
“Derrida nichilista, relativista,
scettico, postmoderno, a seconda dei casi. Si tratta
di etichette particolarmente sbagliate, che per fortuna
si applicano a una persona e non a un medicinale”.
Maurizio Ferraris, docente di filosofia teoretica e
direttore di un istituto fuori dagli schemi accademici
come il Laboratorio di ontologia dell'università
di Torino, è categorico: il pensiero di un filosofo
come Jacques Derrida non può essere ridotto a
formule buone per tifare nella polemica sui quotidiani
o nelle università. "Alle cose stesse!"
era lo slogan di Husserl, uno dei punti di riferimento
del padre della decostruzione. Può tornare utile
anche per guardare senza pregiudizi i complicati percorsi
intellettuali di Derrida.
Ex enfant prodige della filosofia italiana, Ferraris
conosce a fondo Derrida. Insieme hanno firmato libri
(Il gusto del segreto, Laterza), e da poco
è in libreria una sua Introduzione
(Laterza) chiara e precisa al pensiero del filosofo
franco-algerino. In questa intervista gli abbiamo
chiesto di mettere a fuoco il legame tra Derrida e
l'Europa, gli Stati Uniti, le sue idee sulla guerra
e sulla pace.
Professor Ferraris, è possibile definire
Derrida un filosofo europeo?
Derrida è un intellettuale “europeo”
in un senso piuttosto anomalo, come lui stesso ha
sottolineato: la sua è una famiglia ebrea sefardita,
cacciata dalla Spagna insieme agli arabi dai re cattolicissimi
dopo la riconquista, che dunque era già in
Algeria quando sono arrivati i francesi (e la concessione
della nazionalità francese è arrivata
ancora dopo), così che ha sempre vissuto la
cultura e la lingua francese come qualcosa di venuto
dall’esterno e insieme come l’unica lingua
e cultura che possedesse.
Dunque, si potrebbe dire, Derrida partiva da una
posizione marginale rispetto alla cultura europea.
Ma sarà vero? Habermas, nato nel cuore dell’Europa,
si è affacciato al mondo della cultura facendo
interagire in modo vigoroso e creativo la cultura
tedesca con quella americana. Insomma, non sono sicuro
che sia il fatto di scoprirsi europei ad avere avvicinato
questi quasi coetanei, ma la saggezza che talvolta
viene dagli anni e dalle esperienze.
In generale, quali sono i filosofi che hanno
riflettuto sull'Europa, sulla sua identità
specifica?
Quasi tutti, almeno da quando c’è l’idea
dell’Europa, e con risultati non sempre rassicuranti.
Pensi, ad esempio, al fatto che l’appello allo
“spirito europeo” ha potuto essere condiviso,
nello stesso giro d’anni, da Husserl e da Hitler,
da Husserl cacciato dall’università perché
ebreo, ma che tuttavia sosteneva che gli zingari e
gli eschimesi sono estranei allo spirito europeo benché
fisicamente abitino in Europa, e da Hitler che si
è richiamato allo spirito europeo parlando
alla radio il giorno che i tedeschi hanno attaccato
la Russia…
Sia Habermas che Derrida nel libro-intervista
(Laterza) con Giovanna Borradori si richiamano all’Illuminismo
e ai suoi valori. Che significato ha l’Illuminismo
per Derrida?
Un filosofo non può che essere illuminista,
ci mancherebbe solo che i filosofi facessero gli oscurantisti,
anche se indubbiamente in tanti casi finiscono per
esserlo. Ma non c’è peggior oscurantista
di quello che si crede un illuminista perfetto, l’incarnazione
del progresso e della razionalità. Dunque bisogna
ragionare, analizzarsi, continuare il lavoro. E questo
è il significato dell’illuminismo di
Derrida, che è poi la frase di Rousseau che
Kant citava nel suo saggio sull’Illuminismo:
“Svegliati, esci dall’infanzia”.
Nel libro con Habermas e in altre uscite pubbliche
degli ultimi anni, Derrida si è avvicinato
molto a temi e filosofi con i quali si era scontrato
in passato. Come spiega quest’incontro?
Innanzitutto, vorrei sottolineare che è stato
Habermas ad avvicinarsi a Derrida. Habermas ha fatto
sì che nel 2002 dessero a Derrida il Premio
Adorno, lo stesso che aveva ricevuto lui nel –
se non ricordo male – 1982, tenendo un discorso
che attaccava, tra gli altri, Derrida. Derrida ha
accettato felice il premio del 2002 e ha lasciato
perdere il discorso del 1982, come è giusto
che sia, ma il suo discorso si chiudeva domandandosi
come mai ci sia un premio per Adorno e non un premio
per Benjamin, il che è tutta una agudeza
tipica di Derrida: perché non c’è
un premio intitolato a quell’intellettuale ebreo
della scuola di Francoforte tanto più intelligente
di Adorno? Visto che “premio” in francese
è come “prezzo” (prix), la conclusione
era anche che Benjamin non ha prezzo che si possa
ripagare con un premio. La risposta, se mi si passa
la battuta supplementare, è impagabile.
Perché un filosofo originale come Derrida
ha riscosso un grande successo negli Stati Uniti?
Perché è un Paese capace di grandi
aperture. O almeno lo era, quando Derrida ha incominciato
a insegnarci nella seconda metà degli anni
Sessanta. Forse ora non sarebbe lo stesso. A parte
questo, c’era talmente tanta filosofia analitica,
in America, che una iniezione di filosofia continentale
era necessaria, e credo che nessuno meglio di Derrida
avrebbe potuto rispondere a queste aspettative, anche
se a lungo la sua ricezione, come sa, ha avuto luogo
nei dipartimenti di letteratura comparata, e solo
molto più di recente, e non senza fortissime
resistenze, in quelli di filosofia.
Le posizioni "antiamericane" degli
ultimi libri pubblicati in Italia sono assimilabili
a quelle di alcuni intellettuali radical
americani, tipo Chomsky?
Chomsky scrive dall’interno, Derrida da ospite.
Un ospite che probabilmente, rispetto a chi scrive
dall’interno, ha in più nostalgia per
l’apertura culturale dell’America di un
tempo, e il ricordo di quando gli americani sono sbarcati
in Marocco iniziando la liberazione del Nord Africa,
nel 1943. E fecero cessare la discriminazione razziale
nei confronti degli ebrei che il governo francese,
senza che ci fosse un solo tedesco in Algeria, aveva
attuato nel 1942, per esempio allontanando Derrida
da scuola.
Passiamo al nostro Paese. Cosa segna oggi
in Italia il borsino filosofico su Derrida?
Siamo al massimo, o, per usare una metafora questa
volta metereologica, al bello stabile. Moltissimi
dei sospetti, delle settorializzazioni che circondavano
la sua opera trent’anni fa si sono dissolti.
E questo non vale solo per l’Italia, ma per
tutta l’Europa, tranne forse la Francia, ma
forse è vero che nessuno è profeta in
patria.
Come spiega l'impegno più politico
che teoretico del Derrida degli ultimi anni?
Non direi che “più politico” equivalga
a “meno teoretico”. Derrida mi sembra
diventato molto più esplicitamente teorico
negli ultimi anni di quanto non lo fosse prima.
E' possibile in breve definire cosa intende
Derrida per "decostruzione"?
Cerco la più breve: è l’equivalente
di quello che Freud chiamava “analisi interminabile”.
Non abbiamo mai finito di analizzarci, non siamo mai
definitivamente in chiaro con noi stessi, ma se il
nostro lavoro ha un senso, sta nel fatto che, speriamo,
ogni volta siamo un po’ più in chiaro.
A cosa serve la filosofia? Come è cambiata
dagli anni Sessanta a oggi?
Credo che negli anni Sessanta dominasse, almeno in
molti settori, l’idea che la filosofia è
soprattutto una critica della ideologia. Posizione
necessaria ma insufficiente. Adesso credo che si sia
imposta l’idea che la critica non basta, che
la filosofia può essere utile e fondativa.
E personalmente la condivido, così come credo
la condivida Derrida quando ricorda che la decostruzione
comporta anche un momento di costruzione.
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