I 35 giorni della Fiat
Paola Casella
30 gennaio, Ore 20:30, Cinema Nuovo Sacher, Roma. Gianluca Arcopinto,
patron della casa di produzione e distribuzione cinematografica
Pablo, prende il microfono: "Era da tanto tempo che non mi
emozionavo davanti a una platea". La sua emozione, dice, deriva
dal fatto che in mezzo al pubblico ci sono Pietro Ingrao e Rossana
Rossanda, ma anche i fratelli Taviani, ovviamente Nanni Moretti
(proprietario del Sacher), e poi tutta una serie di "amici",
anzi, di compagni -- di partito e di ricordi.
Parte la proiezione di Non mi basta mai, film-documentario
girato da Guido Chiesa (il regista del Partigiano Johnny)
e Daniele Vicari, e in gran parte assemblato con il materiale raccolto
da Pietro Perotti, uno dei leader della protesta sindacale, durante
i 35 giorni di sciopero, nell'autunno dell'80, della "classe
operaia" - come viene ripetutamente definita nel corso del
documentario -- contro la Fiat.
Non mi basta mai è il primo documentario riconosciuto "di
interesse culturale nazionale", il primo a ricevere i finanziamenti
del Fondo di garanzia, normalmente riservati a lungometraggi di
fiction. E' anche l'unico documentario italiano destinato alla distribuzione
nei cinema -- a Milano e Torino dal 2 febbraio, a Roma dal 9 --
e già richiesto da oltre cento sale in tutta Italia.
Fa un certo effetto vedere sul grande schermo le immagini del leggendario
sciopero. Torna in mente il vecchio cinegiornale, senonché il bollettino
del Luce non avrebbe mai trasmesso scene come queste , così come
non le hanno trasmesse i telegiornali dell'epoca: Chiesa e Vicari
ci danno un sunto di come i TG raccontarono la vicenda - con dispendio
di opinioni e un ferreo controllo sulle immagini. Le riprese di
Perotti invece sono caotiche ma vitali, mai coreografate, filmate
con il superotto e quindi traballanti, qualche volta sfocate.

Non mi basta mai è un po' Dancer in the dark (anche
per via del contesto sociopolitico) e un po' Buena Vista Social
Club (e non solo perché quello di Wenders è il più recente film-documentario
destinato al grande schermo), ma è anche tanto Woodstock,
nelle scene di massa girate "dal di dentro", nell'euforia
collettiva che coinvolge anche chi effettuava le riprese, nelle
facce dipinte, i tazebao, i nudi di gruppo (in bianco e nero questi,
recuperati da Chiesa e Vicari), le mense comuni, i promiscui accampamenti.
"Fa piacere vedere le masse sullo schermo", dirà Ingrao
dopo la proiezione. "Nessuno dei film che hanno documentato
l'alienazione della classe operaia ha mai incluso scene come queste.
Bisogna tornare a Tempi moderni, dove Chaplin faceva vedere
intera la catena di montaggio". Anche Chiesa e Vicari hanno
accostato ai bagni di folla ripresi da Perotti alcune immagini d'archivio
sull'impostazione fordista dell'azienda Fiat: i dipendenti che marciano
in fila verso le loro postazioni, le automobili sfornate a getto
continuo e allineate in parallelo. Un programma ambizioso (e antitaliano,
verrebbe da osservare) destinato a fallire nel giro di pochi anni,
non tanto per l'incompatibilità fra le aspettative dell'azienda
e i ritmi della forza lavoro - come fu insinuato ai tempi del Grande
Sciopero -- quanto per l'incapacità del mercato di assorbire una
produzione così serrata: ricorda Perotti, "Non siamo stati
licenziati perchè lavoravamo troppo poco, ma perché avevamo lavorato
troppo".
La storia dello sciopero, oltre che attraverso le immagini documentarie,
è raccontata attraverso i ricordi di cinque dei suoi protagonisti:
Perotti appunto, forse il più lucido del gruppo (non a caso è lui
che, in medias res, aveva capito la portata storica dello
sciopero, al punto da volerlo documentare play by play, interamente
a sue spese); Gianni Usai, ex sindacalista coinvolto nelle trattative
fra gli scioperanti e l'azienda (straziante il suo ricordo di Guido
Rossa, il collega ucciso dalle Brigate Rosse proprio perché disposto
a mediare col "padrone"); Ebe Matta, ex operaia in possesso
di diploma e di coscienza critica anche femminista; Pasquale Salerno,
anche lui ex operaio, forse il più "normale" del gruppo,
e per questo il più passivamente travolto dagli eventi; Vincenzo
Elafro, il più radicale, e uno dei 61 che fecero da miccia alla
protesta, prima che questa esplodesse in grande scala nell'autunno
dell'80.
I cinque protagonisti, come i musicisti di Buena Vista Social
Club (ecco l'altro parallelo col film-documentario di Wenders),
vengono osservati ognuno nella propria individualità, e solo alla
fine collegati l'uno all'altro. Oltre ai ricordi, li accomuna la
scelta di aver abbandonato il lavoro che svolgevano ai tempi dello
sciopero ed essersi reinventati una vita completamente diversa.
Piero Perotti oggi crea mascheroni di poliestere; Gianni Usai ha
messo in piedi una piccola cooperativa ittica; Ebe Matta si occupa
di riabilitazione psicofisica; Pasquale Salerno fa l'artigiano;
Vincenzo Elafro è una specie di assistente sociale, addetto al recupero
di giovani sbandati.
Ed è proprio questo il tasto dolente, anche se Non mi basta mai
non lo sottolinea a sufficienza: ciascuno di questi ex combattenti,
che avevano creduto nella possibilità -- nella necessità, forse
-- di un'azione collettiva, si è poi ripiegato su se stesso, su
un individualismo che, anche quando impegnato in attività altruistiche,
mantiene comunque una dimensione personale. Ognuno deve fare quel
che può rimanendo nel suo piccolo, concordano alla fine alcuni dei
protagonisti. E parlano dei loro vecchi ideali come di utopie.
E' Rossana Rossanda, al termine della proiezione, a mettere l'accento
sulla negatività di questo atteggiamento e sul tono malinconico
dell'intero documentario, che in pratica documenta una sconfitta
non solo sociale e politica (quella della "classe operaia"
contro i "padroni"), ma anche individuale (la perdita
di una motivazione forte, per non dire di un sogno). "Nel film
si dice che gli operai volevano il potere", ha detto Rossanda.
"In realtà volevano semplicemente avere voce in capitolo nella
gestione dell'azienda e questa, di per sé, non è una pretesa utopistica."
Rossanda ha criticato il messaggio di rassegnazione alla non partecipazione
politica, che sembra emergere dal documentario, una critica particolarmente
significativa visto che, prima della proiezione, Arcopinto aveva
detto di essere orgoglioso del fatto che Non mi basta mai verrà
proiettato nelle sale italiane in tempo di pre campagna elettorale.
In effetti, Perotti ha sublimato la sua passione politica nell'arte;
Salerno concentra la sua abilità manuale su dettagli sempre più
minuti (e dichiara che sarebbe disposto a fare il suo lavoro gratis
-- uno spostamento a 360 gradi rispetto a chi insisteva che il lavoro
dovesse essere equamente retribuito); Elafro si limita a reintegrare
i "rifiuti" della società, senza più preoccuparsi di cambiare
una società con un così elevato tasso di scarto. Il personaggio
più tragico è Usai, che da sindacalista impegnato a combattere per
il bene comune è diventato un'esiliato in confino volontario nella
sua isola, la Sardegna. Anzi, è diventato un'isola lui stesso.
Ebe Matta rimane l'unica del gruppo a svolgere ancora attività sindacale.
Quando qualche mese fa Caffè Europa ha condotto un'inchiesta
sui desaparecidos argentini, uno degli intervistati ha osservato
che la repressione dei generali aveva tolto completamente ai maschi
ogni velleità combattiva, e le donne erano le uniche a lottare,
con l'ostinazione di chi conosce la fatica di Sisifo, e non per
questo si rassegna. "Uno dei pregi di Non mi basta mai è
quello di fare vedere quanto abbia contato la presenza femminile
all'interno della protesta sindacale", ha osservato la Rossanda,
che di certe cose ha memoria diretta, anzi, è condannata ad avere
"fin troppa memoria".
Non mi basta mai ha proprio il pregio di tenere viva la memoria
storica, anche se è quella di una Caporetto dalla quale il movimento
sindacale deve ancora riprendersi, una battaglia di Little Big Horn
senza nemmeno il generale Custer, anche se sullo schermo compaiono
molte facce note -- da Berlinguer a Carniti, da Bertinotti a Benevenuto,
tanto più giovani e tanto più coinvolti. Non mi basta mai
ha anche il pregio di mostrare la piazza, quella piazza recentemente
lasciata ai cortei di Forza Italia, ai medici con il doppio lavoro,
a Insabato e le sue simpatie carinziane.
Il documentario però lascia l'amaro in bocca, o almeno un retrogusto
nostalgico che conduce all'apatia più che alla sana incazzatura.
E' giusto ricordare la genesi di una battaglia persa. Ma sarebbe
utile anche imparare come si fa, a costruire una vittoria.
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