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Recensione/L'amante perduto

Paola Casella

 


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L'amante perduto, diretto da Roberto Faenza, scritto da Roberto Faenza e Sandro Petraglia, con Juliet Aubrey, Ciaran Hinds, Clara Bryant, Stuart Bruce, Phyllida Law, Erick Vasquez

Alla conferenza stampa per l'ultimo film di Roberto Faenza sono immediatamente scoppiate le polemiche: qualche giornalista e qualche membro militante della comunita' ebraica hanno discusso in toni accesi sul contenuto politico del film, che e' ambientato in Israele e vede fra i suoi protagonisti arabi ed ebrei.

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Ma L'amante perduto, basato sull'omonimo romanzo dello scrittore israeliano Abraham Yehoshua, e' soprattutto una storia d'amore, protagonista una coppia di ebrei inglesi (isrealiani, nel libro di Yehoshua) trapiantati a Tel Aviv dopo la morte del figlio primogenito. Una morte che segna l'inizio della profonda crisi coniugale fra Adam (Ciaran Hinds) e Asya (Juliet Aubrey). Le prime scene del film (fatto salvo per la ricostruzione della morte del bambino, agghiacciante nella sua elementarieta') descrivono i due come incapaci di avviare un dialogo.

Asya si e' chiusa in un isolamento (e un mutismo, speculare alla sordita' di nascita del figlio perduto) dal quale sembra non volere (o potere) di uscire piu'. Adam, dal canto suo, si limita a girarle intorno guardingo, circondandola di mille piccole attenzioni che lei non e' in grado di accettare.

Testimone dello sfacelo progressivo e' Dafi (Clara Bryant), la figlia adolescente della coppia, quella che nelle scene del flashback era solo un rigonfiamento nel ventre di sua madre. Sara' Dafi ad avvertire immediatamente come una pericolosa intrusione l'arrivo di Gabriel (Stuart Bruce), un giovane isrealiano che ha vissuto a lungo in Francia, e che compare sul cammino di Adam e Asya come un angelo (di qui il nome), non si sa se salvifico o sterminatore. Naturalmente, Asya se ne innamora, ritrovando con lui la voglia di comunicare, e soprattutto quella di sorridere.

Adam li osserva da lontano, talmente grato del risveglio alla vita di sua moglie da incoraggiare la presenza sempre piu' frequente di Gabriel nel suo menage familiare - con evidente orrore della figlia, sempre piu' disorientata. Quando Gabriel scompare, sara' proprio Adam a cercare per tutta Israele l'amante perduto della moglie, come estremo gesto d'amore, ma anche come unica strategia possibile per ricondurre a se' una donna che non sembra volere piu' nulla da lui.

La figura di Adam e' nobilissima, anche se al limite della credibilita' drammatica. Buona, tra l'altro, l'idea di affidare il ruolo a un attore molto attraente e fisiognomicamente adulto, in contrasto con l'attore che interpreta Gabriel, meno bello e quasi insopportabilmente infantile -- nessuna sorpresa quando, nelle scene finali, il viso di Gabriel viene accostato al viso del figlio perduto di Adam e Asya. Assai credibile la figura di Dafi, adolescente aperta a tutte le interpretazioni del mondo (comprese quelle relative al conflitto arabo-ebraico) ma desiderosa di solidi punti di riferimento all'interno del proprio microcosmo domestico.

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Ad Asya e a Gabriel toccano invece i ruoli ingrati: due egocentrici assoluti, l'una per reazione al dolore, l'altro per narcisismo giovanile, entrambi incapaci di vedere al di la' del rispettivo naso (ma proprio con Gabriel Asia riscoprira' l'altruismo emotivo, riversando su di lui l'affetto materni che nega invece alla figlia).

L'impatto emotivo della storia e' molto forte, anche grazie alla recitazione intensa degli attori, che comunicano un intero vissuto narrativo fin dalla loro prima apparizione sullo schermo (merito della preparazione meticolosa che Faenza incoraggia sempre nel suo cast). Certe scene sono difficili da guardare proprio per la loro densita', e sono quelle che danno spessore a una storia per altri versi trattata in modo curiosamente superficiale: e veniamo alla componente politica.

Nonostante Faenza cerchi di svicolare dalle controversie (e nonostante i detrattori di questo film siano anche passibili di faziosita') c'e' nell'Amante perduto una certa ostinazione a semplificare fino all'eccesso una realta' assai complessa. Il messaggio di pace e di tolleranza ripetutamente ribadito all'interno del film (al punto da diventare quasi didascalico) appare come un mantra ripetuto per esorcizzare l'obbiettiva tortuosita' della situazione politica in Israele: non basta spostare l'azione dagli anni della guerra del Kippur (durante i quali Yeshoua ha ambientato il suo romanzo) ai giorni nostri per smussare l'esplosivita' delle circostanze.

La parabola di Faenza riguarda la capacita' di aiutarsi reciprocamente: fra coniugi (non a caso Adam accetta la presenza di Gabriel perche' "e' d'aiuto" alla moglie, cui lui ha chiesto invano per anni "che cosa posso fare?"), fra genitori e figli, fra etnie e religioni diverse ("Mi serve il tuo aiuto", dice Adam nella scena finale a un ragazzino arabo -- ed e' questa la scena, diversa rispetto al finale del libro, che ha suscitato piu' polemiche in sede di conferenza stampa).

Ma la piacevolezza estetica della confezione cinematografica e la levita' con la quale vengono affrontati i temi piu' scottanti conferiscono un'impressione di mistificazione che finisce per gettare una luce ambigua persino sulla genuinita' delle emozioni che animano il film, e che ne costituiscono il cuore (pulsante, come quello del bambino che muore nelle prime scene -- un modo acustico, quindi sensoriale, di raccontare l'incidente che fa il paio con quello di Almodovar in Tutto su mia madre).

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Curiosamente, L'amante perduto ricorda L'assedio di Bernardo Bertolucci: entrambi visivamente stimolanti, entrambi una festa dei sensi (la colonna sonora di L'amante perduto, ad esempio, e' splendida e sensuale, cosi' come lo era quella de L'assedio), e tuttavia entrambi in qualche modo semplicistici nel raccontare un incontro-scontro fra etnie e culture, con la conseguenza che anche la storia d'amore al centro della trama ne risulta indebolita.

Alcuni dettagli narrativi e visuali sono eccessivamente ingenui e incongruenti con il perfezionismo di Faenza: ad esempio la cravatta rossa del terrorista e il suo mitra impacchettato nella carta da giornale. Questa e' una storia delicata, non un murale, ed e' soprattutto alto il rischio di tratteggiare i due gruppi etnici al centro della storia con tratti diversi, esattamente come succedeva ne L'assedio: elementari quelli relativi all'etnia "primitiva" (in questo caso quella araba), raffinati quelli relativi all'etnia "evoluta" (quella ebraica).

Molto poetica, invece, e' la raffigurazione di Israele come luogo dove si piangono i figli perduti: un'intuizione profonda che motiva in modo universalmente condivisibile, anche se non ne giustifica la traduzione in violenza, la passione che sta dietro il conflitto arabo-israeliano, umana prima ancora che religiosa o politica.

 

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