All'indomani della "grandinata di amore" che si e' abbattuta
su Roberto Benigni (sono parole sue, tratte dal suo entusiastico discorso di
ringraziamento) nel corso della cerimonia di consegna degli Oscar, i commenti dei media
italiani sono stati quasi tutti altrettanto euforici e congratulatori. Naturalmente ci
sono state anche le voci fuori dal coro, in Italia cosi' come negli Stati Uniti: se il
dissenso americano si e' indirizzato soprattutto sui contenuti del film (in particolare il
sacrificio della tragedia dell'olocausto sull'altare dell'entertainment), quello italiano
-- "Foglio" in testa -- si e' scagliato con fervore oratorio anche sul
tentativo, da parte di Benigni e della sua "corte di critici compiacenti", di
determinare "le magnifiche sorti e progressive di ben altro che un film",
laddove "progressive" probabilmente sta per "progressiste".
Ma per lo piu' la vittoria di Benigni ha suscitato nei media italiani
-- e nella gente -- smodate manifestazioni di orgoglio nazionale, in quanto riconosciuta
come affermazione positiva dell'italianita', quella qualita' che ci riconosciamo soltanto
guardandoci attraverso gli occhi del mondo, e della quale andiamo fieri quando ci viene
riconosciuta come una dote invece che come un handicap. La stragrande maggioranza dei
giornalisti ha descritto infatti Benigni non solo come il nuovo araldo del cinema
italiano, ma addirittura come ambasciatore dell'Italia nel mondo, "uno dei non molti
dei quali noi possiamo essere davvero orgogliosi", come ha scritto Vittorio Zucconi,
da anni trapiantato in America, su La Repubblica.

Proprio per questo vale la pena analizzare il successo di Benigni a
freddo, secondo un'ottica un po' meno ottenebrata dagli entusiasmi del momento, puntando
uno sguardo critico non tanto su La vita e' bella, quanto sullo stesso Benigni, entrato
assai piu' del suo "prodotto" negli ingranaggi della macchina promozionale
Miramax, nonche' del piu' vasto sistema del marketing hollywoodiano.
La campagna pubblicitaria di La vita e' bella infatti non si e'
limitata alla distribuzione a tappeto delle videocassette del film, recapitate porta a
porta a tutti i membri dell'Academy, e nemmeno al giro di cene sponsorizzate dalla
Miramax, ma ha puntato decisamente sulla commercializzazione di Benigni come personaggio.
E lui ci si e' prestato. Per un mese, a spese della Miramax, e' apparso
ad ogni talk show americano, ha partecipato a innumerevoli incontri con la stampa
d'oltreoceano, alle cene con i notabili di Hollywood, a quelle cerimonie di premiazione
che stanno agli Oscar come i preliminari al sesso. Niente di male, in se': questo e' il
grande gioco del cinema, e Benigni, che ha spesso dichiarato di amare il suo film come un
figlio, si e' comportato da padre innamorato.
Peccato che a questi talk show, a queste cene, a queste cerimonie, non
gli sia stato solo chiesto di essere se stesso, ma di impersonare un ruolo, articolato
sulle corde di quello che e' ormai un consolidato stereotipo del cinema americano:
l'Hollywood Italian. Hollywood Italian e' il termine "tecnico" con il quale la
mecca del cinema identifica la macchietta dell'italiano da grande schermo. L'Hollywood
Italian gesticola e parla a voce alta, usando un linguaggio approssimativo e
sgrammaticato; e' esageratamente emotivo, e portato a manifestazioni eccessive di gioia o
di collera; ama la mamma e la pastasciutta; e' fondamentalmente irrazionale, e quindi
incontrollato (e incontrollabile); proprio per questo e' comico, per lo piu'
involontariamente, e lo e' in particolare agli occhi del pubblico anglosassone, che invece
e' per definizione contenuto e razionale, poco espansivo e per nulla portato al
sentimentalismo, sommesso nei gesti e nell'uso del vocabolario inglese, che conosce bene,
non solo in quanto sua madrelingua, ma anche in quanto, al contrario del
"tipico" italiano, lo yankee e', per convenzione, adeguatamente istruito.
Tutta la cinematografia d'oltreoceano e' costellata di raffigurazioni
dell'Hollywood Italian, e ogni italiano a Hollywood -- attore, regista, produttore -- fin
dalla nascita del mezzo cinematografico ha dovuto prima o poi fare i conti con lo
stereotipo mamma, maccheroni e mandolino. Alcuni, come Frank Capra, hanno accantonato la
loro italianita' per dare corpo al sogno americano.
Altri, come Jimmy Durante, o Lou Abbott (il Pinotto del duo Gianni e
Pinotto) ci hanno marciato, costruendo la loro macchietta comica proprio sulle aspettative
del pubblico nei confronti della macchietta italiana. Altri ancora, come Rodolfo
Valentino, pur aderendo ad alcune delle caratteristiche riconosciute dal pubblico
americano come intrinsecamente italiane (nel suo caso, il sex appeal), hanno rifiutato con
orgoglio (definito dagli americani "amor proprio") di mercificare la propria
identita' etnica ai fini del successo: di qui le ripetute accuse di
"ingratitudine", da parte della mecca del cinema, per non aver voluto
manifestare appieno la sua riconoscenza nei confronti di chi lo aveva accolto a braccia
aperte (alle sue regole, si intende).

Forse Benigni non si e' accorto che il personaggio che la Miramax gli
ha chiesto di interpretare, durante il corso della campagna promozionale per La vita e'
bella, era proprio quello dell'Hollywood Italian. O forse, poiche' (al contrario
dell'Hollywood Italian) Benigni non e' ne' ignorante ne' privo di acume, l'ha capito e ha
creduto di prestarsi ad uno scherzo ben congegnato, del quale il pubblico americano poteva
essere vittima quanto ideatore. Eppure anche lui dev'essersi accorto della differenza con
i suoi due precedenti tour promozionali americani -- quello per Johnny Stecchino, e
soprattutto quello per Il figlio della Pantera Rosa -- durante i quali aveva potuto essere
semplicemente se stesso, e per questo -- al di la' dell'evidente inferiorita' dei film da
lui reclamizzati -- non era stato capito dagli americani (una giornalista, vittima di un
suo tentacolare abbraccio stile Carra', reagi' con tale veemenza che qualcuno ventilo' il
rischio di una causa per molestie sessuali nei confronti dell'incontenibile Roberto).
Questa volta invece la creazione del personaggio Benigni ha seguito un
iter da manuale del marketing, con la seguente scansione: Benigni che, al Today Show,
cucina gli spaghetti con Sofia Loren (italiano mamma e maccheroni); Benigni che, alla
cerimonia di consegna dei Golden Globe, dichiara di sentirsi "come una pizza a
Napoli"; Benigni che, al Tonight Show, balla con Sarah Ferguson (italiano mandolini e
passionalita'); Benigni che recita Dante alla UCLA (italiano poeta, non ignorante, questo
e' vero, ma sentimentale -- non a caso Benigni, alla consegna degli Oscar, ha citato
proprio uno dei passaggi piu' romantici della poesia dantesca).
E poi, il giorno della cerimonia degli Oscar, vedi Benigni che salta
sugli schienali delle poltrone ("come un coniglio", ha osservato impietosamente
il Los Angeles Times -- italiano fisicamente esuberante), incapace di contenere il suo
entusiasmo (italiano emotivo in modo incontrollabile), che vuole fare l'amore con tutta
l'America (italiano ipersessuato, piu' ancora che esageratamente affettuoso), che si
sbraccia e grida (italiano patologicamente estroverso), che si esprime in un inglese
maccheronico (italiano sgrammaticato e, per buona misura, maccheroni -- a questo
proposito, due "perle" fanno dubitare dell'ingenuita' del personaggio:
ringraziando Cecchi Gori e la mamma, Benigni ha pronunciato Gori all'americana e mamma
"mama", come fanno gli americani quando vogliono imitare gli italiani. Il
confronto con la Loren, che pur vivendo in America da anni insiste a pronunciare
correttamente tutti i nomi italiani, e' esplicativo).
A questo punto e' doveroso chiedersi quali delle caratteristiche
dell'Hollywood Italian corrispondano alla effettiva personalita' di Benigni: potrebbe
infatti trattarsi di una coincidenza assoluta, utile a tutti, ma non necessariamente
strumentale. Diventa allora interessante il raffronto fra il Benigni "italiano"
e quello "hollywoodiano". Il Benigni italiano e', in effetti, emotivamente
espansivo, fisicamente affettuoso, verbalmente travolgente, simpaticamente chiassoso come
il Benigni hollywoodiano. Ma il Benigni italiano e' anche irriverente, iconoclasta,
sovversivo: ricordiamo che approfitto' della diretta televisiva per descrivere Craxi,
allora presidente del Consiglio, come "un uomo dalla fronte inutilmente
spaziosa", e affermo' che Berlusconi, appena insediato sulla stessa poltrona, fosse
"sceso in campo per non salire in galera".
L'"internationalization" di Benigni e' cominciata con la
premiazione a Cannes, dove gia' i segni di escandescenza di Roberto avevano cominciato a
uniformarsi ai limiti del contesto sopranazionale, ed e' culminata durante la serata degli
Oscar. Laddove dal Benigni italiano ci si sarebbe aspettata una battutaccia sul Cermis, o
almeno sul pisello di Clinton come ago della bilancia dell'interventismo americano,
abbiamo assistito a una ossequiosa dichiarazione di indegnita' ("Non me lo
merito", ha ripetuto davanti a ciascun Oscar) e a un'incondizionata professione di
gratitudine verso l'America (il povero Valentino si e' sicuramente rivoltato nella tomba,
ma anche Cioni Mario non deve essersi sentito troppo bene).
Persino il riferimento del regista alle sue umili origini ("a
small village in Italy") e' apparso non tanto come una tipica manifestazione
dell'attaccamento di Benigni alle proprie radici contadine, quanto come il perfetto
preludio alla favola dell'italiano povero che realizza il suo sogno in America (simile al
prologo che lo scaltro Harvey Weinstein, il patron della Miramax, ha voluto aggiungere a
La vita e' bella in vista della distribuzione americana del film, per inquadrarlo meglio
nella sua dimensione di "storia inventata").
Se il Benigni italiano era (umanamente e professionalmente)
ingestibile, quello hollywoodiano ha accettato di buon grado di affidare alla Miramax la
gestione minuto per minuto del suo tempo, della sua agenda di incontri, per non dire della
sua identita' pubblica.
Percio' faceva male vedere Benigni agitarsi come una marionetta sul
palco del Dorothy Chandler Pavilion, perche' gli si vedevano i fili, proprio a lui che in
Italia aveva sempre rivendicato la sua insopprimibile natura di Pinocchio: Harvey
Weinstein, gigantesco com'e', e' apparso invece perfetto nel ruolo di Mangiafuoco.
In retrospettiva, tanta furbizia commerciale getta una luce sinistra
(oops! meglio dire ambigua) persino su alcuni dettagli di La vita e' bella: primo fra
tutti quel carro armato americano che, nella scena finale, viene a salvare i prigionieri
dal campo di concentramento. Cioni Mario, che a Berlinguer voleva bene, saprebbe che, a
liberare le vittime dell'Olocausto, sono stati prevalentemente i carri armati sovietici.
Ma anche lui sa che a Mosca non consegnano premi cinematografici.
Indubbiamente, la tattica di Weinstein ha funzionato: tant'e' vero che
l'Academy ha premiato non solo il film ma anche (o soprattutto) il personaggio Benigni,
consegnandogli la statuetta come miglior attore protagonista (sintomatico, a questo punto,
che la candidatura di Jim Carrey, il comico che in Truman Show si e' trasformato in
attore, sia stata sostituita da quella di Benigni, un attore comico trasformato in
giullare di corte). La domanda e': tutto questo era necessario per far vincere La vita e'
bella? Non bastavano la forza poetica del film, la sua originalita', la sua compiutezza
narrativa? Perche' diavolo Benigni ha sentito il bisogno di ripetere "Non me lo
merito" davanti al successo del suo film? Come ha osservato Gianni Amelio, la
decisione di conferire l'Oscar a La vita e' bella fa onore agli americani, oltre che a
noi.
Nuovo cinema paradiso, persino Mediterraneo hanno vinto il premio come
miglior film senza che Tornatore o Salvatores si trasformassero in Hollywood Italian.
Fellini, Antonioni, la Magnani, persino la Loren si sono limitati a rimanere se stessi (e
pazienza se, nel caso della Magnani e della Loren, il loro essere se stessi coincideva
perfettamente con le aspettative del pubblico americano nei confronti della donna
mediterranea). Certo, c'era stato il precedente del Postino: candidato sia come miglior
film che come miglior attore protagonista, non vinse nessuno dei due premi.
Evidentemente la Miramax, che ha distribuito in America anche Il postino, non ha voluto
correre due volte lo stesso rischio. E dal punto di vista del marketing, il ragionamento
di Weinstein non fa una grinza.
Resta pero' da chiedersi qual e' stato il prezzo del successo di La
vita e' bella, e soprattutto a chi tocchera' pagarlo. Non a Benigni (o forse solo
nell'intimo della sua cameretta): lui ha gia' ottenuto tutto l'ottenibile, cioe' gli
Oscar, la fama internazionale, futuri contratti a Hollywood e tanti bei dollaroni. Piu'
facile che spetti a noi italiani, oggi cosi' contenti del successo del nostro
"ambasciatore", e gia' da tempo giudicati secondo il prisma deformante del
cinema americano (e della letteratura, e dei media) come un popolo emotivo, irrrazionale,
incorreggibilmente infantile ben oltre la realta' dei fatti.
Un esempio recente del danno che questa immagine apparentemente innocua
puo' farci, in quanto gruppo etnico? Il discorso formale del portavoce della Casa Bianca,
che ha commentato il verdetto sulla tragedia del Cermis con un serafico:"capiamo la
reazione emotiva degli italiani" -- come se indignarsi davanti a un'ingiustizia fosse
la manifestazione di un temperamento eccitabile, e come tale degna di comprensione, non di
peso politico.
Non e' certo tutta colpa di Benigni, che almeno, se ha coscientemente
commercializzato la sua immagine in quanto italiano, l'ha fatto per promuovere un film
che, come giustamente ha sottolineato Sofia Loren, non capitalizza sullo stereotipo mamma,
maccheroni, mandolino e soprattutto mafia (benche' ripeta alcuni dei cliche' ormai
associati al cinema italiano che vince premi all'estero, dal bambino alla bicicletta,
dall'ambientazione neorealista alla musica post-felliniana). Tuttavia, anche grazie a
Benigni, in America continueranno a vederci come geniali ma incontrollabili, simpatici ma
caciaroni, fantasiosi ma privi di concretezza. Che e' un po' vero, naturalmente. Ma anche
riduttivo e inequivocabilmente pregiudiziale.
*Chi è Paola Casella
Paola Casella, nata a Milano, e' laureata in Comunicazione di Massa
alla Boston University, dove ha studiato giornalismo e critica cinematografica.
Giornalista professionista, si occupa di cultura e spettacolo, in particolare di cinema
americano. E' autrice del saggio "Hollywood Italian: gli italiani nell'America di
celluloide" pubblicato da Baldini & Castoldi.