248- 06.03.04


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Come una superstar

Paola Casella

Che Jacques Derrida sia un potenziale divo del cinema lo dimostrano non solo le iniziali alla James Dean e la pompadour di capelli candidi perfettamente acconciati: esistono almeno tre film che lo ritraggono più o meno in profondità, e ci rivelano il suo talento di performer e il suo carisma da star.

Il primo, in ordine cronologico, è un lungometraggio di fiction del 1983, Ghost Dance di Ken McMullen, in cui Derrida interpreta se stesso. Il titolo del film è di per sé derridiano: "Il cinema è l'arte di evocare fantasmi", dice lo stesso filosofo in Ghost Dance, e prosegue a spiegare che un film è la messa in scena di fantasmi che rimandano, attraverso la loro stessa presenza, ad un oltre invisibile, che sta allo spettatore immaginare, perché "uno spettro è allo stesso tempo fenomenico e non fenomenico: una traccia che segna anticipatamente il presente della sua assenza".

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Se in Ghost Dance Derrida era solo un personaggio di contorno, in D'ailleurs Derrida, il docu-fiction realizzato dalla regista e poetessa egiziana Safaa Fathy nel 1999, il filsosofo è la star, e il tema, caro a Derrida, è quello del nomadismo della mente, della condizione filosofica (e categoria dello spirito) dell'essere profughi (come la regista e il prim'attore, entrambi trapiantati dal loro paese natale in Francia). Del resto il cinema, nelle parole di Derrida (debitamente riportate da D'ailleurs Derrida), funziona di per sé da strumento di creazione (o sottolineatura) dell'alterità, poiché "mette in mostra una presenza che è contemporaneamente anche assenza".

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Dato che ogni film, secondo Derrida, è attività decostruttiva, il protagonista di D'ailleurs Derrida si (pre)occupa di ribadire costantemente la marginalità della propria presenza in scena, la parzialità di un ritratto che, nel momento stesso in cui si manifesta, rimanda a ciò che non può essere visto, ma che è componente altrettanto fondamentale dell'identità - dell'uomo, del filosofo, del personaggio cinematografico. E invita gli spettatori ad accogliere, invece che a ignorare, le infinite metamorfosi del testo filmico, che si propone come "parola", anche se, come ricorda sempre Derrida, "nel cinema l'ultima parola spetta sempre all'immagine". Il pubblico è esplicitamente chiamato a com-prendere l'infinito discorso di rimaneggiamento testuale che comporta la finzione filmica: "Tutto ciò che dico sarà selezionato e quindi si opera la stessa selezione del montaggio e dunque si sommano le selezioni dei linguaggi adottati," fa presente il filosofo in D'ailleurs Derrida.

All'interno di questa dialettica, i concetti filosofici illustrati da Derrida nel corso del docu-fiction sono messi in discussione nel momento stesso in cui vengono enunciati. Il cinema diventa allora "una forza che attiva il senso, che mostra, senza rappresentarlo, la profondità del reale". E a seguito del film, in Francia è subito uscito un libro, Tourner le mots au bord d'un film, cofirmato Derrida e Safaa Fathy, e ispirato da (o ispirante?) le immagini del film.

Contradditorio, nel rispetto profondo del concetto di contraddizione, è il ritratto di Derrida offerto da Amy Ziering Kofman, ex alunna del filosofo all'Università di Yale, che insieme al regista Kirby Dick ha realizzato il documentario Derrida, con tanto di colonna sonora firmata Ryuichi Sakamoto, presentato lo scorso anno al Sundance Film Festival e attualmente in circolazione nelle sale cinematografiche francesi e tedesche.

Il documentario segue Derrida attraverso lezioni di filosofia negli Stati Uniti e in Sudafrica e pomeriggi nell'"intimità" della sua casa, arrivando a seguirlo dal parrucchiere, per autoironica iniziativa dello stesso protagonista, intento a mostrare il proprio narcisismo come ennesimo elemento di decostruzione della propria immagine, uno dei tanti in grado di alterare la percezione dello spettatore - come lo è, in primis, l'atto stesso di apparire su pellicola. E' lo stesso Derrida a rammentare al pubblico la presenza costante delle troupe, a smantellare l'apparato scenico che lo circonda, ad autodescriversi come un surrogato di se stesso, generato dall'artificialità delle proprie circostanze: uno sforzo speculare e contrario a quello intrapreso dai protagonisti dei reality show - nome che Derrida probabilmente considera un ossimoro.

Derrida è stato definito dal Los Angeles Times "l'equivalente cinematografico di una droga per espandere la mente", riferendosi alla qualità ipertestuale del discorso filosofico derridiano quanto alla capacità dei due registi di raccontare il personaggio senza mai pretendere di dire la parola finale sul filosofo, o di fornire la chiave di lettura definitiva del suo pensiero. Il tentativo di Ziering Kofman e Kirby non è quello di fotografare il loro soggetto - consci dei limiti dell'immagine enunciati dal soggetto stesso - ma di rifrangerlo come attraverso un poliedro, senza spaventarsi dell'inevitabile complessità del risultato, senza semplificare la stratificazione degli elementi a disposizione dello spettatore.

All'indomani della prima proiezione di Derrida, nella percezione simplicistica dei critici americani, il protagonista è stato descritto come "il Mick Jagger del milieu filosofico", un clone del Bilbo Biggins interpretato da Ian Holm nel primo Signore degli anelli e "un Albert Einstein contemporaneo" (per via non già della levatura mentale, ma della capigliatura ingovernabile pre coiffeur). Tutte definizioni che devono aver fatto sorridere, e forse anche arrossire di piacere, il filosofo per cui, come ha scritto un giornalista d'oltreoceano, "l'atto di pensare diventa performance".

Il link:

Il sito del documentario Derrida.



 

 

 

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