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Ancora a proposito di Minority report



Antonio Carnicella



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Rapporto di minoranza, da P. K. Dick, regia Stephen Spielberg, 2002

Da più parti è stata riscontrata la calzante attualità dei contenuti politici di Minority Report, il film di Spielberg tratto dall'omonimo racconto di P. K. Dick. Lo stato di polizia, il carcere preventivo, il clima di paura che s'instaura nella società e le sue conseguenze, come la demonizzazione dell'altro e la cessione di porzioni sempre maggiori della libertà individuale in cambio della propria sicurezza, sono temi già previsti dal narratore americano in clima di Guerra Fredda, temi che l'11 settembre ha riproposto all'evidenza scoperchiando un vaso di Pandora, così come ha aperto il campo alla smania di nuove crociate.

Chissà se l'intenzione del creatore di Indiana Jones fosse quella di lanciare una campagna di denuncia, sta di fatto che egli, pur stravolgendone il testo in chiave hollywoddiana, effettua una rilettura mitologica del racconto di Dick, cosa comune nel mondo della celluloide, riconducendo metaforicamente lo spettatore agli inizi delle vicende umane, al momento in cui il titano Prometeo affranca gli uomini dall'arbitrio degli dei.

Seguendo i fili tracciati nel breve racconto di Dick, Spielberg ci proietta verso un futuro in cui si è ormai realizzato il fine delle utopie, l'avvento del Regno. La Washington del domani è una città apparentemente liberata dal male, dal crimine, un regno di pace, benessere e prosperità per tutti. Tutti tranne i derelitti relegati nel sottobosco della città per nascondere i fallimenti del nuovo ordine, segnato da iniquità, disuguaglianze, violazione dei diritti civili e del rispetto umano, e dall'indifferente velocità con le quali le auto scorrono sulle autostrade verticali. Si scopre così che l'individuo, ridotto all'impotenza, per vivere tranquillo deve limitarsi a frequentare i quartieri alti, gli spazi collettivi come i centri commerciali, i soli luoghi governati da stabilità e ordine.

Questo Regno appare dunque svuotato di senso, privo di un'apparente direzione, che non sia quella imposta dall'apparato, spogliato di umanità. Più che dell'uomo, è il Regno della Tecnica, il dono che l'uomo aveva ricevuto da Prometeo per sottrarsi all'arbitrio dell'imprevisto e convogliare il dolore in un orizzonte di senso, uomai che, ormai emancipato, non si limita più a risalire alle cause degli eventi per neutralizzarne gli effetti, ma prevede il futuro come un dio, anzi meglio, visto che gli dèi greci non avevano potere sugli eventi a venire. La tecnica, invece, determina il futuro, lo trasforma in un susseguirsi di eventi certi, lo sottrae all'inatteso e lo comunica attraverso i vaticini degli oracoli-precog.

Questo potere onnicomprensivo che vede e provvede i destini umani non esclude il possibile verificarsi di variabili inattese: piuttosto se ne serve per dominare. Proprio perché il male è sempre concepibile, la tecnica instaura un regime di controllo preventivo sulla cittadinanza tramite il suo "clero". È con questo termine che si definisce la Squadra Precrimine di Washington attraverso uno degli aiutanti di John Anderton, che ne è il capo. In fondo quel corpo è un clero più che una polizia, un clero che, facendo leva sulla paura di vivere degli individui, traduce le sentenze della Pizia circa i crimini che verranno commessi in arresti e condanne dei potenziali colpevoli.

Neanche tanta perfezione, tuttavia, può tenere a freno il libero corso della Necessità, l'Ananke che gli dèi greci temevano e che qui si esprime attraverso il dolore che sconvolge la vita di Anderton-Prometeo. Come Prometeo, che discende da Urano, mette in crisi il dominio degli dèi olimpici, così Anderton, figlio putativo del fondatore della Precrimine, riscopre quei limiti della Tecnica che un mondo di ciechi preferisce non vedere per affidara lei le proprie possibilità di sopravvivenza.

Tra tanti ciechi, Anderton, con un occhio solo, come profetizza il suo fornitore di droga, è re, è l'unico che vuole andare oltre le comode certezze, perché il dolore ha risvegliato in lui la coscienza e la ragione, che nell'omogeneità prodotta dalla tecno-scienza riscoprono le differenze, se ne nutrono, rivendicano la libertà di conoscere e di scegliere, di dire no, di uscire dalla caverna e riappropriarsi del proprio destino, di mettere in scacco il vaticinio dei precog.

Invasato, sfigurato da una mania divina, morso dalla vipera della conoscenza, l'ex poliziotto, a differenza dell'originale letterario, si avventura in una lotta solitaria contro quel potere di cui faceva parte per condurre il film verso uno spielberghiano happy ending. Una volta sconfitto il clero-casta che domina la scena a suo piacimento, una volta dimostrata l'impossibilità di conoscere assolutamente il futuro e neutralizzare il male, la morte, il Polemos padre di tutte le cose - che come scrive Eraclito "gli uni rivela come dèi, gli altri come uomini" - Anderton può tornare all'amore della moglie, alla sua ritrovata felicità nella villa sul lago.

Spielberg in questo modo, ribadendo che non c'è armonia senza gli opposti, che non c'è felicità senza precarietà né verità senza dubbi e differenze, offre al genere umano ancora quella speranza che Dick gli nega, quella che un funzionario dell'apparato si possa ravvedere e distruggere il sistema che lo governa piuttosto che mantenersi meccanicamente fedele al suo ruolo.

 

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