
Nel 1992 l'Università di Cambridge
fu sul punto di rifiutare la laurea
honoris causa
a Jacques Derrida, adducendo la seguente motivazione:
"Derrida descrive se stesso come filosofo, e i
suoi scritti presentano indubbiamente alcune delle caratteristiche
degli scritti in questa disciplina. Tuttavia, la loro
influenza si è esercitata, a un livello elevatissimo,
quasi soltanto in campi esterni alla filosofia".
Fra quei campi, l'università citava la letteratura
francese e inglese e - orrore! - il cinema.
In effetti, il pensiero di Derrida ha influenzato
molto cinema contemporaneo. Forse si tratta solo di
affinità elettive, forse il tempismo della
filosofia derridiana coincide con quello dell'intuizione
artistica dei grandi autori della settima musa - e
forse questo implica che entrambe siano destinate
ad apparire datate nel futuro. Ma al momento è
facile avvertire l'impatto delle teorie del filosofo
franco-algerino sui film di oggi che pongono domande
esistenziali.
Il cinema americano lo fa in modo più esplicito,
e più citazionistico: basti pensare che il
titolo originale di Harry a pezzi, la commedia
agrodolce di Woody Allen, era Deconstructing Harry,
e che Hans Magnus Enzensberger ha descritto il protagonista
di American Beauty come "un decostruzionista
che condivide con il filosofo postmoderno la rinuncia
ai grandi sistemi".
Gli autori del cinema europeo invece sembrano recepire
più sottilmente (ma anche più pervasivamente)
il senso, e le suggestioni, dell'universo derridiano.
L'esempio più clamoroso è quello di
Stanley Kubrick, americano naturalizzato inglese,
la cui dialettica fra origine e futuro (un esempio
per tutti: 2001 Odissea nello spazio)
sembra rispecchiare in pieno il pensiero di Derrida.
Ma esistono altri esempi più recenti e meno
discussi: ne faremo solo tre, in rappresentanza di
tre diversi paesi europei, anche per dare un'idea
di come ciascuna cultura, oltre che ciascun regista,
abbia filtrato le teorie del filosofo appropriandosene
in modo originale e sottolineandone alcuni aspetti
in particolare.
Il primo esempio è Sotto la sabbia,
il dramma del 2000 che ha reso famoso in Europa il
regista francese François Ozon. Sotto la
sabbia narra la storia di una donna sposata il
cui marito improvvisamente scompare, e mentre il resto
del mondo lo dà per morto, lei continua a vederselo
accanto, rifutando di accettarne la scomparsa definitiva,
anche perché non ne esiste un riscontro oggettivo
(il ritrovamento di un cadavere). Sotto la sabbia
è una riflessione sulla morte che risente fortemente
dell'influenza derridiana: ciò che la vedova
non riesce ad accettare è in realtà
la scomparsa dell'interlocutore che maggiormente custodisce
la (di lei) mortalità, nel senso della sua
identità costituita da un passato condiviso
e la possibilità di rievocarlo con (grazie
a) un altro. Il lutto, come dice Derrida, rimane dunque
per lei un'esperienza incompleta.
Inoltre il film ci porta a riflettere sull'inconoscibilità
di chiunque abbiamo accanto, anche la persona con
la quale abbiamo condiviso la nostra interiorità:
come scrive Maurizio Ferraris in
Introduzione
a Derrida, "Un conto è chiedersi
(...) se ci siano davvero altri soggetti fuori della
nostra coscienza, un altro, ben diverso, è
sapere chi siano veramente". La minaccia della
sparizione - del proprio compagno, ma anche di qualunque
altra "realtà" visibile - secondo
Derrida è una condizione umana universale,
una possibilità costante, e la rappresentazione
della nostra "struttura ansiosa".
Infine il fatto che il marito "defunto"
non sia meno presente agli occhi (alla percezione
sensibile) della donna perché la sua presenza
corporea è venuta a mancare, fa di lui un simbolo
della teoria derridiana secondo la quale il mondo
non è composto di cose - o persone - ma di
rappresentazioni, perché "la cosa in sé
si sottrae sempre". Se l'io diventa non-presenza,
la vedova virtuale è perfettamente legittimata
a considerare l'assenza del marito alla stregua di
una presenza rappresentata, e la presenza rappresentata
alla stregua di una presenza "reale". Come
scrive Ferraris, "risulta impossibile, in linea
di diritto, distinguere la realtà
dall'immaginazione" (corsivo mio).
Per l'austriaco Michael Haneke il tema da analizzare
in termini derridiani è invece quello dell'incomunicabilità
fra codici non condivisi, e della incapacità
di determinati segni - parte della cultura sociale
contemporanea - di ricondurre a una condizione percettiva
più profonda. Nel suo film del 2000; Codice
sconosciuto (il cui sottotilo è, derridianamente,
Storie incomplete di viaggi diversi), Haneke
usa come metafora il citofono di un palazzo francese,
dove l'identità degli inquilini è ridotta
a un codice numerico-alfabetico.
Il codice può essere rilasciato agli estranei,
e dunque consentire l'accesso all'alterità,
ma non possiede in sé alcun collegamento
con il soggetto cui si riferisce (al quale allude,
che dovrebbe evocare). Il segno, non più indice,
resta lettera muta. Le storie fra i personaggi sono
"incomplete" proprio perché i loro
codici non possono interagire in maniera dialettica,
ed è stata rotta la catena di significante
e significato. La domanda che sottende l'intera vicenda
è quella, eminentemente derridiana: "In
che misura il segno è costitutivo della presenza?".
Di conseguenza anche le vite dei vari personaggi
vengono raccontate come frammenti (morceau,
direbbe Derrida) senza connessione reciproca, senza
rapporto dialettico e dunque senza senso.
Un'immagine per tutte: quella della classe di bambini
sordomuti che non riescono a capirsi nonostante l'uso
di gesti che dovrebbero funzionare da veicolo di comunicazione.
Haneke affronta il tema dell'aporia del linguaggio,
dimostrandone l'inefficenza, secondo una procedura
narrativa che tiene conto della teoria derridiana
della decostruzione.
Infine il danese Lars Von Trier costruisce Dogville
quasi interamente su presupposti, contenutistici ma
anche formali, che sembrano rubati a Derrida. Dogville
è la storia di una ragazza, Grace, accolta
da un villaggio, Dogville appunto, a condizioni
via via sempre più punitive. Il film è
una parabola sulla conoscenza di sé strutturata
come un codice binario, laddove l'iter di Grace è
speculare e contrario a quello degli abitanti del
villaggio, ed entrambi sono reciprocamente necessari,
secondo quella dialettica degli opposti che è
un punto cardine del pensiero di Derrida.
Anche Dogville, come Codice sconosciuto
ma in modo meno immediatamente visibile, è
articolato in morceau, e anzi fa uno sforzo cosciente
per frammentare la narrazione fino all'impossibile.
L'idea (tanto di Von Trier quanto di Derrida) è
quella di un rimando ad altro, dove i vuoti (le interruzioni,
i salti narrativi) sono più carichi di significato
dei pieni, dove l'apparente ed esasperata letterarietà
della narrazione è inutile ai fini della comprensione,
ma indispensabile per alludere a ciò che è
assente, ciò che si svolge fuori scena, oltre
le parole e le immagini e i segni tracciati sul set,
in un continuo sforzo di apertura testuale. Non è
un caso che il montaggio, di solito strumento di fluidificazione
della storia, ribadisca in Dogville questa discontinuità
derridiana.
Contenutisticamente, in Dogville sono presenti
quasi tutti i temi cari a Derrida: l'etica del dono,
l'equivocabilità del perdono, la strana e perversa
alchimia degli opposti, soprattutto della coppia ostilità/ospitalità,
che informa tutta la vicenda della protagonista. Ma
è soprattutto nella grammatica filmica - nel
linguaggio - del film che si manifesta l'intenzione
del regista di raccontare l'irraccontabile, di rappresentare
ciò che non può essere visto, ma solo
indicato.
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