
Che Jacques Derrida sia un potenziale
divo del cinema lo dimostrano non solo le iniziali alla
James Dean e la pompadour di capelli candidi perfettamente
acconciati: esistono almeno tre film che lo ritraggono
più o meno in profondità, e ci rivelano
il suo talento di performer e il suo carisma da star.
Il primo, in ordine cronologico, è un lungometraggio
di fiction del 1983, Ghost Dance di Ken McMullen,
in cui Derrida interpreta se stesso. Il titolo del
film è di per sé derridiano: "Il
cinema è l'arte di evocare fantasmi",
dice lo stesso filosofo in Ghost Dance, e
prosegue a spiegare che un film è la messa
in scena di fantasmi che rimandano, attraverso la
loro stessa presenza, ad un oltre invisibile, che
sta allo spettatore immaginare, perché "uno
spettro è allo stesso tempo fenomenico e non
fenomenico: una traccia che segna anticipatamente
il presente della sua assenza".
Se in Ghost Dance Derrida era solo un personaggio
di contorno, in D'ailleurs Derrida, il docu-fiction
realizzato dalla regista e poetessa egiziana Safaa
Fathy nel 1999, il filsosofo è la star, e il
tema, caro a Derrida, è quello del nomadismo
della mente, della condizione filosofica (e categoria
dello spirito) dell'essere profughi (come la regista
e il prim'attore, entrambi trapiantati dal loro paese
natale in Francia). Del resto il cinema, nelle parole
di Derrida (debitamente riportate da D'ailleurs
Derrida), funziona di per sé da strumento
di creazione (o sottolineatura) dell'alterità,
poiché "mette in mostra una presenza che
è contemporaneamente anche assenza".
Dato che ogni film, secondo Derrida, è attività
decostruttiva, il protagonista di D'ailleurs Derrida
si (pre)occupa di ribadire costantemente la marginalità
della propria presenza in scena, la parzialità
di un ritratto che, nel momento stesso in cui si manifesta,
rimanda a ciò che non può essere visto,
ma che è componente altrettanto fondamentale
dell'identità - dell'uomo, del filosofo, del
personaggio cinematografico. E invita gli spettatori
ad accogliere, invece che a ignorare, le infinite
metamorfosi del testo filmico, che si propone come
"parola", anche se, come ricorda sempre
Derrida, "nel cinema l'ultima parola spetta sempre
all'immagine". Il pubblico è esplicitamente
chiamato a com-prendere l'infinito discorso di rimaneggiamento
testuale che comporta la finzione filmica: "Tutto
ciò che dico sarà selezionato e quindi
si opera la stessa selezione del montaggio e dunque
si sommano le selezioni dei linguaggi adottati,"
fa presente il filosofo in D'ailleurs Derrida.
All'interno di questa dialettica, i concetti filosofici
illustrati da Derrida nel corso del docu-fiction sono
messi in discussione nel momento stesso in cui vengono
enunciati. Il cinema diventa allora "una forza
che attiva il senso, che mostra, senza rappresentarlo,
la profondità del reale". E a seguito
del film, in Francia è subito uscito un libro,
Tourner le mots au bord d'un film, cofirmato
Derrida e Safaa Fathy, e ispirato da (o ispirante?)
le immagini del film.
Contradditorio, nel rispetto profondo del concetto
di contraddizione, è il ritratto di Derrida
offerto da Amy Ziering Kofman, ex alunna del filosofo
all'Università di Yale, che insieme al regista
Kirby Dick ha realizzato il documentario Derrida,
con tanto di colonna sonora firmata Ryuichi Sakamoto,
presentato lo scorso anno al Sundance Film Festival
e attualmente in circolazione nelle sale cinematografiche
francesi e tedesche.
Il documentario segue Derrida attraverso lezioni
di filosofia negli Stati Uniti e in Sudafrica e pomeriggi
nell'"intimità" della sua casa, arrivando
a seguirlo dal parrucchiere, per autoironica iniziativa
dello stesso protagonista, intento a mostrare il proprio
narcisismo come ennesimo elemento di decostruzione
della propria immagine, uno dei tanti in grado di
alterare la percezione dello spettatore - come lo
è, in primis, l'atto stesso di apparire su
pellicola. E' lo stesso Derrida a rammentare al pubblico
la presenza costante delle troupe, a smantellare l'apparato
scenico che lo circonda, ad autodescriversi come un
surrogato di se stesso, generato dall'artificialità
delle proprie circostanze: uno sforzo speculare e
contrario a quello intrapreso dai protagonisti dei
reality show - nome che Derrida
probabilmente considera un ossimoro.
Derrida è stato definito dal Los
Angeles Times "l'equivalente cinematografico
di una droga per espandere la mente", riferendosi
alla qualità ipertestuale del discorso filosofico
derridiano quanto alla capacità dei due registi
di raccontare il personaggio senza mai pretendere
di dire la parola finale sul filosofo, o di fornire
la chiave di lettura definitiva del suo pensiero.
Il tentativo di Ziering Kofman e Kirby non è
quello di fotografare il loro soggetto - consci dei
limiti dell'immagine enunciati dal soggetto stesso
- ma di rifrangerlo come attraverso un poliedro, senza
spaventarsi dell'inevitabile complessità del
risultato, senza semplificare la stratificazione degli
elementi a disposizione dello spettatore.
All'indomani della prima proiezione di Derrida,
nella percezione simplicistica dei critici americani,
il protagonista è stato descritto come "il
Mick Jagger del milieu filosofico", un clone
del Bilbo Biggins interpretato da Ian Holm nel primo
Signore degli anelli e "un Albert Einstein
contemporaneo" (per via non già della
levatura mentale, ma della capigliatura ingovernabile
pre coiffeur). Tutte definizioni che devono aver fatto
sorridere, e forse anche arrossire di piacere, il
filosofo per cui, come ha scritto un giornalista d'oltreoceano,
"l'atto di pensare diventa performance".
Il link:
Il sito del documentario Derrida.
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