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Recensione/Giovanna d'Arco


Paola Casella

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Giovanna d'Arco, diretto da Luc Besson, scritto da Luc Besson e Andrew Birkin, con Milla Jovovich, John Malkovich, Faye Dunaway, Dustin Hoffman

Detesto scrivere stroncature: in genere preferisco calare un velo pietoso, se un film mi appare particolarmente mal riuscito. Ma nel caso di Giovanna d'Arco lo spreco di dollari, di talento (Malkovich e Hoffman), di energie (Milla Jovovich, della quale tutto si può dire - e dirò - tranne che non ce l'abbia messa tutta) e di sforzo promozionale è tale che, in nome del cinema indipendente di tutto il mondo che combatte per rimanere a galla e porta a casa film dignitosi con quattro lire, mi sento in dovere di levare gli scudi.

Mi ergo anche a difesa del pubblico che, accecato dal battage pubblicitario di Giovanna d'Arco, rischia di ritrovarsi ostaggio di una sala cinematografica per un tempo che può apparire interminabile (il film dura quasi tre ore, e le senti tutte) rendendosi perfettamente conto, come Fantozzi davanti alla Corazzata Potemkin, che questo film è "una boiata pazzesca".

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Sarebbe stato meglio fare di Giovanna d'Arco un fantasy alla Fantaghirò, o l'equivalente medievale di uno spaghetti western, o un fumetto cinematografico, come il recente Asterix: perchè solo nei momenti in cui il film di Besson si muove su queste corde appare vagamente riuscito. Besson se la cava bene con le scene di battaglia, gli effetti speciali, la manipolazione digitale di colori e immagini: un Lamberto Bava con un sacco di soldi, o un Sergio Leone con meno respiro epico.

Peccato che Besson si sforzi di dare alla sua storia una dimensione esoterica, e di attribuirle uno spessore narrativo al di là dell'action movie, con esiti involontariamente comici: John Malkovich nei panni del re è la macchietta della checca isterica, Dustin Hoffman, travestito da grillo parlante, ricorda il Capitan Uncino di Hook. Se tutto ciò fosse voluto, sarebbe quasi geniale. Invece Besson, e la Columbia Pictures, che ha prodotto il film, e Hollywood, che ha dato carta bianca all'enfant prodige del cinema francese (e alla sua ex moglie) si prendono maledettamente sul serio.

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Milla Jovovich (ora non più "in Besson") è una Giovanna invariabilmente inespressiva, nel senso che non comunica alcuna emozione. In compenso fa molte facce, la più frequente quella dellíinvasata, col risultato di bollare l'eroina di Francia come una psicopatica pericolosa. Se avessi un milione per ogni occasione in cui gli occhi di Milla-Giovanna si riempiono di lacrime e un singolo rigagnolo le scivola giù per il viso, potrei permettermi un Exagon speraccessoriato. L'unico atout della protagonista è la bellezza androgina, accentuata dal taglio fratesco dei capelli: ma questo dovrebbe essere un dato di partenza, non un punto di arrivo di una caratterizzazione cinematografica.

Il casting in generale è inappropriato, e inefficace, prima ancora che servile. La scelta del francese Besson di raccontare una storia francese utilizzando attori non francesi, e nemmeno vagamente francesizzanti, privilegiando invece interpreti visibilmente yankee, toglie attendibilità alla vicenda, e fa apparire Besson come un cortigiano di Hollywood. Non voglio fare del facile nazionalismo: in genere sono favorevole a un casting libero da vincoli etnici e razziali. Ma perchè Besson dedica un'attenzione maniacale (e caterve di dollari, non mi stanco di ripeterlo) alla meticolosa ricostruzione delle scenografie e alla scelta dei costumi per conferire credibilità storica, e poi permette che i guerrieri "francesi" del film inneggino alla vittoria con gesti da Yankee Stadium?

Ripeto: se Besson avesse estremizzato questa scelta, facendo di tutti i guerrieri del film dei quarterback, o dei personaggi da spaghetti western (uno di loro sembra per l'appunto la fotocopia del Bud Spencer di Trinità) ci saremmo divertiti di più. Invece il regista pretende di firmare un film díautore, perdendo completamente quellíironia che aveva fatto di Diva, Nikita e Leon i gioielli del nuovo cinema americanofilo europeo.

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Tantopiù che ogni tentativo di inserire nella trama un sottotesto, un interrogativo metafisico è greve e maldestro. Con la conseguenza che mai come nella versione di Besson Giovanna d'Arco è sembrata tanto priva di dimensione trascendente. Si ha nostalgia della spiritualità della Renèe Falconetti nel film di Carl Theodor Dreyer, della purezza (recitata) di Ingrid Bergman nell'edizione di Victor Fleming, della vulnerabilità (vera) di Jean Seberg nella Santa Giovanna di Otto Preminger. La Giovanna di Besson sta fra Heidi (la bambina delle prime scene) e una modella heroin chic (Milla Jovovich alla corte del re di Francia), il suo film sta fra Altrimenti ci arrabbiamo (le scene di guerra) e Piccolo Buddha (le visioni iperrealiste, con Gesù mezzo bambino alla Sesto senso e mezzo adulto alla Marty Feldman). Nessuna vera passione, nessun afflato poetico, nessun cuore.

In compenso la violenza - granguignolesca, in alcune scene disgustosa - si spreca: e uso il termine a ragion veduta. Si arriva al punto in cui anche lo spettatore più digiuno di considerazioni economiche hollywoodiane comincia a visualizzare le taniche di sangue finto accatastate ai lati del set, e a conteggiarle come voci di rilievo nel budget di produzione. Un paio di inquadrature sono da esame di anatomia: quanti vasi sanguigni sono contenuti in una caviglia? A quanto ammonta il contenuto ematico di una giugulare?

Indubbio il compiacimento su certi dettagli (gli strumenti "ginecologici" della scena, di per sè ammiccante, della verifica della verginità di Giovanna), e certe pratiche squisitamente medievali (?) come la tortura.

Giovanna d'Arco contiene un solo gesto di coraggio: la battuta con la quale la pulzella d'Orleans, dopo aver guidato un esercito verso carneficine sempre più efferate, conclude che "non esiste giusta causa". Come il lungometraggio sulla vergine guerriera firmato da Cecil B. DeMille nel 1916, il film di Besson tenta un discorso legato all'attualità politica: DeMille incitava gli Stati Uniti allíintervento nella Prima Guerra Mondiale, Besson al contrario lancia una stoccata a quella "guerra giusta" che si stava combattendo nei Balcani durante le riprese del suo film. Ma Jova-Liga-Pelù l'hanno fatto con meno pretese artistiche, e meno peli sulla lingua.

 

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