Caffe' Europa
Attualita'



La scissione in ciascuno di noi



Umberto Curi



Articoli collegati:
La scissione in ciascuno di noi
Che succede se il cinema imbroglia


Mind
è un termine inglese che non ha un esatto corrispettivo in lingua italiana, e che è dunque difficilmente traducibile. Non è “mente”, infatti, almeno non nel senso in cui questo termine è adoperato nel campo della psicologia, vale a dire nell’accezione “tecnica” con la quale si parla, ad esempio, di “malati di mente”, per distinguerli dai malati “nel corpo”. E non coincide neppure esattamente con ciò che in italiano si chiama “spirito”, in quanto è distinto dalla “materia”, né con la “coscienza”, che si contrappone all’inconscio, né infine con l’“intelligenza”.

Piuttosto, Mind riassume in sé tutte le determinazioni ora ricordate, insieme ad altre sfumature (“opinione”, “intenzione”, “memoria”), e indica dunque ciò che è insieme la “psiche”, lo “spirito”, la “coscienza” e l’“intelligenza”. Di conseguenza, sarebbe sbagliato, e comunque fortemente riduttivo, tradurre il titolo del film - “A Beautiful Mind” - come “Una bella mente”, cancellando di fatto la polisemia del termine che compare nel titolo originale. Al di là di ogni considerazione strettamente linguistica, infatti, una simile traduzione tende ad accreditare la convinzione che il film intenda semplicemente celebrare le straordinarie doti intellettuali del personaggio a cui si riferisce la vicenda narrata, indicandolo appunto come una “bella testa”.

Non è così. Come si cercherà ora di argomentare, davvero “bello”, anzi “pieno di bellezza” è la mind di John Nash, ma non soltanto, e nemmeno soprattutto, perché essa metta in grado il protagonista di elaborare teoremi matematici particolarmente complicati e innovativi, ma perché essa contiene un mondo che è molto più ricco e più vasto di quello della matematica. Il che significa che a Nash è possibile attribuire l’espressione “a beautiful mind” (dove, tra l’altro, l’associazione dell’aggettivo beautiful al sostantivo mind è già di per sé assai problematica), non nonostante, ma proprio in ragione della sua schizofrenia. Difatti, è appunto questa “patologia”, connessa in una relazione non antinomica con le sue straordinarie capacità intellettive, a rendere davvero “piena di bellezza” quella “mente”.

Fin dal titolo, insomma, fin dalla premeditata ambivalenza dell’espressione in esso impiegata, si comprende quale sia uno degli assi portanti di questa interessante opera cinematografica, vale a dire la messa in discussione dei confini che separano la normalità dalla follia, soprattutto quando questa normalità appartenga a un “genio”. Evitando opportunamente ogni eccessivo indugio ideologico, Howard “argomenta” la tesi (di per sé non nuova, neppure in campo strettamente cinematografico) della contiguità - e, al limite, della intercambiabilità - tra norma ed eccezione, mostrando fino a che punto questi due presunti “stati” mentali possano essere indisgiungibili l’uno dall’altro, con quanta “naturalezza” il “genio” possa convertirsi in “sregolatezza”, la “normalità” possa manifestarsi come “pazzia”.

Di qui un’importante opzione da parte dell’Autore, quella di porre lo spettatore, almeno in tutta la prima parte del film, nella stessa condizione del protagonista, impedendogli di distinguere fra il mondo “reale” e quello creato dalle allucinazioni indotte dalla malattia. Come Nash, anche chi assiste alla proiezione è convinto che davvero esista una “eminenza grigia”, di nome William Parcher, che davvero si tratti di fronteggiare una minaccia nucleare sovietica sul territorio americano, che davvero occorra contribuire allo smantellamento di una rete spionistica potenzialmente letale per la sopravvivenza degli Stati Uniti.

Fino alla fine, né Nash né lo spettatore potranno essere sicuri che quelle immagini siano allucinazioni, e non presenze reali, e che presto o tardi qualcuno sveli che l’autentico impostore non è Parcher, ma lo psichiatra, traditore al soldo della cospirazione sovietica. Anziché ricorrere a qualche stratagemma espressivo, allo scopo di rimarcare la differenza fra reale e immaginario, come accade per lo più in altre produzioni cinematografiche, Howard sceglie la strada di un continuum, nel quale i due “mondi” si succedano e si mescolino, senza che si dia alcuna possibilità di scindere nettamente l’uno dall’altro.

D’altra parte, la revoca di ogni presupposta gerarchia fra i due “ordini” di realtà, il fatto che, lungo tutto lo svolgimento del film, risulti pressochè impossibile stabilire che cosa corrisponda al “vero” e che cosa, invece, sia frutto di allucinazione, conduce anche a formulare una osservazione certamente marginale, ma non priva di interesse. La coincidenza fra l’uscita del film nelle sale cinematografiche, e la denuncia dell’esistenza sul suolo statunitense di una rete terroristica collegata ad Al Qaeda, da parte delle autorità americane, potrebbe perfino accreditare un’ipotesi maliziosa. E cioè che, non importa quanto intenzionalmente, questa opera cinematografica suggerisca l’idea che l’allarme diffuso intorno ad una cospirazione antioccidentale debba essere considerato una “allucinazione”, l’effetto di una dissociazione patologica, e non l’indizio di un pericolo reale.

Anche se i “tempi” di lavorazione del film, rispetto all’attentato dell’11 settembre, non consentono di avallare questa ipotesi, si può se non altro recuperarne la validità in un significato più generale, disimpegnato dal richiamo all’attacco contro le Twin Towers, e riferito piuttosto alla ricorrente fobia americana di poter restare vittime di oscuri complotti. Sia pure indirettamente, insomma, e non come tema centrale, il film propone uno spunto di non trascurabile rilievo, vale a dire che certamente il maccartismo - cronologicamente contestuale alle prime manifestazioni della malattia di Nash - ma anche più in generale il timore di essere colpiti “dall’interno”, periodicamente risorgente nell’immaginario collettivo degli americani, siano espressione di una schizofrenia di atteggiamenti e comportamenti, in un paese letteralmente scisso fra l’ideologia apparentemente benevola e accogliente del melting pot, e una prassi concreta spesso segnata dall’inospitalità e dall’intolleranza.

Al di là di questo inciso, la scelta compiuta da Howard di non consentire allo spettatore di distinguere fra gli “stati” mentali del protagonista, lasciandogli anzi il dubbio fino alla fine circa la verità o l’illusorietà degli eventi che accadono, va ben oltre la vicenda specifica del matematico statunitense. Al contrario, la forza del film, la ragione principale per la quale esso può essere considerato un'opera cinematografica interessante, e per molti aspetti ben riuscita, non ha proprio nulla a che vedere con la maggiore o minore attendibilità con la quale è ricostruita la biografia di John Nash. A questo proposito, le discussioni fiorite a proposito della solo parziale “fedeltà” di quanto è descritto nel film, rispetto agli avvenimenti reali, lasciano letteralmente il tempo che trovano, e appaiono infine del tutto prive di significato, come sintomo della sostanziale incomprensione del “progetto”, intorno al quale è costruita quest’opera cinematografica.

Come già è emerso, sia pure indiziariamente, attraverso le considerazioni compiute in margine al titolo, non è certamente il personaggio Nash, né le vicissitudini specifiche della sua esistenza, ad attirare l’attenzione dell’Autore. Ciò che, attraverso e oltre Nash, si trattava di indagare è il confine mobile e reversibile che separa - ma per ciò stesso anche connette - reale e immaginario, e dunque l’obiettiva impossibilità di distinguere nettamente, e una volta per tutte, il dominio della normalità rispetto a quello della follia, mostrando quanto l’una “assomigli” all’altra, quanto “semplice” sia il transito dall’una all’altra. Il film “lavora”, appunto, su questo intreccio di questioni, rinverdendo una riflessione costantemente riaffiorante in tutta la tradizione filosofica, culturale e figurativa dell’Occidente, riguardante i confini della realtà, e più ancora lo statuto di tutto ciò che dalla quotidianità del reale in qualche modo “fuoriesce”, o perché ex-ceda o perché prae-ceda tale quotidianità.

Secondo il senso comune, non vi è che un unico mondo “reale”, i cui parametri di autenticità e valore sono al tempo stesso indiscutibili e insuperabili. Tutto ciò che a tale mondo non sia riconducibile, è necessariamente illusione o inganno. Di più: è a-nomalia, malattia o follia. All’interno di un mondo così concepito, solo la trasparente razionalità del calcolo e della misura hanno pieno diritto di cittadinanza, mentre ogni altra forma di espressione è degradata a de-lirio, a puro prodotto di una fantasia allucinata e malsana.

D’altra parte, la polemica contro i seguaci del senso comune, e la conseguente riabilitazione di ciò che non sembra appartenere al mondo reale, è antica quanto la filosofia. Da Eraclito a Nietzsche e Freud, attraverso Platone e Plotino, Bruno e Schopenhauer (solo per citare alcuni nomi), alla solo apparente “ovvietà” del mondo “vero” si è contrapposta la verità di una realtà altra e diversa, non coincidente con la presunta “evidenza” di quella nella quale viviamo immersi, ma insieme anche più autentica, rispetto a quella convalidata dall’opinione dei “più”.

Contro la doxa dei “molti”, i quali agiscono e parlano come dormienti, e non si avvedono neppure di ciò in cui si imbattono, sono indirizzati molti dei frammenti a noi pervenuti dell’Oscuro di Efeso. Allo stesso modo, uno dei temi ricorrenti nel Nietzsche del Crepuscolo degli idoli , e più in generale di tutta la sua opera, è l’irrisione nei confronti del cosiddetto “wahre Welt”, un “mondo vero” la cui storia coincide con la Geschichte eines Irrthums, con la “storia di un errore”, la storia del modo in cui “il mondo vero è diventato finalmente favola”.

Indipendentemente dalle modalità talora anche molto diverse, con le quali questa tematica è stata declinata, non vi è dubbio che negli autori sopra citati, e in numerosi altri passaggi cruciali nella tradizione speculativa dell’Occidente, si è riproposta insistentemente la questione del rapporto fra due “ordini” di realtà diversi e spesso contrapposti, e che inoltre molto spesso - come accade anche nell’opera di Howard - si sia affacciata più o meno esplicitamente l’ipotesi di un “rovesciamento”, in rapporto a quanto sembrerebbe inconfutabilmente testimoniato dal senso comune.

Ricondotto al contesto del film, questo filone problematico assume la forma di una radicale problematizzazione di quali debbano essere considerati i “limiti”, oltre i quali il “genio” de-genera in “follia”, di quali siano i confini entro i quali può esprimersi una “beautiful mind”, senza precipitare nella anormalità. Cancellando ogni segno di possibile riconoscimento fra i diversi “stati” mentali di Nash, e dunque rinunciando a connotarli secondo una possibile “gerarchia” di valori, o anche semplicemente a descriverli come l’uno del tutto eterogeneo rispetto all’altro, Howard procede oltre ogni presupposta distinzione fra essi, alludendo alla possibilità che sempre, e non soltanto nel caso determinato del matematico statunitense, la “normalità” può risultare indistinguibile dalla follia, sempre la “mente” contiene non soltanto la capacità del calcolo razionale, ma anche quella di produrre immagini, sempre, dunque, realtà e allucinazione si confondono e si integrano in un continuo, sul quale è impossibile intervenire scindendo nettamente un aspetto dall’altro.

Di più. Conferendo alla vicenda di John Nash il carattere di un vero e proprio paradeigma, l’Autore intende sottolineare che la scissione non è affatto l’indizio di una patologia isolata e circoscritta, che possa essere attribuita ad un singolo individuo, come tale diverso dalla generalità degli uomini, ma che al contrario essa è connaturata a ciascuno di noi, ci appartiene costitutivamente, segna il destino di chi - come Edipo, potentissima icona della condizione umana - sconta su di sé la moira dell’impossibilità di essere soltanto uno. In Nash ritroviamo, insomma, pienamente espressa, condotta alle sue manifestazioni più estreme, una duplicità che è essenziale a ciascuno di noi, anche se rimossa, o peggio ancora nascosta, per evitare la disapprovazione o l’emarginazione sociale.

La coercitiva reductio ad unum, realizzata mediante la somministrazione del coma insulinico o dell’elettroschock, non è necessariamente il tramite, attraverso il quale si riconquista uno status di presunta normalità, ma può essere anche vista come una mutilazione, come la soppressione violenta di un intero mondo che appartiene alla nostra interiorità, e che può essere giustificata solo con l’incapacità di tollerare la duplicità, e di accogliere pienamente la diversità, da parte della società nel suo insieme.

Questo ragionamento - che in altri casi si stenterebbe a giudicare persuasivo - diventa pressochè inoppugnabile allorchè ci si misuri con una vicenda, quale è quella di John Nash, nella quale la questione si pone senza alcun margine di possibile equivoco. La “mente” che partorisce allucinazioni e pretesi “inganni”, che dà vita a personaggi inesistenti, che spinge il protagonista a scrutare i possibili codici segreti nascosti in inoffensivi articoli di giornali e riviste, è la stessa mente che produce teoremi innovativi, destinati a dilatare i confini delle conoscenze in campo scientifico.

Nessuno potrà dubitare del fatto che questa patologia sia letteralmente l’altra faccia di una normalità talmente solida, da potere essere additata come caso emblematico del potere dell’intelletto. Né si può immaginare forma più compiuta e trasparente di razionalità, di quella della matematica. Nonostante tutto ciò - o, meglio, proprio in ragione di tutto questo - Howard ci dice che proprio quella ragione è pregna dell’illusione, proprio quel genio sconfina in ciò che, per pigrizia, o ignoranza, o viltà, preferiamo chiamare follia. E ci ammonisce anche a cogliere, in quella palese duplicità, nel manifestarsi più appariscente di quella scissione, le tracce di qualcosa che ci riguarda tutti, del quale nessuno può ritenersi immune.

Ma quello appena descritto, pur essendo certamente il più importante e il più “risolto”, anche in senso strettamente cinematografico, non è l’unico tema filosofico ravvisabile nel film. Accanto ad esso, è possibile individuare almeno un secondo filone problematico, sebbene meno originale, oltre che trattato in una forma meno convincente, rispetto al primo. La parabola esistenziale di John Nash, la sua personale esperienza, compendiata nel discorso pronunciato in occasione del conferimento del premio Nobel, è testimonianza di un assunto ben noto nella filosofia moderna e contemporanea, almeno a partire dal Seicento. Prima di Nash, infatti - e in termini incomparabilmente più rigorosi - un altro grande matematico, le cui ricerche pionieristiche avevano dischiuso prospettive ancora più innovative, di quelle aperte dallo studioso americano, aveva sostenuto la superiorità delle “ragioni del cuore”, nei confronti delle “ragioni dell’intelletto”.

Per quanto potente possa essere l’esprit de geometrie, aveva scritto Blaise Pascal nel pieno del XVII secolo, esso deve soccombere di fronte a un esprit de finesse che è capace di procedere più in profondità nell’indagine che riguarda la vita umana. La matematica pura, e più ancora la sua applicazione nel campo della meccanica e della tecnologia, potrà indubbiamente consentire risultati sbalorditivi, e un progresso apparentemente illimitato delle conoscenze. Ma nessun incremento quantitativo della razionalità geometrica potrà illuminare ciò che si sottrae ai “lumi” della ragione, e che soltanto per altra via, valorizzando e mobilitando altre risorse e strumenti differenti, potremo cercare di penetrare, senza avere comunque la pretesa di una risposta definitiva a problemi che non possono che restare indefinitamente aperti.

Il discorso finale di Nash, ma prima ancora la “morale” che egli stesso riconosce di aver appreso dall’amore della sua donna, riprende questa tematica, lasciando emergere talora un’intenzione vagamente predicatoria e moralistica, di per sé non necessaria e anzi perfino contraddittoria, rispetto alla sobrietà con la quale il film lavora sugli altri temi in precedenza descritti. Sia pure con questi limiti, i quali confermano l’inviolabilità di alcune regole non scritte, imposte alle produzioni cinematografiche di marca hollywoodiana, A Beautiful Mind è un esempio complessivamente riuscito della possibilità di trasformare un racconto biografico, che avrebbe potuto essere piatto e convenzionale, meramente celebrativo di un grande personaggio, in una ricerca intorno a ciò che attiene più specificamente alla condizione umana, al potere della mente, e agli abissi del cuore, alla sua esaltante grandezza e insieme alla sua irreparabile miseria . E a ciò che di essa continuerà a rappresentare un mistero inesplicabile.

Articoli collegati:
La scissione in ciascuno di noi
Che succede se il cinema imbroglia

 

 Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui

Archivio Cinema



homearchivio sezionearchivio
Copyright © Caffe' Europa 2001

 

Home | Rassegna italiana | Rassegna estera | Editoriale | Attualita' | Dossier | Reset Online | Libri | Cinema | Costume | Posta del cuore | Immagini | Nuovi media | Archivi | A domicilio | Scriveteci | Chi siamo