua formazione storica e del suo blocco di potere. Che succede
nel momento in cui il Mezzogiorno diventa la più grande regione dEuropa e una nuova
risorsa possibile, nel senso di una risorsa strategica e geo-politica (oltre che
economica) essendo il ponte naturale verso i popoli del Mediterraneo?Non per caso negli
ultimi due anni i porti del Mediterraneo hanno registrato un vero e proprio boom di
traffico e per la prima volta dopo trentanni hanno iniziato a erodere la quota di
mercato europeo dei grandi scali del Nord.
Per esempio le città: il sistema urbano e dei trasporti come parte
integrante della costruzione europea. Il fatto che le nostre grandi imprese multinazionali
si contino con le dita di una mano pesa ma, a ben vedere, più si sviluppa una economia
immateriale più contano anche le città e conta, quindi, quel tessuto urbano che solo
lItalia ha avuto senza interruzioni per 2000 anni. Voglio dire che le città contano
quanto e più delle imprese per la crescita nel lungo periodo essendo il luogo
dellidentità storica ma anche quello dove si addensano la ricerca scientifica, le
Università, i servizi , le competenze umane più sofisticate, i luoghi dove si creano le
nuove opportunità. Guardiamo a come si stanno sviluppando alcune medio-grandi città
europee come nodi di reti di trasporto, di informazione, di finanza, di telecomunicazione.
Si pensi a come si sono messe in rete Parigi-Londra-Amsterdam-Bruxelles-Bonn. E si misuri
così il nostro ritardo. Ma è il ritardo di un paese che in questo campo ha pur sempre
grandi chances. Si pensi solo al ruolo nuovo, non più soltanto nazionale che possono
svolgere città come quelle grandi e civilissime capitali mediterranee che sono Napoli e
Palermo. Per non parlare di Milano capitale della Padania ma anche snodo di una grande
direttrice di collegamento dove la rete Nord Sud si intreccia con quella che dai Balcani
va alla penisola Iberica.
Sono solo esempi.
Concluderei quindi come ho cominciato: guardando al problema dellintegrazione
europea come a un tipo di sfida che non riguarda solo questo o quel settore ma "il
più complessivo modo di vivere di una popolazione come forza produttiva". Si tratta,
dunque, degli italiani e del futuro che per essi immaginiamo. Ed è per questo che aprendo
la nostra discussione mi è sembrato giusto sottolineare il ruolo cruciale della politica,
della grande politica, quella capace di dare al Paese fiducia in se stesso e di mobilitare
le risorse che fanno la forza e lidentità di una nazione .