Che succede se il
cinema imbroglia
Paola Casella
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Che succede se il cinema imbroglia
Mentre assistevo alla proiezione di A Beautiful Mind,
l'ultimo film di Ron Howard interpretato da Russell Crowe, ho provato
una sorta di disagio. Non si trattava semplicemente di imbarazzo per
il sentimentalismo spinto del film, e per certe scene madri che a
molti di noi hanno fatto definire il film, almeno per certi versi,
"un'americanata". Più forte, anche se latente, era il senso
di essere stata in qualche modo imbrogliata come spettatrice.
Non sono riuscita a mettere bene a fuoco quella sensazione fino a
qualche giorno dopo, quando cioè si era sedimentata dentro di me la
sensazione di straniamento ingenerata, e fortissimamente voluta, da
Ron Howard mentre confezionava il suo film. A questo punto devo
avvisare i lettori: se non avete ancora visto A Beautiful Mind,
e non volete che vi riveli lo stratagemma narrativo al quale Howard è
ricorso per raccontare la malattia mentale del protagonista, fermatevi
qui. Perché su questo stratagemma sarà basato tutto il ragionamento
che segue.
Per quelli di voi che ancora stanno leggendo, arriviamo al sodo. Fino
a circa metà della narrazione, A Beautiful Mind ci presenta
una serie di personaggi che poi scopriremo non esistere, ed essere
solo frutto dell'immaginazione malata di John Nash (Russell Crowe), il
matematico protagonista. Solo in quell'istante ci renderemo conto che
abbiamo visto la realtà prevalentemente attraverso i suoi occhi di
schizofrenico, incapaci di distinguere fra ciò che è reale e ciò
che è allucinazione.
Se ci pensiamo bene, il cinema ci invita sempre a credere a una
realtà interamente immaginata e trasposta sullo schermo. A noi, come
spettatori, viene sempre chiesto di sospendere il senso del reale:
magari rimaniamo delusi se una trama, o una caratterizzazione, ci
appare particolarmente inverosimile, ma il contratto di fondo fra noi
e il regista, fra noi e gli interpreti, implica che il regista
racconti la sua storia in modo verosimile, gli attori la recitino in
modo convincente, e noi ci lasciamo trasportare dalla finzione, senza
opporre eccessiva resistenza.

Recentemente, alcuni film hanno
fatto leva a scopo narrativo sul nostro abbandono alla presentazione
filmica di fatti e personaggi per creare un forte elemento di sorpresa
che rovesciasse completamente la percezione della trama, o dei
protagonisti, ricavata fino a quel punto: pensiamo a La moglie del
soldato, ad esempio, a Il sesto senso o al recentissimo The
Others.
La sorpresa derivava essenzialmente dal fatto che noi, come almeno uno
dei protagonisti della vicenda, venivamo fuorviati da una sorta di
effetto trompe l'oeil, e a una seconda visione del film ci
rendevamo conto che avremmo potuto - dovuto! - accorgerci che le cose
non erano esattamente come avevamo creduto. L'intenzione del regista
era stata quella di trarci in inganno, ma le modalità di tale inganno
non stavano tanto nella presentazione dei fatti, bensì nella nostra
percezione soggettiva di ciò che ci era stato mostrato. L'esempio
più eclatante è il Sesto senso, dove il punto di vista è
(come nel caso di A beautiful mind), quello del protagonista (Bruce
Willis), ma in realtà siamo noi spettatori a scegliere di non
vedere che gli altri personaggi - con l'eccezione del bambino - non
interagiscono in alcun modo con lui.
A Beautiful Mind supera i limiti di ciò che il contratto fra
autore e spettatore consente, stabilendo un nuovo record, ma al prezzo
della nostra "ingenuità" futura di spettatori, ovvero la
nostra disponibilità a sospendere il giudizio critico di fronte alla
messinscena cinematografica. Howard non ci consente di vedere al di
fuori dell'ottica di Nash e della sua interazione con i personaggi del
film, compresa la scena in cui il capo dei servizi segreti (Ed Harris)
aspetta Nash in macchina, fuori dalla chiesa dove si è appena
celebrato il matrimonio - l'unica che fa coesistere nella stessa
inquadratura personaggi reali e allucinazoni.
Le allucinazioni ci vengono presentate come personaggi credibili,
cioè ai quali credere, secondo il "contratto" fra cineasta
e spettatore. E noi, in buona fede, crediamo. Salvo poi scoprire che
siamo stati vittima di un raggiro dovuto non alla nostra mancanza di
attenzione, o alla nostra volontà di vedere in modo selettivo, ma a
una presentazione del dato "reale" che non ci lascia margini
di dubbio, che non ci consente possibilità di sospetto (come, invece,
succede in The Others, non foss'altro che perché ci troviamo
nel contesto del genere horror dove, per convenzione, esiste sempre la
possibilità del soprannaturale).
Nel caso di A Beautiful Mind, il sospetto sorge solo in termini
ddi cultura cinematografica: l'inseguimento in macchina, ad esempio,
ci appare "esagerato" o "datato", perché è un
inseguimento da film anni '40, contemporaneo quindi agli eventi del
film, ma solo in termini di immaginario filmico.
Ciò che più mi colpisce della messa in scena ingannevole di A
Beautiful Mind è l'impiego del patrimonio di credibilità
acquisito da Ron Howard come regista e interprete e da Ed Harris come
attore e come personlità pubblica: entrambi, in America, sono icone
dell'integrità e dell'American way (Howard più in senso mainstream,
Harris più in accezione "alternativa").
C'è una sorta di tradimento nel ricreare la sala dei servizi segreti
di A Beautiful Mind in modo quasi identico alla stanza dei
bottoni della NASA in Apollo 13 (sempre diretto da Howard) - o
anche nel mostrare in sequenze quasi contigue dello stesso A
Beautiful Mind la ricreazione della sala del dipartimento di
giustizia (vero) dove Nash viene chiamato a decifrare un complicato
codice segreto e quella (immaginata) dove Nash si accinge a stanare
cospirazioni più o meno possibili.
Così come avverto una sorta di perversione nell'affidare proprio a Ed
Harris, attore che ha fatto della propria integrità - dentro e fuori
il grande schermo - un tratto portante, il ruolo del finto capo dei
servizi segreti. La sua interpretazione in Truman Show - la
più simile a quella di A Beautiful Mind - era per contrasto
"onesta", nel senso che il suo inganno nei confronti di
Truman era filmicamente dichiarato fin dalla sua prima apparizione sia
al pubblico del finto show televisivo che al pubblico in sala.

L'"imbroglio" di A
Beautiful Mind funziona anche perché fa leva sulla fiducia degli
spettatori nel Richie Cunningham di Happy Days e nell'attore
che, quando hanno assegnato a Elia Kazan l'Oscar per la carriera, ha
incrociato le braccia in mondovisione per segnalare il suo dissenso .
E' vero, la trovata narrativa di mostrare la realtà solo attraverso
gli occhi di John Nash rende la schizofrenia del personaggio
completamente condivisibile, e il suo straniamento un problema di
tutti (anche se solo per il tempo dell'inganno cinematografico) e non
solo del "diverso". E c'è del merito, anche del coraggio,
nel mostrare la diversità come condizione umana: chi di noi può dire
di avere salda presa su ciò che è reale e ciò che è solo
percettivo?
Ma c'è una differenza fra ricreare la vividezza delle visioni di uno
schizofrenico e ingannare il pubblico facendolo sentire splittato
perché, come da contratto, ha creduto a ciò che un regista "di
fiducia" gli mostrava. Questa differenza salta agli occhi (è il
caso di dirlo) per chiunque abbia visto il film di Peter Del Monte Gulia
e Gulia, con Kathleen Turner nel ruolo di una donna che sviluppava
una forma di schizofrenia dopo la morte dell'amatissimo marito.
Anche Gulia e Gulia - quindici anni prima di A Beautiful
Mind - utilizzava lo stratagemma narrativo di rendere vivide e
"reali" le allucinazioni della protagonista. Ma fin
dall'inizio veniva insinuato nello spettatore il dubbio che ciò che
appariva sullo schermo fosse in realtà ciò che appariva solo
alla mente ottenebrata di Giulia. E la scena finale non lasciava adito
a equivoci, creando un netto distinguo fra noi spettatori e la
protagonista del film: in questo modo ci era consentito immedesimarci
completamente in lei a livello percettivo, ma ci veniva lasciato il
potere discrezionale di distinguere fra reale e immaginario. Cosa che
invece A Beautiful Mind non consente mai: fino alla fine del
film, anche noi continuiamo a vedere come reali i personaggi che
sappiamo essere frutto dell'immaginazione di Nash.
E' un utilizzo spregiudicato della comunicazione, e un esperimento
senza dubbio interessante, fosse anche solo perché mostra tutte le
potenzialità del cinema come lanterna magica, come creatore di
illusioni. Ma contestualmente ci priva di queste illusioni, togliendo
qualcosa alla nostra fiducia di spettatori, estremizzando quel
processo di erosione della sospensione critica al quale hanno
contribuito tutti i recenti film "con sorpresa", e
accrescendo in parallelo il nostro scetticismo. Dopo A Beautiful
Mind guarderemo tutti i prossimi film, con un occhio aperto alla
possibilità che ciò che vediamo non sia un'illusione nell'illusione,
come quando si guardano le mani del prestigiatore per scoprire il
trucco, senza più lasciarsi andare al gioco. Di questo nuovo stato di
allerta, di questa imprescindibile sottrazione alla magia del cinema,
biasimo Richie Cunningham.
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