Ho letto con molta attenzione l'articolo pubblicato su
"Caffeeuropa" da Paola Casella su "La vita è bella" (Titolo: "Benigni, chi ha vinto: il film o
l'Hollywood italian"). Nonostante la vittoria degli Oscar non mi abbia provocato
"smodate manifestazioni di orgoglio", devo dire che sono rimasto molto
"sorpreso" dagli addebiti culturali che l'autrice dell'articolo sbatte in
faccia, senza troppi complimenti, all'attore italiano. Il film ha provocato, facciamo un
po' di storia, già tre livelli di polemiche: a) quelle che riguardano il suo contenuto
(è giusto o sbagliato "giocare" con un tema come l'Olocausto); b) quelle che
hanno attaccato da una parte il livello della pellicola (non è un capolavoro) e
dall'altra (c) la presunta volontà della "sinistra" di farne "un'icona
progressista e buonista". Polemiche più o meno pretestuose, più o meno
condivisibili: tutte legittime. Paola Casella ne aggiunge un'altra: Roberto Benigni è reo
- con la sua frenetica attività di promozione negli Usa - di aver contribuito a
rafforzare l'immagine deprecabile dello stereotipo italiani tutti mafiosi, mammoni,
maccheroni e mandolino. Così il celebre toscano si è prestato - oltre alla distribuzione
a tappeto delle videocassette del film a tutti i membri dell'Academy (cosa comune ai
partecipanti all'Oscar, comunque) - ad apparire (a spese della Miramax, la sua casa di
produzione) in "ogni talk show americano". Insomma ha presenziato "alle
cene con i notabili di Hollywood, a quelle cerimonie di premiazione che stanno agli Oscar
come i preliminari al sesso". E fin qui è mezzo peccato. Ma la cosa peggiore è che
a Benigni è stato chiesto - e il permesso accordato - di impersonare il ruolo di
"Hollywood italian" (il termine tecnico con il quale la mecca del cinema
identifica la macchietta dell'italiano da grande schermo): colui che gesticola e parla a
voce alta, usa un linguaggio approssimativo e sgrammaticato, è esageratamente emotivo e
portato a manifestazioni eccessive di gioia o di collera, ama la mamma e la pastasciutta,
è incontrollato e per questo comico. Stringendo: per vincere è andato a Corte a fare il
buffone, calpestando l'italianità vera e persino la sua immagine di attore impegnato
capace di schiaffeggiare i politici in diretta tv.

Tralasciando il fatto che a parlare degli spaghetti si fa più bella
figura che a ricordare agli americani Craxi - e che tutto sommato quello che in Usa
raffigurano come "tipo italiano" è un individuo che incarna gli stessi difetti
e qualità che hanno dipinto da noi Verdone, Risi, Sordi, Scola, De Sica (e tanti altri) -
colpiscono due punti: viene tralasciato completamente il giudizio sul film (che c'entra, e
poi vedremo il perché) e la virulenza degli addebiti.
Partiamo dai secondi. Vi siete mai chiesti perché nella scena finale
del film sono gli americani a salvare il piccolo bambino e sua madre dalle camere a gas?
Ecco la spiegazione: "In retrospettiva, tanta furbizia commerciale getta una luce
sinistra (oops! meglio dire ambigua) persino su alcuni dettagli di La vita è bella:
primo fra tutti quel carro armato americano che, nella scena finale, viene a salvare i
prigionieri dal campo di concentramento. Cioni Mario, che a Berlinguer voleva bene,
saprebbe che, a liberare le vittime dell'Olocausto, sono stati prevalentemente i carri
armati sovietici. Ma anche lui sa che a Mosca non consegnano premi cinematografici".
Mi sembra francamente un po' sinistro (oops!, meglio dire pretestuoso) e pesante sostenere
che l'accoppiata Benigni&Cerami abbia messo un carro Usa invece che Sovietico per
vincere l'Oscar, vista anche l'assenza di querelle storiografiche all'epoca dell'uscita
del film in Italia. Così come non ritengo che gli autori abbiano avuto intenzioni di
ricostruire fedelmente un avvenimento storico. Perché dunque spingersi così in là, in
mezzo al pagliaio?

Vabbé, si dirà, tutte queste chiacchiere, in fondo cosa può portarci
di male, a noi italiani? Eccovi accontentati: "Un esempio recente del danno che
questa immagine apparentemente innocua può farci? - conclude l'articolo: Il discorso
formale del portavoce della Casa Bianca, che ha commentato il verdetto sulla tragedia del
Cermis con un serafico "capiamo la reazione emotiva degli italiani", come se ad
indignarsi davanti ad un'ingiustizia fosse la manifestazione di un temperamento
eccitabile, e come tale degna di comprensione, non di peso politico". Ma non
scherziamo, per favore, e limitiamo i cortocircuiti. Un ultimo particolare - come del
resto, nel fondo l'articolo ammette - il film di Benigni (che c'entra o dovrebbe con
questa polemica), l'opera in sé, contiene caratteri opposti a quelli tanto vituperati
dell'Hollywood italian. E allora mi chiedo: cos'è più importante che gli americani siano
andati a vedere il film o le partecipazioni di Benigni agli show tv. E se quelle
partecipazioni - cosa scontata - hanno portato un solo americano in più in una sala
cinematografica a vedere il film italiano-italiano-non-Holliwoodiano, non era quello lo
scopo che l'artista doveva inseguire; cioè che la sua opera fosse vista dal maggior
numero di persone? Al fondo cos'è più importante il film che resta o la tv che passa? Ad
Hollywood per vincere ci si deve regolare di conseguenza come a Sanremo e Castrocaro e il
risultato non sta nella statuetta (che pur è un risultato), ma in più gente nei cinema a
vedere Benigni. Per vincere bisogna partecipare allo show? Partecipiamo e portiamo un po'
di cultura europea in un continente che ci sommerge continuamente e maledettamente della
sua. Ultima cosa: discettare su cosa deve fare o meno un artista per avere successo e
vendere la sua merce fa un po' Bulgaria (con tutto il rispetto), i campi sono pieni di
poeti seppelliti in terra sconsacrata.