Moulin Rouge, la
love story che ci meritiamo
Paola Casella
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Moulin
Rouge, o la love story che ci meritiamo
Moulin Rouge, scritto e diretto da Baz Luhrmann, con Nicole Kidman,
Ewan McGregor, John Leguizamo, Jim Broadbent, Richard Roxburgh
C'è un solo modo per apprezzare un film come Moulin Rouge (ma ce ne
sono altri uguali?), ed è quello di lasciarsi andare, di sospendere
la facoltà critica e lasciarsi trascinare dalle immagini, dal suono,
dal ritmo. Moulin Rouge è una specie di ottovolante dal quale si
smonta dopo due ore e mezza di impennate e scivoloni vertiginosi,
chiedendosi se è stato più forte il rush di adrenalina o il mal di
mare.
Fin dalla prima scena, è evidente che ci troviamo davanti a qualcosa
di visivamente innovativo, anche se non necessariamente originale
(forse solo originalmente asssemblato, come vedremo), a un tour de
force sensoriale che richiede la nostra piena partecipazione (passivo:
siamo solo spettatori). I titoli di apertura appaiono attraverso il
sipario di un finto teatro, davanti al quale un direttore d'orchestra,
che è poco più di un'ombra cinese (e vedremo quanta parte ha
l'illusione cinematografica in questo film), si agita freneticamente
(e la parola frenesia è essenziale per definire il ritmo del film).
Segue una carrellata velocissima (filmata a ritroso, per accentuarne
l'effetto straniante) su una Parigi-diorama digitale, depauperata
chimicamente di colore (per assumere il tono delle foto d'epoca),
popolata da teatranti nel ruolo di parigini da quadro impressionista,
punteggiata da segni di riconoscimento pensati per farci dire: siamo a
Parigi - la torre Eiffel, Montmartre e appunto il Moulin Rouge, più
rosso e vistoso di quanto non sia mai stato nella realtà, perché
dev'essere subito chiaro che questo è il Moulin Rouge delle nostre
fantasie, specie quelle più equivoche.

Moulin Rouge è un musical, o più
precisamente una musical extravaganza, cioè un pastiche di canzoni e
numeri di danza a metà fra lo spettacolo di varietà e la performance
da circo. Ambientato nella Parigi fin de siecle, ma con un gusto
postmoderno che ne colloca la vicenda fuori dal tempo e dallo spazio,
Moulin Rouge racconta la storia di Satine (Nicole Kidman), star del
tempio del can-can, e Christian (Ewan McGregor), aspirante scrittore
arrivato nella Ville Lumiere in cerca di ispirazione e di esperienza.
Complice un equivoco iniziale, Satine e Christian si innamorano come
succede solo nei film, soprattutto nei musical: lei, cortigiana d'alto
bordo, seduce lui, perché lo crede un facoltoso conte in grado di
finanziare il prossimo spettacolo del Moulin Rouge, e quando si
accorge che lui è solo un povero artista che si offre come paroliere
dello spettacolo in questione, è troppo tardi. Cupido ha già
scoccato la sua freccia, che li ha trapassati entrambi, facendoli
innamorare a sangue (la metafora, volutamente granguignolesca, vi dà
già l'idea di quanto eccessivo, grafico e sopra le righe sia il
film).
Da questo momento in poi, la trama sarà imperniata su una sola
domanda: Satine seguirà il suo cuore, rimanendo con Christian, o i
suoi interessi (e gli interessi del Moulin Rouge) consegnandosi al
Duca, quello vero (Richard Roxburgh)? Il tema è più che classico, e
a dare una dimensione ancora più classicamente teatrale è il coro
dei personaggi di contorno: il pittore Toulouse Lautrec (John
Leguizamo, che recita sulle ginocchia), l'impresario Ziedler (Jim
Braodbent), presentatore (in senso circense) degli spettacoli del
Moulin Rouge, la perfida ballerina Nini (Caroline O'Connor), il
cantante argentino narcolettico (Jacek Koman), il nero Chocolat (Dhobi
Oparei, che ha una sola battuta di dialogo) e tutta una serie di
"caratteri" collocabili a metà fra il bar di Guerre
Stellari e un manifesto belle epoque di quelli disegnati, appunto, da
Toulouse Lautrec per il vero Moulin Rouge.

Prima considerazione: nessuno dei
personaggi di Moulin Rouge (il film) è un essere umano, ma solo uno
stereotipo - più che un archetipo - narrativo, a cominciare da Satine
(la Puttana dal Cuore D'Oro), Christian (il Poeta Squattrinato) e
Ziedler (Mangiafuoco, nella versione cinica e bonaria di Collodi, non
in quella insensibile e barbarica di Walt Disney, che peraltro era uno
stereotipo etnico). Questa è una precisa scelta di Baz Luhrmann, il
regista e sceneggiatore del film, che se ne frega altamente della
credibilità delle sue marionette, confidando precisamente nella loro
riconoscibilità per non dover perdere tempo a giustificarli oltre.
Persino la presentazione iniziale dei personaggi è da figurina Liebig:
quando appare il Duca Cattivo, sotto di lui si potrebbe leggere la
scritta Feroce Saladino.
Ciò che conta in Moulin Rouge non sono i personaggi e nemmeno la
trama - volutamente già vista, e quindi già interamente assimilata
dagli spettatori - ma lo spettacolo come performance, vera e propria
messinscena fine a se stessa e quanto più possibile (iper)cinetica:
la recitazione degli interpreti, così come la narrazione, sono
continuamente interrotte dai tagli del montaggio, il movimento è
costantemente accelerato, l'azione frammentata sottraendo fotogrammi
in modo che le immagini, invece di fluire, scattino. E' come vedere un
film muto, di quelli a velocità frenetica, o il filmino di una di
quelle macchinette con le quali - non a caso fin de siècle - venivano
proiettate le primissime immagini alle fiere.
Ed è proprio alla valenza magica, da spettacolo di illusionisti, del
primissimo cinema che Luhrmann fa riferimento. L'utilizzo più recente
di quella stessa valenza era nel Dracula di Francis Coppola, al quale
Moulin Rouge deve moltissimo, sia nella ricostruzione d'epoca (nel
caso di Dracula, l'Inghilterra vittoriana) anche attraverso la
manipolazione del colore (vedi il tema dell'assenzio come droga verde,
che contribuisce, e punteggia, visivamente il tono allucinatorio del
film), sia nell'utilizzo di effetti speciali volutamente naif, anche
se ottenuti con tecniche d'avanguardia e sistemi computerizzati. E la
luna nel cielo ricorda quella burlona di Le voyage dans la lune, il
film francese di Georges Méliès, classe 1902.

Ma Moulin Rouge fa omaggio anche
alla rivoluzione iconografica apportata alla televisione dalla MTV. Se
Moulin Rouge si rifà a un'epoca, infatti, non è solo la fine
Ottocento dell'ambientazione formale, ma anche gli scriteriati anni
Ottanta: la pista da ballo del Moulin Rouge sembra quella dello Studio
54, la colonna sonora è composta prevalentemente di canzoni (e ritmi)
che risalgono (eh sì, sono già passati vent'anni) a quel periodo, il
taglio e il montaggio dei numeri musicali rimandano al videoclip, il
mix umano è quello del rave party (anche se mescolato con il circo
felliniano).
Ricordiamo che i precedenti lungometraggi di Baz Lurhmann sono quel
Ballroom - Gara di ballo e quel Romeo + Giulietta di William
Shakespeare che utilizzavano già ampiamente l'estetica MTV. Inoltre
Luhrmann ha accumulato una vasta esperienza teatrale nella sua nativa
Australia mettendo in scena opere liriche (come quella che
maggiormente influenza Moulin Rouge, La Boheme) e testi scespiriani
(come Sogno di una notte di mezza estate, citato in Moulin Rouge
attraverso il tema indiano).
Ma i riferimenti artistici non si limitano al videoclip e all'opera,
alla tragedia (greca o scespiriana) e alla disco dance: si estendono
anche al cinema, dal già citato Dracula ai film della Disney (e chi
è stato a Disneyland può osservare che la prospettiva della
cinepresa che cala su Parigi nella scena iniziale di Moulin Rouge è
identica a quella del Volo di Peter Pan, film peraltro omaggiato in
Moulin Rouge con l’apparizione della Fatina Verde dell'assenzio,
identica a Campanellino, ma con le fattezze della diva pop australiana
Kylie Minogue).
Sono da cartone animato anche gli effetti sonori: lo swish continuo
che accompagna ogni movimento improvviso, il rollio che precede ogni
rapido dileguarsi, persino il respiro affannoso di Satine, quando
Moulin Rouge passa dall'affresco d’insieme della sala da ballo alla
soggettiva acustica dei malori della protagonista.
Innumerevoli le citazioni: i musical anni '50 (soprattutto Un
americano a Parigi e Cantando sotto la pioggia, per la frenesia di
certi numeri con Donald O'Connor); i melodrammi di Bollywood (il tema
indiano domina non solo nella messinscena teatrale ma anche
nell'arredamento della casa di Satine e nell'estetica kitch e
ridondante di tutte le ambientazioni); l'opera lirica rivisitata in
chiave postmoderna, alla Malcom McLaren, e il rock musical alla Tommy
di Ken Russell; persino la mitologia classica, soprattutto il mito di
Orfeo. C'è addirittura una citazione auto-referenziale da Ballroom.
Nemmeno Quentin Tarantino era riuscito a saccheggiare la cultura pop
in maniera così vampiresca: un critico americano ha definito Moulin
Rouge "un vero e proprio aspirapolvere culturale". Ma è
proprio il saccheggio (o la summa) della cultura pop la vera forza
strutturale, addirittura narrativa, del film. Lo dimostra, più di
tutto, il medley di celebri canzoni d'amore (anche qui,
prevalentemente anni Ottanta) con il quale Satine e Christian duettano,
inscenando una schermaglia destinata a durare il tempo, appunto, di un
medley musicale. Da All you need is love a I was made for loving you,
da One more night a Up where we belong (che cita anche il film dal
quale proviene, Ufficiale e gentiluomo), da Don't leave me this way a
I will always love you, fino a Your song di Elton John, la canzone
più spesso ripetuta nel film, insieme a Nature Boy che omaggia Nat
King Cole e a The Sound of Music che fa riferimento al musical Tutti
insieme appassionatamente.
Come nel francese Parole parole parole, in Moulin Rouge il commento
musicale non è costituito da brani originali (salvo un paio di
eccezioni) ma da un collage di canzoni stranote che però, cantate dai
personaggi principali, si trasformano in dialogo. Se in Parole parole
parole le canzoni venivano citate quasi per intero, in Moulin Rouge
vengono costantemente spezzettate, anzi, decostruire e riassemblate
(come la recitazione degli attori, come i numeri musicali) fino a dare
corpo a una creatura nuova, una specie di mostro di Frankenstein che
fa da leit motif del film. Ma anche della nostra vita, del nostro
immaginario erotico e sentimentale, ormai irrimedibilmente (e
interamente, suggerisce Moulin Rouge) plasmato dal cinema e dalla
musica pop.
"All'improvviso scopro il vero significato delle parole di queste
canzoni", dice Satine a Christian, riecheggiando la frase che
ognuno di noi ha detto, o anche solo pensato, alla sua prima cotta. Ma
la riflessione sociologica, quasi filosofica di Lurhman si spinge
oltre: non è tanto che ogni canzone d'amore assuma pieno significato
quando siamo innamorati, quanto che ci siamo abituati a validare lo
stato di innamoramento nella misura in cui corrisponde alle parole di
una canzone d'amore pop. L'amore, nell'era postmoderna, è tale solo
se suona come un brano della Top 10. E i suoi cantori, cioè i poeti
della nostra epoca, sono Sting ed Elton John (se ci va bene: se ci va
male, sono Alex Britti e i Lunapòp).
In questo senso, Moulin Rouge non è solo una love story per i nostri
tempi, è la love story che ci meritiamo: colorata di aspettative
esagerate e prive di agganci reali - ma ricca di agganci immaginari -,
costretta a rimanere sopra le righe e per questo terminalmente
estenuante (non a caso Satine soffre di tisi, detta anche
"consunzione").
Facendoci riascoltare con maggiore attenzione alcuni dei brani pop
più pervasivamente penetrati nel nostro DNA pop-culturale, Luhrmann
attribuisce loro una sorta di valore aggiunto, e almeno in un caso
possiamo parlare di lampo di genio: Smells like Teen Spirit dei
Nirvana viene interpretata, e messa in scena, da Ziedler (il
personaggio che incarna il motto "lo spettacolo deve
continuare") nella sua valenza più grottesca e drammatica,
quella che aveva ispirato l'autore del brano, Kurt Cobain. "Here
we are now, entertain us", cantano in coro gli spettatori del
Moulin Rouge, con la stessa vorace esigenza che Cobain percepiva nel
suo pubblico, e che lo condannava al suo ruolo di entertainer - quello
che, per dirla come Spalding Gray in Swimming to Cambodia, "ha
ucciso Marilyn Monroe", e poi anche il leader dei Nirvana.
Marylin (Monroe, ma anche Manson, che da voce proprio alla versione di
Smells Like Teen Spirit della colonna sonora di Moulin Rouge) è una
delle icone ricorrenti di un film che funziona per icone: gli
stereotipi già citati, ma anche la stessa Nicole Kidman, e la
plurievocata Madonna, ovviamente nel suo periodo simil-Monroe. Tra
l'altro, sono tutte icone dell'immaginario gay, cosa che fa sembrare
Moulin Rouge la versione musical della gay parade.
Basti pensare che Like a Virgin di Madonna viene reinterpretata da due
dei personaggi maschili del film, l'impresario Ziedler e l'ambiguo
Duca. Innumerevoli le drag queen, innumerevoli i boa di struzzo (ogni
volta che ne vedete uno, l'identità sessuale di chi lo indossa è
messa esplicitamente in questione). Immancabile il pezzo di Freddy
Mercury nella colonna sonora. Inequivocabile l'homage a Audrey Hepburn,
altra icona gay, nel cammeo del paroliere Audrey, un uomo (?),
interpretato da David Wenham.

La messa in scena di Roxanne dei
Police è un vero e proprio compendio di cultura alta e bassa: ci sono
le ballerine di Degas e il tango di Gardel, Cabaret di Bob Fosse (film
pluricitato, nonché cult della comunità gay) e la raucedine di Sting
(anche se in playback c'è José Feliciano), il Rocky Horror Picture
Show (nel personaggio di Nini, clone di Little Nell) e le vetrine di
Amsterdam.
Moulin Rouge è stato incensato come "visionario, addirittura
"trascendente", ma anche sbeffeggiato in quanto
"terribilmente autocompiaciuto", "esageratamente
artificiale", ""tutto fumo e niente arrosto".
"E' come guardare un bambino iperattivo: dopo un po', viene
voglia di mandarlo a letto", ha scritto una critica, mentre un
suo collega suggeriva che qualcuno somministrasse la valeriana
direttamente a Luhrman.
"Moulin Rouge ti fa sentire intrappolato in un
caleidoscopio", oppure "bloccato in un ascensore con il
circo", o ancora "costretto a guardare la tv mentre qualcun
altro fa zapping", hanno fatto eco vari quotidiani americani. Se
la reiterazione è sul concetto di cattività, è perché, una volta
entrati in sala, si ha la sensazione, contemporaneamente
claustrofobica ed eccitante, di non poterne uscire fino alla fine,
così come non si può scendere da un ottovolante a metà corsa.
Moulin Rouge si ama o si odia. A poco valgono le critiche sulla
prevedibilità della trama - pensata, appunto, per essere il
canovaccio più immediatamente riconoscibile, visto che il film è
altrove - o sulla falsità dei personaggi. A poco serve sottolineare
che molte scene sono lunghe e noiose, stucchevoli e melodrammatiche, o
anche semplicemente "troppe": Baz Luhrmann, come molti
registi visionari, non possiede il senso della misura necessario a
usare le forbici, reputando il senso della misura l'anticamera della
mediocrità.
Non so se con Moulin Rouge Luhrmann abbia davvero reinventato il
musical, o non l'abbia piuttosto ruminato e rigurgitato (di nuovo, la
metafora è volutamente grottesca). Di sicuro ha osato molto, cercando
di utilizzare appieno le possibilità del mezzo cinematografico,
portandoci in posti che non avevamo mai visto prima, se non nella
nostra immaginazione. E questo è uno dei motivi per i quali si va al
cinema.
Non so se Moulin Rouge verrà giudicato una pietra miliare, ma so
che la sua energia visiva, il suo virtuosismo estetico, aggiungono
una tessera al nostro immaginario cinematografico. Che il perfezionismo
del regista, il quale ha affrontato ogni dettaglio con entusiasmo,
compresa la composizione dei titoli di coda (dove ringrazia gli
inventori del Möet Chandon) e la creazione del sito
ufficiale del film (con link che fanno intuire un pensatore
orizzontale, fra cui uno a un network sull'assenzio) crea uno standard
di qualità difficilmente emulabile. E che qua e là Luhrmann ha disseminato
piccole e grandi intuizioni, commentari anche profondi - vertiginosamente,
direi, visto il contesto - sulla nostra società e "cultura".
Una cosa è certa: è un film da vedere per credere e il mio consiglio
è: godetevi la corsa.
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