248- 06.03.04


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Il filosofo al di là delle etichette

Maurizio Ferraris con Alessandro Lanni


“Derrida nichilista, relativista, scettico, postmoderno, a seconda dei casi. Si tratta di etichette particolarmente sbagliate, che per fortuna si applicano a una persona e non a un medicinale”. Maurizio Ferraris, docente di filosofia teoretica e direttore di un istituto fuori dagli schemi accademici come il Laboratorio di ontologia dell'università di Torino, è categorico: il pensiero di un filosofo come Jacques Derrida non può essere ridotto a formule buone per tifare nella polemica sui quotidiani o nelle università. "Alle cose stesse!" era lo slogan di Husserl, uno dei punti di riferimento del padre della decostruzione. Può tornare utile anche per guardare senza pregiudizi i complicati percorsi intellettuali di Derrida.

Ex enfant prodige della filosofia italiana, Ferraris conosce a fondo Derrida. Insieme hanno firmato libri (Il gusto del segreto, Laterza), e da poco è in libreria una sua Introduzione (Laterza) chiara e precisa al pensiero del filosofo franco-algerino. In questa intervista gli abbiamo chiesto di mettere a fuoco il legame tra Derrida e l'Europa, gli Stati Uniti, le sue idee sulla guerra e sulla pace.

Professor Ferraris, è possibile definire Derrida un filosofo europeo?

Il filosofo al di lö delle etichette
Quando la sera andavamo in rue d'Ulm
Contro il terrore

Derrida è un intellettuale “europeo” in un senso piuttosto anomalo, come lui stesso ha sottolineato: la sua è una famiglia ebrea sefardita, cacciata dalla Spagna insieme agli arabi dai re cattolicissimi dopo la riconquista, che dunque era già in Algeria quando sono arrivati i francesi (e la concessione della nazionalità francese è arrivata ancora dopo), così che ha sempre vissuto la cultura e la lingua francese come qualcosa di venuto dall’esterno e insieme come l’unica lingua e cultura che possedesse.

Dunque, si potrebbe dire, Derrida partiva da una posizione marginale rispetto alla cultura europea. Ma sarà vero? Habermas, nato nel cuore dell’Europa, si è affacciato al mondo della cultura facendo interagire in modo vigoroso e creativo la cultura tedesca con quella americana. Insomma, non sono sicuro che sia il fatto di scoprirsi europei ad avere avvicinato questi quasi coetanei, ma la saggezza che talvolta viene dagli anni e dalle esperienze.

In generale, quali sono i filosofi che hanno riflettuto sull'Europa, sulla sua identità specifica?

La parabola illuminista di Derrida
Le affinitö elettive fra il decostrutture e il grande schermo
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Derrida nella rete
Quasi tutti, almeno da quando c’è l’idea dell’Europa, e con risultati non sempre rassicuranti. Pensi, ad esempio, al fatto che l’appello allo “spirito europeo” ha potuto essere condiviso, nello stesso giro d’anni, da Husserl e da Hitler, da Husserl cacciato dall’università perché ebreo, ma che tuttavia sosteneva che gli zingari e gli eschimesi sono estranei allo spirito europeo benché fisicamente abitino in Europa, e da Hitler che si è richiamato allo spirito europeo parlando alla radio il giorno che i tedeschi hanno attaccato la Russia…

Sia Habermas che Derrida nel libro-intervista (Laterza) con Giovanna Borradori si richiamano all’Illuminismo e ai suoi valori. Che significato ha l’Illuminismo per Derrida?

Un filosofo non può che essere illuminista, ci mancherebbe solo che i filosofi facessero gli oscurantisti, anche se indubbiamente in tanti casi finiscono per esserlo. Ma non c’è peggior oscurantista di quello che si crede un illuminista perfetto, l’incarnazione del progresso e della razionalità. Dunque bisogna ragionare, analizzarsi, continuare il lavoro. E questo è il significato dell’illuminismo di Derrida, che è poi la frase di Rousseau che Kant citava nel suo saggio sull’Illuminismo: “Svegliati, esci dall’infanzia”.

Nel libro con Habermas e in altre uscite pubbliche degli ultimi anni, Derrida si è avvicinato molto a temi e filosofi con i quali si era scontrato in passato. Come spiega quest’incontro?

Innanzitutto, vorrei sottolineare che è stato Habermas ad avvicinarsi a Derrida. Habermas ha fatto sì che nel 2002 dessero a Derrida il Premio Adorno, lo stesso che aveva ricevuto lui nel – se non ricordo male – 1982, tenendo un discorso che attaccava, tra gli altri, Derrida. Derrida ha accettato felice il premio del 2002 e ha lasciato perdere il discorso del 1982, come è giusto che sia, ma il suo discorso si chiudeva domandandosi come mai ci sia un premio per Adorno e non un premio per Benjamin, il che è tutta una agudeza tipica di Derrida: perché non c’è un premio intitolato a quell’intellettuale ebreo della scuola di Francoforte tanto più intelligente di Adorno? Visto che “premio” in francese è come “prezzo” (prix), la conclusione era anche che Benjamin non ha prezzo che si possa ripagare con un premio. La risposta, se mi si passa la battuta supplementare, è impagabile.

Perché un filosofo originale come Derrida ha riscosso un grande successo negli Stati Uniti?

Perché è un Paese capace di grandi aperture. O almeno lo era, quando Derrida ha incominciato a insegnarci nella seconda metà degli anni Sessanta. Forse ora non sarebbe lo stesso. A parte questo, c’era talmente tanta filosofia analitica, in America, che una iniezione di filosofia continentale era necessaria, e credo che nessuno meglio di Derrida avrebbe potuto rispondere a queste aspettative, anche se a lungo la sua ricezione, come sa, ha avuto luogo nei dipartimenti di letteratura comparata, e solo molto più di recente, e non senza fortissime resistenze, in quelli di filosofia.

Le posizioni "antiamericane" degli ultimi libri pubblicati in Italia sono assimilabili a quelle di alcuni intellettuali radical americani, tipo Chomsky?

Chomsky scrive dall’interno, Derrida da ospite. Un ospite che probabilmente, rispetto a chi scrive dall’interno, ha in più nostalgia per l’apertura culturale dell’America di un tempo, e il ricordo di quando gli americani sono sbarcati in Marocco iniziando la liberazione del Nord Africa, nel 1943. E fecero cessare la discriminazione razziale nei confronti degli ebrei che il governo francese, senza che ci fosse un solo tedesco in Algeria, aveva attuato nel 1942, per esempio allontanando Derrida da scuola.

Passiamo al nostro Paese. Cosa segna oggi in Italia il borsino filosofico su Derrida?

Siamo al massimo, o, per usare una metafora questa volta metereologica, al bello stabile. Moltissimi dei sospetti, delle settorializzazioni che circondavano la sua opera trent’anni fa si sono dissolti. E questo non vale solo per l’Italia, ma per tutta l’Europa, tranne forse la Francia, ma forse è vero che nessuno è profeta in patria.

Come spiega l'impegno più politico che teoretico del Derrida degli ultimi anni?

Non direi che “più politico” equivalga a “meno teoretico”. Derrida mi sembra diventato molto più esplicitamente teorico negli ultimi anni di quanto non lo fosse prima.

E' possibile in breve definire cosa intende Derrida per "decostruzione"?

Cerco la più breve: è l’equivalente di quello che Freud chiamava “analisi interminabile”. Non abbiamo mai finito di analizzarci, non siamo mai definitivamente in chiaro con noi stessi, ma se il nostro lavoro ha un senso, sta nel fatto che, speriamo, ogni volta siamo un po’ più in chiaro.

A cosa serve la filosofia? Come è cambiata dagli anni Sessanta a oggi?

Credo che negli anni Sessanta dominasse, almeno in molti settori, l’idea che la filosofia è soprattutto una critica della ideologia. Posizione necessaria ma insufficiente. Adesso credo che si sia imposta l’idea che la critica non basta, che la filosofia può essere utile e fondativa. E personalmente la condivido, così come credo la condivida Derrida quando ricorda che la decostruzione comporta anche un momento di costruzione.



 

 

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