La freddezza del
dolore
Angelica Alemanno
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Non sono d'accordo
Posso, con tutta umiltà, avanzare alcune modeste considerazioni su La
stanza del figlio di Nanni Moretti, parere ancora in fase
di assestamento nella mia testa giacché alcune tristi coincidenze mi
hanno costretto a visionare il film con un occhio tutto speciale.
Potrei esordire parlando di quanto, in tema di elaborazione del lutto,
mi abbia dato molto di più il film di Kieslowski Blu. Di come
in quel caso il dolore si sia trasformato nel colore di Claude Lenoir
e nella musica di Zbignev Preisner, di quanto lo stomaco mi si sia
aggrovigliato di emozione per un dramma non nato dalla
rappresentazione mimetica del reale, ma dal progressivo accostamento
di elementi non drammatici.
Di come da quel luogo lontano, Parigi, il dolore mi sia sembrato
vicino, potente. Dettagli legati dalle segreti leggi della poesia per
immagini, in cui il senso della libertà, libertà da e attraverso il
dolore, mi ha penetrata, schiacciante e chiara, al di là di ogni
dialogo...

...ma evito di dilungarmi in tutto ciò, tentando di calarmi nello
specifico di Moretti e della sua poetica.
La stanza del figlio mi ha delusa. E non nel risultato, che in
parte apprezzo, ma nelle intenzioni. Ho letto più volte che uno dei
temi forti del film (sempre nelle intenzioni del
regista-sceneggiatore) era quello di raccontare come il dolore divida,
piuttosto che avvicinare, i congiunti. Direi pettegolezzi di
corridoio.
Quello che invece mi è arrivato, e comunque al di là delle
intenzioni, è una forte volontà di raccontare questo dolore, di
contro ad una forte resistenza "narrativa" nel riuscire a
farlo. Soprattutto il dolore personale (quello di Moretti regista e/o
padre) appare come soffocato, strozzato. Ed è in questo senso,
dunque, che posso apprezzarlo. Perché capita, certo, di non essere in
grado di esprimere il dolore.
Ma non credo si debba confondere l'incapacità di viverlo con
l'incapacità di raccontarlo, l'indugiare sui (propri) primi piani,
sul silenzio, su un'espressione d'inebetito senso di colpa. Il dolore
divide? Certo, nella misura in cui ogni personaggio lo vive a suo
modo: chi buttata sul letto, chi chiusa in uno spogliatoio di un
negozio, chi ritornando a ripetizione sul principio di un brano
musicale su CD.
Ma tutto questo è normale, e non aggiunge nulla alla percezione che
già avevo di quella sensazione. Il dolore non necessariamente divide
al punto da frantumare, da schiacciare, da scomporre l'esistenza. E'
un punto di non ritorno a cui non si può porre rimedio, come per la
teiera sbeccata. Ma questo lo sapevamo già.

La stanza del figlio è un film sfuggente, sfuggito di mano
forse allo stesso autore, spinto a narrare qualcosa di grande ma che,
chissà perché, rimane sempre piccolo piccolo. Un modo per
esorcizzare le proprie paure di genitore. Ma crede davvero di essere
il primo ad affrontare questo tema? E Tutto su mia madre ce lo
siamo scordato?
Ne La stanza del figlio, un figlio già inspiegabile prima di
morire è forse l'unica metafora che regge l'incomprensibilità della
morte in sé.
L'impegno e l'amore con cui è fatto questo film si percepisce da ogni
inquadratura, più bella di tutte forse l'ultima, quella sulla
spiaggia, di fronte a un mare, testimone, mostro misterioso che da
nemico diviene amico. Fino quasi a far sorridere di sé. Di fronte a
lui, gli individui vaganti senza direzione riflettono e vivono il
dolore senza la necessità di raccontarne il superamento.
Ma La stanza del figlio non "arriva" come dovrebbe e
soprattutto non soddisfa le enormi aspettative che il tam tam (o brum
brum) pubblicitario che ci gira intorno hanno sollevato. Sicuramente
è un film in pieno stile Morettiano, dove il conivolgimento del
protagonista-autore è tale e tanto che paradossalmente ci lascia
freddi. Il rischio, però, è che ci lasci anche indifferenti.
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