Buone notizie dal
fronte del Lido
Leonardo Gandini
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Lido
Le perle del concorso
La decisione di Alberto Barbera, direttore della Biennale Cinema di
Venezia, di istituire due competizioni parallele, affiancando al
consueto concorso la sezione denominata “cinema del presente”, ha
sortito l’effetto di scatenare una infinita quanto oziosa
discussione, che ha per l’oggetto la collocazione di un film nell’una
piuttosto che nell’altra sezione. Persino le qualità del singolo
film vengono talvolta sommerse dai dibattiti sulla presunta
inopportunità del suo inserimento in “cinema del presente”
piuttosto che nel concorso ufficiale, o viceversa.
Vale dunque la pena di ritornare a quello per cui buona la parte della
critica dovrebbe essere in laguna, e cioè il valore delle pellicole
presentate, al di là del contenitore in cui si trovano. Proviamo a
parlare di qualche opera prima, ad esempio di Le souffle,
egregio esordio del trentaduenne cineasta francese Damien Odoul, che
racconta l’iniziazione alla vita rurale di un adolescente, David,
mandato a passare l’estate con lo zio. Insieme agli amici, quest’ultimo
si diletta in bevute omeriche, mangiate pantagrueliche e interminabili
partite a carte, alle quali deve prender parte il timido David,
costretto ad imparare i fondamentali dell’essere un “vero uomo”.
Lo sguardo di Odoul trasforma uno dei luoghi sacri del cinema
francese, la campagna, in un posto laido, sudato e vagamente
disgustoso, dominato da maschi rozzi e brutali, perennemente
annebbiati dal cibo e dal vino. Memore della lezione di Bresson, Odoul
gira con sobria essenzialità, in bianco e nero, consegnandoci un
ritratto di grande forza espressiva, fatto di sguardi, gesti e
silenzi.
Altrettanto interessante l’opera prima del cinese Zhu Wen,
sceneggiatore di spicco del nuovo cinema cinese, che in Hai Xian ("Frutti
di mare") narra la vicenda di una prostituta che vuole
suicidarsi, e di un poliziotto che prova a distoglierla dal suo
intento portandola a mangiare appunto del pesce, e spiegandole che
attraverso la passione per questo cibo è possibile ritrovare la gioia
della vita. Come spesso avviene coi nuovi cineasti cinesi, anche
quello di Zhu Wen è essenzialmente un film contemplativo, di
osservazione, basato sull’approfondimento di un rapporto a due
personaggi, e sviluppato seguendo i loro itinerari, dunque attribuendo
grande importanza al paesaggio.
Il fatto che la ragazza viva in una grande città, ma si rechi per il
suicidio in un villaggio dove la gente spesso va apposta per togliersi
la vita, e che questo stesso villaggio sia in patria assai celebre in
quanto luogo di incontri al vertice tra i più importanti uomini di
governo, fa evidentemente del film anche una metafora, sin troppo
eloquente, sulla politica e il potere nella Cina odierna. Non c’è
da sorprendersi, dunque, se Hai Xian è stato prodotto con
capitali provenienti da Hong Kong, né ci si può stupire delle
dichiarazioni del regista, che ha escluso la possibilità che il film
possa essere distribuito in patria.
Per presentare Rain, opera prima della giovane americana
Katherine Lindberg, si è scomodato addirittura Martin Scorsese, che
del film è produttore. Rain si inserisce con forza in un
filone narrativo-tematico sempre molto frequentato dal cinema
americano, quello che racconta la pigra quotidianità della small
town, tra mogli adultere, adolescenti inquieti, uomini che
rincorrono ossessivamente piccole cariche di potere. Qui ci troviamo
nello Iowa, in una cittadina circondata da pianure sterminate, e
incessantemente attraversata da treni che sfrecciano senza mai
fermarsi, a simboleggiare l’impossibilità di ogni fuga, di quell’evasione
che pure ciascuno dei personaggi vagheggia come unica ancora di
salvezza.
Pur alla sua prima esperienza col lungometraggio, la Lindberg dimostra
già una notevole padronanza stilistica, lavora con grande perizia
sullo spazio, e riesce così a costruire un’atmosfera fatta di
silenzi carichi di significato, passioni represse, vite monotone e
annichilite dalla routine. In più la presenza di un rapporto
incestuoso, che si paleserà come tale solo alla fine, fa sì che il
suo film si riallacci ad una tradizione letteraria alta, che ha in
William Faulkner e Tennessee Williams i suoi esponenti più noti.
Anche nell’ambito del nostro cinema, le buone notizie vengono
soprattutto dagli esordienti. Tornando a casa, del ventinovenne
Vincenzo Marra, racconta la vicenda di tre pescatori napoletani
costretti a lavorare in Sicilia, e decisi ad avvicinarsi a casa,
nonostante l’ostilità dei colleghi che già lavorano nel golfo di
Napoli, e che non gradiscono la presenza e l’attività di un’altra
barca. In particolare la storia ruota intorno al più giovane del
gruppo, Franco, che sogna di andare in America con la fidanzata,
almeno sino a quando questa non muore in circostanze fortuite.
Marra conosce a menadito l’arte dell’ellissi, e questo gli
consente di schivare tutti i possibili pericoli di retorica ed enfasi
melodrammatica: il suo è un film che procede per lampi, piccole
notazioni, sguardi che bastano da soli a raccontare la fatica del
vivere. Stringato, secco, essenziale nel mettere a nudo la disperata
ostinazione dei suoi piccoli eroi, Tornando a casa rappresenta
uno dei migliori esordi del cinema italiano degli ultimi anni, oltre a
sancire il ritorno ad un argomento, i problemi di sopravvivenza di chi
sta in fondo alla scala sociale, con il quale il cinema italiano ha
avuto sempre un rapporto privilegiato.
Tutt’altro clima si respira in L’uomo in più, opera prima
di un altro napoletano, il trentenne Paolo Sorrentino, già vincitore,
nel 1997, del premio Solinas per la migliore sceneggiatura. Il film,
ambientato a Napoli negli anni Ottanta, ha per protagonisti due uomini
che si chiamano allo stesso modo, Antonio Pisapia. L’uno fa il
cantante di night, l’altro il calciatore di serie A. Entrambi si
godono la celebrità, sino a quando il destino - sotto forma di
rapporto sessuale con una minorenne, con relativa denuncia e condanna,
nel caso del primo, e di un grave infortunio ai legamenti per il
secondo - non li fa precipitare in un abisso da cui proveranno invano
a risalire.
Il cantante cerca di rinverdire i fasti di una carriera spesa in
locali fumosi, il calciatore, appassionato di tattica, prova a
riciclarsi come allenatore: entrambi si scontreranno con l’indifferenza
degli amici di un tempo, che non hanno alcuna intenzione di concedere
loro ulteriori opportunità. Vagamente ispirato alle biografie di due
personaggi reali (Franco Califano e Antonio Di Bartolomei), L’uomo
in più è un film avvolto nella propria malinconia, crepuscolare
come una canzone di Paolo Conte.
Sorrentino racconta i suoi perdenti con affetto, descrivendone
impietosamente la graduale, crescente consapevolezza di essere ormai
usciti dal cono di luce della popolarità. Alla riuscita del film
danno un importante contributo i due interpreti, Toni Servillo e
Andrea Renzi: soprattutto il primo, alle prese con la personalità
istrionica del cantante di night, offre una prova d’attore di
grandissimo spessore.
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