248- 06.03.04


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Le affinità elettive fra il decostrutture e il grande schermo

Paola Casella

Nel 1992 l'Università di Cambridge fu sul punto di rifiutare la laurea honoris causa a Jacques Derrida, adducendo la seguente motivazione: "Derrida descrive se stesso come filosofo, e i suoi scritti presentano indubbiamente alcune delle caratteristiche degli scritti in questa disciplina. Tuttavia, la loro influenza si è esercitata, a un livello elevatissimo, quasi soltanto in campi esterni alla filosofia". Fra quei campi, l'università citava la letteratura francese e inglese e - orrore! - il cinema.

In effetti, il pensiero di Derrida ha influenzato molto cinema contemporaneo. Forse si tratta solo di affinità elettive, forse il tempismo della filosofia derridiana coincide con quello dell'intuizione artistica dei grandi autori della settima musa - e forse questo implica che entrambe siano destinate ad apparire datate nel futuro. Ma al momento è facile avvertire l'impatto delle teorie del filosofo franco-algerino sui film di oggi che pongono domande esistenziali.

Il cinema americano lo fa in modo più esplicito, e più citazionistico: basti pensare che il titolo originale di Harry a pezzi, la commedia agrodolce di Woody Allen, era Deconstructing Harry, e che Hans Magnus Enzensberger ha descritto il protagonista di American Beauty come "un decostruzionista che condivide con il filosofo postmoderno la rinuncia ai grandi sistemi".

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Gli autori del cinema europeo invece sembrano recepire più sottilmente (ma anche più pervasivamente) il senso, e le suggestioni, dell'universo derridiano. L'esempio più clamoroso è quello di Stanley Kubrick, americano naturalizzato inglese, la cui dialettica fra origine e futuro (un esempio per tutti: 2001 Odissea nello spazio) sembra rispecchiare in pieno il pensiero di Derrida. Ma esistono altri esempi più recenti e meno discussi: ne faremo solo tre, in rappresentanza di tre diversi paesi europei, anche per dare un'idea di come ciascuna cultura, oltre che ciascun regista, abbia filtrato le teorie del filosofo appropriandosene in modo originale e sottolineandone alcuni aspetti in particolare.

Il primo esempio è Sotto la sabbia, il dramma del 2000 che ha reso famoso in Europa il regista francese François Ozon. Sotto la sabbia narra la storia di una donna sposata il cui marito improvvisamente scompare, e mentre il resto del mondo lo dà per morto, lei continua a vederselo accanto, rifutando di accettarne la scomparsa definitiva, anche perché non ne esiste un riscontro oggettivo (il ritrovamento di un cadavere). Sotto la sabbia è una riflessione sulla morte che risente fortemente dell'influenza derridiana: ciò che la vedova non riesce ad accettare è in realtà la scomparsa dell'interlocutore che maggiormente custodisce la (di lei) mortalità, nel senso della sua identità costituita da un passato condiviso e la possibilità di rievocarlo con (grazie a) un altro. Il lutto, come dice Derrida, rimane dunque per lei un'esperienza incompleta.

La parabola illuminista di Derrida
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Derrida nella rete
Inoltre il film ci porta a riflettere sull'inconoscibilità di chiunque abbiamo accanto, anche la persona con la quale abbiamo condiviso la nostra interiorità: come scrive Maurizio Ferraris in Introduzione a Derrida, "Un conto è chiedersi (...) se ci siano davvero altri soggetti fuori della nostra coscienza, un altro, ben diverso, è sapere chi siano veramente". La minaccia della sparizione - del proprio compagno, ma anche di qualunque altra "realtà" visibile - secondo Derrida è una condizione umana universale, una possibilità costante, e la rappresentazione della nostra "struttura ansiosa".

Infine il fatto che il marito "defunto" non sia meno presente agli occhi (alla percezione sensibile) della donna perché la sua presenza corporea è venuta a mancare, fa di lui un simbolo della teoria derridiana secondo la quale il mondo non è composto di cose - o persone - ma di rappresentazioni, perché "la cosa in sé si sottrae sempre". Se l'io diventa non-presenza, la vedova virtuale è perfettamente legittimata a considerare l'assenza del marito alla stregua di una presenza rappresentata, e la presenza rappresentata alla stregua di una presenza "reale". Come scrive Ferraris, "risulta impossibile, in linea di diritto, distinguere la realtà dall'immaginazione" (corsivo mio).

Per l'austriaco Michael Haneke il tema da analizzare in termini derridiani è invece quello dell'incomunicabilità fra codici non condivisi, e della incapacità di determinati segni - parte della cultura sociale contemporanea - di ricondurre a una condizione percettiva più profonda. Nel suo film del 2000; Codice sconosciuto (il cui sottotilo è, derridianamente, Storie incomplete di viaggi diversi), Haneke usa come metafora il citofono di un palazzo francese, dove l'identità degli inquilini è ridotta a un codice numerico-alfabetico.

Il codice può essere rilasciato agli estranei, e dunque consentire l'accesso all'alterità, ma non possiede in sé alcun collegamento con il soggetto cui si riferisce (al quale allude, che dovrebbe evocare). Il segno, non più indice, resta lettera muta. Le storie fra i personaggi sono "incomplete" proprio perché i loro codici non possono interagire in maniera dialettica, ed è stata rotta la catena di significante e significato. La domanda che sottende l'intera vicenda è quella, eminentemente derridiana: "In che misura il segno è costitutivo della presenza?".

Di conseguenza anche le vite dei vari personaggi vengono raccontate come frammenti (morceau, direbbe Derrida) senza connessione reciproca, senza rapporto dialettico e dunque senza senso. Un'immagine per tutte: quella della classe di bambini sordomuti che non riescono a capirsi nonostante l'uso di gesti che dovrebbero funzionare da veicolo di comunicazione. Haneke affronta il tema dell'aporia del linguaggio, dimostrandone l'inefficenza, secondo una procedura narrativa che tiene conto della teoria derridiana della decostruzione.

Infine il danese Lars Von Trier costruisce Dogville quasi interamente su presupposti, contenutistici ma anche formali, che sembrano rubati a Derrida. Dogville è la storia di una ragazza, Grace, accolta da un villaggio, Dogville appunto, a condizioni via via sempre più punitive. Il film è una parabola sulla conoscenza di sé strutturata come un codice binario, laddove l'iter di Grace è speculare e contrario a quello degli abitanti del villaggio, ed entrambi sono reciprocamente necessari, secondo quella dialettica degli opposti che è un punto cardine del pensiero di Derrida.

Anche Dogville, come Codice sconosciuto ma in modo meno immediatamente visibile, è articolato in morceau, e anzi fa uno sforzo cosciente per frammentare la narrazione fino all'impossibile. L'idea (tanto di Von Trier quanto di Derrida) è quella di un rimando ad altro, dove i vuoti (le interruzioni, i salti narrativi) sono più carichi di significato dei pieni, dove l'apparente ed esasperata letterarietà della narrazione è inutile ai fini della comprensione, ma indispensabile per alludere a ciò che è assente, ciò che si svolge fuori scena, oltre le parole e le immagini e i segni tracciati sul set, in un continuo sforzo di apertura testuale. Non è un caso che il montaggio, di solito strumento di fluidificazione della storia, ribadisca in Dogville questa discontinuità derridiana.

Contenutisticamente, in Dogville sono presenti quasi tutti i temi cari a Derrida: l'etica del dono, l'equivocabilità del perdono, la strana e perversa alchimia degli opposti, soprattutto della coppia ostilità/ospitalità, che informa tutta la vicenda della protagonista. Ma è soprattutto nella grammatica filmica - nel linguaggio - del film che si manifesta l'intenzione del regista di raccontare l'irraccontabile, di rappresentare ciò che non può essere visto, ma solo indicato.



 

 

 

 

 

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