Riesci a vedere?
Paola Casella
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Un paio di volte, in Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick,
Nicole Kidman inforca gli occhiali, nel tentativo di vederci meglio,
cioé di non "tenere gli occhi ben chiusi", come dice il
titolo del film, e come fa il marito (sullo schermo e, allora, anche
nella vita). Tom Cruise invece attraversa Eyes Wide Shut in
uno stato di trance, lucida dal suo punto di vista (perché di vista
stiamo parlando), in realtà del tutto ottenebrata. La volontà di
vedere, sembra suggerire Kubrick, è femmina. Così come la
disponibilità a lasciarsi aiutare da un paio di occhiali, se ci si
rende conto di non riuscire a vedere bene con i propri occhi.
"Riesci a vedere?", ripete Samantha Morton, la precog
Agatha di Minority Report, rivolgendosi al solito Tom Cruise,
ormai specializzato in ruoli di maschio cieco all'evidenza, o forse
non esattamente cieco, solo eternamente fuorviabile: se infatti Eyes
Wide Shut era basato su un romanzo breve di inizio Novecento, e
ambientato da Kubrick in un presente iperrealista, Minority
Report prende le mosse da un racconto fantascientifico ed è
proiettato - il verbo non è scelto a caso - in un futuro lontano
dove, pare, sono sopravvissuti al passato solo il fast food, gli
orologi di Bulgari e l'ottusità del povero Tom (tanto di cappello
alla sua disponibilità di attore, e di uomo, a interpretare
ripetutamente il pollo del millennio - quello passato e quello
attuale).
Minority Report è un film sulla capacità di vedere, ancora
più che di pre-vedere, senza lasciarsi ingannare dalle illusioni
ottiche. Il che fa un certo effetto detto da Steven Spielberg,
maestro di cinema, cioè di ombre cinesi proiettate su una parete
ottusa, esattamente come le premonizioni di Agatha, che uomini
(maschi) di buona volontà cercano (maldestramente) di decodificare.
Non sapendo (e nemmeno ipotizzando) che anche la più attenta delle
premonizioni può contenere un trompe l'oeil, uno scarto di
realtà, una variabile impazzita: che poi sarebbe il libero
arbitrio, la possibilità di scegliere, anche all'ultimo momento,
una strada alternativa, un vero e proprio sviluppo parallelo
dell'intenzione di partenza, dal quale possa ("possa" -
non "debba necessariamente") conseguire un diverso decorso
degli eventi.
Ciò che Spielberg suggerisce, attraverso lo strumento
dell'immagine, quello che davvero compete a un regista (più della
sceneggiatura, più della recitazione degli attori, più della
colonna sonora, che infatti in Minority Report sono tutte
più deboli della pura sequenza filmica, e talvolta intenzionalmente
fuorvianti), è che la visione (la Verità, per chiamare le cose col
loro nome) è paradossalmente più nitida se vista in chiaroscuro,
in controluce, stagliata su un background indefinito. Sempre che si
sia disposti (ovvero pronti) a vederla.
Facciamo alcuni esempi. L'uomo che compare nitidamente in una delle
visioni dei precog (quella che riguarda proprio il futuro del
personaggio interpretato da Tom Cruise) è in realtà un miraggio,
l'immagine patinata e ritoccata al computer di un fotomodello, star
di un cartellone pubblicitario, che "entra" in campo solo
apparentemente. Al contrario, la presenza vera e rilevante (o
rivelante) all'interno dello stesso campo visivo è quella di una
donna, che però emerge come un'immagine fotografica al negativo
(cioè il contrario di una stampa patinata), diventa visibile solo
quando chi guarda è disposto (dunque pronto) a individuarla, a
separarla dallo sfondo, e ad accettare filosoficamente (ma più coi
sensi che attraverso la ragione) che ciò che appare nitido non è
necessariamente vero, e ciò che appare confuso non è
necessariamente falso.
Così come il momento di più alta verità - la decodificazione
della premonizione di Agatha - avviene nel momento di maggiore
contrasto visivo fra la figura della donna e uno sfondo che ne sfoca
i limiti corporei, facendo di lei una silouhette di confine fra il
fuori (la luce che proviene dall'esterno) e il dentro di una stanza
semibuia.
Del resto tutte le scene di rivelazione di Minority Report,
sempre presiedute da una donna (cioè una pizia), avvengono nel
terreno di confine fra un dentro e un fuori, dove l'esterno penetra
nell'interno e viceversa: la prima si svolge in una serra,
protagonista una donna anziana che coltiva creature verdi -
impossibile chiamarle "solo" piante - tenendole al riparo
dal mondo esterno, ma non dalla luce che filtra abbondante e
generosa attraverso le pareti di vetro. La seconda ha luogo sulla
veranda della casa dell'ex moglie di Tom (non Nicole, l'attrice che
interpreta quel ruolo in Minority Report), anch'essa un'area
a metà fra interno ed esterno, uno spazio privo di pareti, che si
frapporrebbero come ostacoli alla visuale.
Scopriremo da subito che la donna, altrettanto umanamente
ingannabile dell'ex marito, è però intuitivamente più disposta a
lasciarsi attraversare dalla verità, più aperta anche
geograficamente, vista la scelta di abitare una casa proiettata
all'esterno, più preparata a vedere al di là delle apparenze,
dello schermo di fumo (smokescreen) che le viene sollevato
davanti dagli uomini (anche qui nel senso di maschi più che di
esseri umani). E a scanso di equivoci di genere, preciso che a fare
questa illazione (che le donne siano più portate a vedere davvero),
sono Spielberg e, prima di lui Stanley Kubrick, non chi scrive.
Anche il rapporto fra passato e presente, fortissimo in Minority
Report (come già in Matrix), funziona nel film di
Spielberg per contrasto. Nel futuro narrato da Philip K. Dick e
filtrato attraverso le lenti di Spielberg non c'è continuità fra
passato e presente, ma traumatica cesura, reiterata
contrapposizione. Così in Minority Report ai grattacieli si
alternano le stamberghe, all'alta teconologia senza soluzione di
continuità è intervallata un'oggettistica da mercatino
dell'usato - nemmeno modernariato, proprio cianfrusaglie - il cui
scopo principale è comunicare visivamente uguali dosi di usura e
nostaglia. Il contrasto non è tanto fra vecchio e nuovo, quanto fra
prima e dopo, ieri e domani, e il gap che crea costringe tutti i
personaggi del film (ma la metafora è estensibile a gran parte
dell'umanità contemporanea, almeno quella occidentalizzata) a
vivere il presente senza nutrirsi del passato e senza ardire di
proiettarsi nel futuro: cioè senza consentire a se stessi, prima
ancora che all'universo intorno, un senso di continuità. O anche
solo un senso, tout court.
La mancanza di continuità fra tradizione e progresso, fra passato e
modernizzazione è il tema ricorrente di tutta la cinematografia
recente e "impegnata" dell'Estremo Oriente. Non è un caso
che Minority Report faccia diretto riferimento visivo a Blade
Runner (anch'esso tratto da un romanzo di Dick), sia nelle
scelte estetiche, soprattutto quelle che riguardano l'architettura
urbana (il concetto di verticalità, che domina il film, e che
sembra suggerire che proiettarsi verso l'alto - state tenendo il
conto dei vari utilizzi di questo verbo? - non equivalga
necessariamente a raggiungere vette più elevate), che nel richiamo
alla modernizzazione selvaggia e deumanizzante di Tokio e Hong Kong,
di Taiwan e Taipei.
La verità, secondo Steven Spielberg, sta nel mezzo, non nel senso
di "punto intermedio di equilibrio", ma nel senso di
"linea di demarcazione": passato-presente, dentro-fuori,
luce-ombra (o meglio, chiaro-scuro). Bisogna però essere pronti a
vedere. Il personaggio interpretato da Tom Cruise invece è ancora
accecato dal dolore e dalla rabbia per la perdita del figlio,
ridotto ad un'immagine proiettata (!) infinite volte su un muro
bianco (cioé ottuso). Ma questa è, in parte, anche una scusa:
Spielberg ci spinge a pensare che l'incapacità di vedere di Tom
pre-esista alla scomparsa del figlio - di più, che ne sia
addirittura la causa.
Tom infatti determina il destino del proprio figlio (o quantomeno,
non riesce a cambiarlo,sostituendo alla tragedia un minority
report) perché, letteralmente, perde di vista il
bambino. Significativo è anche il fatto che, dopo l'incidente (?),
Tom proietti contro il muro all'infinito non solo l'immagine del
figlio ma anche quella della moglie, che scopriremo ben viva e
presente: come se Tom preferisse comunque relazionarsi a un'ombra
cinese piuttosto che a una creatura in carne e ossa.
L'ombra (o il fantasma) che più spesso attraversa Minority
Report resta comunque quello di Stanley Kubrick, di cui
Spielberg ereditata (più o meno meritatamente) lo spirito, ancora
più che l'iconografia. Il che è tutto dire, visto (!) che
l'iconografia di Kubrick è davvero dappertutto, in Minority
Report. Più ancora che il mondo allucinato di 2001: Odissea
nello spazio, il più citato dal film di Spielberg, a dominare Minority
Report è la speranza di "riuscire a vedere", che,
dicono Spielberg e Kubrick, non si realizza facendosi tenere aperti
gli occhi da un paio di mollette (come succede a Tom in Minority
Report, come succedeva ad Alex in Arancia Meccanica).
Meglio, dice Stanley (ma forse pure Steven), progredire per gradi -
anzi, per diottrie - e servirsi di un altro strumento: gli occhiali
di Nicole, stratagemma altrettanto meccanico delle mollette di Alex
e Tom, il cui utilizzo implica però un atto di volontà che si
rinnova ogni volta che ci si sforza di vedere meglio. E che, a ben
guardare (!), è anche un gesto di umiltà, e una dimostrazione
concreta dell'esistenza del libero arbitrio.
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