"Bisogna
dire Non mi basta mai"
Daniele Vicari con Petra Bagnardi
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mai"
I
35 giorni della Fiat
Daniele Vicari, regista di documentari quali Partigiani e Uomini
e Lupi, è co-autore, insieme a Guido Chiesa (regista de Il
Partigiano Johnny) del film-documentario Non mi basta mai,
che racconta dello sciopero del 1980 dei dipendenti della FIAT, durato
35 giorni. Il documentario, distribuito dalla Pablo di Gianluca
Arcopinto, ha ricevuto il finanziamento del Fondo di Garanzia, di
solito riservato ai film di finzione ed è attualmente distribuito
nelle sale cinematografiche. La prima ha avuto luogo il 30 Gennaio a
Roma, presso il Nuovo Sacher di Nanni Moretti. Caffè Europa ha
parlato di questo evento nel numero del 9 Febbraio, con l’articolo I
35 giorni della FIAT (vedi articoli collegati).
Rossana Rossanda, parlando di Non mi basta mai, ne ha
sottolineato il tono malinconico e ha criticato il messaggio di
rassegnazione alla non partecipazione politica che il film sembra
comunicare. Cosa pensa di questo intervento?
Non condivido la critica della Rossanda. Le persone delle quali
raccontiamo la storia hanno vissuto un decennio importante, quello tra
il 1969 e il 1980, durante il quale il movimento di massa è stato
molto forte, nelle scuole ma soprattutto in fabbrica. Con la fine del
fordismo quel modo di organizzare le lotte è diventato poco efficace
se non impossibile, perché è cambiata l'organizzazione del lavoro e
quindi quella della società. Dunque, è diventato necessario
inventare nuovi modi di contestare. L’attività che i cinque
personaggi svolgono oggi ci fornisce una serie di indicazioni.
Chiedersi se ciò che fanno sia sufficiente per cambiare il mondo, è
una domanda che nasconde una retorica non lucida. Secondo me
bisognerebbe chiedersi invece se è possibile fare a meno di quel loro
impegno.
Naturalmente realizzando il film non abbiamo potuto né voluto fare un’analisi
esaustiva della "vicenda Fiat". Abbiamo scelto di raccontare
la vita di cinque ex operai, ed attraverso la loro vita abbiamo voluto
indagare come sono cambiati loro dopo l'espulsione dalla Fiat, e
com'è cambiata la società che li corconda. E' il presente che
abbiamo voluto indigare. I “padri” della cultura marxista italiana
mi hanno insegnato a pensare il presente come storia. Questo
atteggiamento aiuta a creare una correlazione forte tra ciò che è
successo nel decennio ’70-’80 e l’oggi. E l'attività politica e
sociale che i cinque personaggi svolgono oggi è un’indicazione per
il futuro, è il loro modo di cambiare il mondo, sebbene il loro non
sia l’unico modo.

Dall’intervento della Rossanda riportato nell'articolo di Paola
Casella si potrebbe evincere che questi cinque personaggi siano degli
“individualisti”. Ma secondo me è vero il contrario, perché si
collegano alla società su talmente tanti piani, e lo fanno con così
tanta passione che potrebbero essere definiti “uomini nuovi”.
Giorno per giorno affrontano il limite loro imposto dalla società.
Non fanno parte del riflusso, tant’è che ognuna delle loro
attività implica un coinvolgimento pieno delle persone con le quali
vengono a contatto. Sono dei catalizzatori sociali.
La Rossanda fa un errore di valutazione. Ci sento l'eco di un certo
"positivismo" che ha fatto e fa parte integrante della
cultura marxista. Ma forse c’è anche un dato anagrafico: milioni di
esseri umani hanno partecipato ad eventi tragici ed eroici allo stesso
tempo, e per loro è difficile affrontare un'epoca non eroica,
apparentemente banale e piatta. Oltre a ciò ci sono questioni
politiche aperte, quasi delle ferite: se ogni dirigente politico ed
intellettuale ha un punto di vista diverso sulla questione FIAT, forse
dipende dal fatto che non c'è stata una elaborazione collettiva che
abbia prodotto un punto di vista comune. Non voglio fare un discorso
biecamente generazionale, dico solo che bisogna rischiare e cominciare
a parlarne, anche provocatoriamente. Il film è un nostro piccolo
contributo al problema.
E’ interessante che la Rossanda avverta malinconia nei nostri
personaggi. Io invece non li trovo malinconici. La sconfitta, non
elusa dal film, è malinconica ma non lo è la reazione dei personaggi
che reinventano la loro vita attraverso la reinvenzione del lavoro,
una sorta di "riappropriazione" di sé, di superamento della
alienazione, che va di pari passo con un attivismo consapevole della
complessità della loro esistenza nel mondo com'è oggi.
Quanto nel documentario è costruito? E’ interessante il fatto
che lei non parla mai di “intervistati” o di “persone”, ma di
“personaggi” e questo sembra presupporre una forte manipolazione fictional
del materiale, tanto che l’incipit del documentario è come
quello di un film di finzione con la classica presentazione, appunto,
dei personaggi.
"Se io non parlassi di 'personaggi' sarei disonesto. Qualunque
persona intervistata viene influenzata dall’intervistatore, dalla
macchina da presa. Non li rispetterei se non li definissi 'personaggi',
dal momento che come esseri umani sono certamente più complessi di
come un film li possa rappresentare.
Io e Guido Chiesa condividiamo lo stesso atteggiamento di fondo verso
il cinema. In ogni opera narrativa non si può nascondere il proprio
punto di vista, perché è uno strumento in più per chi ne fruisce. E’
un problema etico e viene insieme a quello linguistico. Con i
flashback iniziali, inseriti nella presentazione dei personaggi,
vogliamo dire, fin da subito: questo è uno scultore, questo è un
pescatore, però entrambi hanno qualcosa in comune - un’idea
astratta di lotta, significata dai flashback, che poi nel film piano
piano si specifica e si chiarisce. Fin dall’inizio dichiariamo il
nostro punto di vista anche attraverso una forte impronta narrativa.
E' un rifiuto del naturalismo e fin dall’inizio dev'essere chiaro
che il punto di vista dei registi non è quello dei personaggi.
Nel film ci sono tre livelli di immagini: quelle prodotte da noi,
quelle recuperate dal repertorio RAI, e quelle che derivano dal
repertorio personale dei personaggi. Combinandosi, e questo è voluto,
queste immagini danno una mescolanza di soggettivo e sociale, che dice
con immediatezza che il privato è politico. Lo era nel passato e
continua ad esserlo."
Qual è stato il vostro metodo di lavoro e che rapporti avete avuto
con gli intervistati?
"Abbiamo avuto contatti telefonici e diretti con decine di
persone. Li abbiamo avvicinati con domande molto generiche. Sulla base
dei colloqui abbiamo poi preparato delle schede non dettagliate.
Volevamo un panorama complessivo. Quindi abbiamo operato una prima
scrematura. Abbiamo scelto le venti persone più interessanti, con le
quali abbiamo approfondito la conoscenza. Abbiamo costruito una
griglia di domande che permettesse loro di parlare liberamente e a noi
di trovare quello che cercavamo. Poi abbiamo scelto le cinque persone
che, dal punto di vista umano ed esperienziale, avessero qualcosa in
comune: l’elaborazione della sconfitta verso una direzione
innovativa."
Loro come hanno reagito?
"I nostri cinque personaggi ci hanno permesso di entrare nelle
loro case, nella loro quotidianità. Quella che viene definita
mancanza di retorica è dovuta al fatto che ci hanno accompagnato in
un viaggio all’interno della loro esperienza personale. In certi
casi passare attraverso l’intimità è l’unico modo possibile di
raccontare una storia che ha anche risvolti politici e sociali.
Ci parli della sua formazione e dei suoi lavori precedenti.
"Svolgo attività politica da quando avevo 15 anni. Fino a 20
anni non ero mai andato al cinema. All’università ho cominciato a
seguire le lezioni di Guido Aristarco. Lui ha dato un senso alla mia
ansia di sapere. Per sei anni ho scritto sulla sua rivista, Cinema
Nuovo. Successivamente ho realizzato alcuni cortometraggi, che
possono essere definiti esperimenti tecnici. Ho anche insegnato cinema
nelle scuole. Poi ho avuto l’idea di fare dei reportage: Partigiani,
Uomini e lupi. E' stato Guido Chiesa a darmene la possibilità
concreta. Ho realizzato anche un corto per Telepiù in occasione della
ricorrenza della morte di Pasolini. Sto per realizzare un film
prodotto dalla Fandango e tratto da un documentario sulle corse
clandestine notturne in automobile che sarà il mio primo
lungometraggio di finzione".
Cosa ne pensa della sinistra di oggi?
"Capisco l’amarezza della Rossanda e di chi come lei ha dato la
vita per cambiare la società, ma non la condivido. Stiamo vivendo un
momento di forte transizione. La sinistra, però, non sa dare risposte
all’altezza dei problemi che viviamo. La responsabilità è di tutti
i dirigenti della sinistra, e non solo della dirigenza. Non si può
mettere la testa sotto la sabbia, nell'atteggiamento politico di
ognuno di noi esiste una fortissima responsabilità individuale. A
volte mi capita di osservare persino un programmatico pessimismo della
volontà che serve a giustificare il ritirarsi di fronte a problemi
che sono più grandi di quelli del passato.
Non bisogna piangersi addosso ma al contrario impegnarci. Gli
individui devono essere consapevoli. Oltre ai grandi problemi politici
generali c'è anche un problema generazionale. Le persone dai 30 anni
in giù hanno un peso in meno sulla testa, la cosiddetta
"sconfitta" noi non l'abbiamo vissuta in presa diretta, ma
solo di riflesso. Forse questa generazione può costruire una reazione
allo sfascio generale, può dare una svolta, imparando da quelli che
nel passato hanno vissuto con coerenza e coraggio.
Le organizzazioni politiche devono comprendere i problemi endemici di
oggi. Devono anche occuparsi di problemi quotidiani. La realtà è
difficile, ma non più di quanto non lo fosse 30 anni fa. Sono stanco
dello sconfittismo di tanti intellettuali che troppo spesso hanno un
atteggiamento paralizzante. Si pensi alle reazioni suscitate
dall'ultimo libro di Marco Revelli. Quel libro non ha fatto sbocciare
un prato di colorate discussioni, ma un prato di ortiche. Lui ha detto
solo quello che pensa, lo ha detto con forza. E’ un cervello che
cammina. Ciò non vuol dire che abbia in tasca le chiavi per il
futuro.
Io voglio discutere le critiche e non accettarle passivamente. E non
ci sono luoghi dove discutere. Le riviste sono spesso autoreferenziali
e i giornali solo interessati a vendere copie. La Rivista del il
manifesto ci sta provando, sebbene gli interventi che appaiono
sulle sue pagine siano sempre scritti dalle stesse persone.
Il fare cinema ha una grande responsabilità in tutto questo. Il
cinema può dare un contributo notevole per comprendere la nostra
situazione. La memoria ha valore solo se collegata con il presente. La
vita dei personaggi di Non mi basta mai è bella. Fossero
così, tutte le persone di sinistra.
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