La salvezza? Un fatto di minoranza
Carlo Violo
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minoranza
Riesci a vedere?
Se dovessi giudicare i film di Spielberg dagli effetti speciali non
credo che farei molta strada. Non è neanche l’unico regista a
usare tali effetti in maniera autoironica e autodissacrante. Se
dovessi giudicare il suo ultimo film in base alle innumerevoli
trovate e autocitazioni potrei al massimo dire che mi hanno fatto
divertire molto, un po’ come le piroette musicali dei fratelli
Marx, i cui. non senso e le cui assurdità, spesso improvvisate,
sono l’anima dei loro film.
Perché ho tirato in ballo i fratelli Marx e la loro anima filmica?
Be’ semplicemente perché la loro comicità rivoluzionaria era una
continua dissacrazione dei cliché del sistema che già allora
andava delineando i suoi tratti pericolosi e contraddittori. Come lo
è Minority Report di Steven Spielberg. E poi perché usare i
mezzi a disposizione dal sistema per metterlo alla berlina e
denunciarne tic ed eccessi è operazione di alta drammaturgia, nel
senso etimologico del termine che dal greco suggerisce che nell’azione
sono iscritti i destini umani.
Gli effetti speciali nel cinema ci sono sempre stati, come suonare
il pianoforte con una mela (Groucho) o far piangere un bambino
mettendogli un mozzicone di sigaretta nella tasca (De Sica). Parlare
di certe opere complesse è come prendere l’ascensore di un
grattacielo: spingete un bottone nel cervello e vi fermate lì, e
questo può essere terribile, se soffrite di vertigini o di
claustrofobia. Minority Report a volte è claustrofobico e a
volte vertiginoso e così c’è il rischio di fermarsi a qualche
piano intermedio.
Certo, se dovessi parlare di Spielberg e del ‘sogno americano’
mi fermerei tutt’al più al primo piano e se dovessi estrarre non
so quale significato psicologico dai suoi personaggi forse mi
ritroverei nel seminterrato. No, se volete spessori psicologici
rivolgetevi a Bellocchio, se desiderate la minuzia degli interni e
dei personaggi andate da Scola, se volete ammirare il fasto della
recitazione chiedete a Visconti, se volete la poesia della cronaca
ripescate Pontecorvo. Se volete qualcosa di tragicamente letterario
nel cinema, infine, andate a visitare Coppola (scusate ma oggi mi
sento un tantino nazionalista, anche con gli oriundi).
Neanche la trama di Minority Report, di per sé, è
particolarmente degna di nota. Basta scarnificare gli effetti
speciali per vedere la solita tiritera del buono perseguitato
ingiustamente ma che alla fine riesce a riscattarsi. Mi porto
appresso questa mitologia fin da quando, infante, non mi perdevo
nessuno dei western di Randolph Scott o Joel Mc Crea. Troppo ovvio
per essere vero. Per non parlare della filosofia contenuta
nell'ultimo film di Spielberg. Se volete filosofia, andate a
leggervi le migliaia di libri sull'argomento che sono in
circolazione (a proposito, se ne trovate due in accordo tra loro
fatemelo sapere).
Minority Report va preso nella sua totalità, resistendo alla
tentazione di suddividerlo nelle sue componenti essenziali.
Altrimenti rischiate di fare come gli allievi di quell'antico saggio
cinese che una volta acchiappò una mosca e cominciò a sezionarla,
le tolse le ali, le zampine, la testa e alla fine disse agli allievi
che sgranavano gli occhi: ora mettetevi a studiare questo mucchietto
di roba e ditemi che cos’è una mosca. Sapete come sono pragmatici
i cinesi. Se fate questo con Spielberg vi trovate con un po’ di
zampette e nient’altro.
Certo Spielberg è gusto e divertimento di fare cinema, un po’
come giocare col trenino elettrico. Nei suoi film c’è racconto
salgariano, ci sono i pirati e i samurai. C’è un apparato
narrativo costruito più dagli ingegneri che dagli sceneggiatori. C’è
il buono e il cattivo e qualche volta anche il brutto. Chissà se il
piccolo Steven ha giocato abbastanza col meccano? In ogni caso, deve
essersi visto Il Quinto Elemento almeno quanto me, tre o
quattro volte (non ho mai avuto un trenino elettrico e durante il
film mi ciucciavo il dito).
Ma a dispetto di tutta questa ordinaria industria c’è qualcosa
che insospettisce nella filigrana. Si, in Minority Report c’è
una filigrana, come negli euro: se sono veri si vede in controluce.
Per vedere la filigrana di Minority Report bisogna salire ai
piani alti, dove c’è più luce.
Intanto non aspettatevi di vedere un film a colori. Per tre quarti, Minority
Report è praticamente in bianco e nero, con appena un po’ di
grigio e grigioverde. Caspita, girare un film in bianco e nero con
una pellicola a colori non è mica una idea da tutti. Del resto
anche la scena finale di Incontri Ravvicinati era in bianco e
nero, a dispetto di qualche colore schizzato qua e la. Il bianco e
il nero, oltre ad essere i colori degli scacchi, è una intenzione
più che una chimica da pellicola. Se ne è ben ricordato il nostro
quando la veggente Cassandra (la chiamo così per non raccontare
nulla di diretto e perché è una delle tante citazioni mitologiche
contenute nel film) nel finale racconta la sua storia sullo sfondo
di una finestra brillantissima che assomiglia troppo al portellone
della suddetta astronave (lei ha solo il collo un po’ più corto
degli alieni di Incontri). Strano destino, quello del
veggente femminile. Anche ai tempi di Troia non se la passavano
niente bene.
In Minority Report c’è una intenzione di bianco e nero
come per enfatizzare, attraverso la mancanza o la stilizzazione, il
protagonista filigranato del film, che è la luce con i suoi
derivati: occhi e capacità di vedere. Tant’è che per schedare e
riconoscere i comuni mortali di quella società di un futuro non
tanto lontano, si è pensato di scandagliarne le pupille. Come dire:
dimmi come vedi e ti dirò chi sei.
La citazione diventa esplicita quando la botanica, che conosceva i
retroscena del progetto fantascientifico del film, dice al bel
protagonista, nella serra dove si è ritirata, che per vedere la
luce si devono fare i conti col buio. Per chi non ha ancora visto il
film trattengo la pruderia di sottolineare quale sia l’unico modo
possibile per il protagonista per salvarsi. Per chi l’ha visto
suggerisco che questa pruderie ha a che vedere con un ‘cambio di
punto di vista’ nel senso stretto del termine.
Vedete, all'interno di Minority Report le citazioni diventano
a poco a poco meno ovvie. Cominciamo a stare dalle parti dello Zen.
E del resto non c’è corrente di pensiero spirituale che non
definisca il risveglio interiore come ‘illuminazione’. Cito un
paio di notazioni del primo o secondo piano del grattacielo solo
perché mi hanno divertito molto: i razzi degli equipaggiamenti dei
poliziotti volanti che, nel trambusto della lotta, riescono anche a
cucinare un po’ di hamburger (Indiana dove sei?) e l’antro del
chirurgo matto di chiara impronta nazi, con tanto di infermiera
teutonica. Lo sfondo dell’ambulatorio lager che continua a
proiettare ogni genere di immagini, comprese quelle di Douglas
Fairbanks o giù di lì, è un piccolo apostrofo rosa sulla parola
‘t’amo Hollywood’. Del resto tutto il film è di per se un
mosaico amorevole di cinema. Ma, come dicevo c’è una filigrana e
fermarsi agli effetti e alla vanità dell’autocitazione significa
non spendere bene le banconote.
Dicevo della veggente e del ruolo dell’energia femminile che lei
incarna, una energia potente ed essenziale, come la Kundalini o, se
preferite, come quella tal donna della Genesi che ha messo in moto
la storia che sapete. Così come per donna si è usciti dall’Eden,
per donna è possibile rientrare. Lascio Beatrice a Dante e Laura a
Petrarca. E’ stato già detto troppo sui Fedeli d’Amore e sul
simbolismo esoterico di questi nostri grandi perché ne parli
ancora, e qui manca lo spazio. Preferisco una notazione forse meno
riconoscibile: quando la veggente guida il protagonista di Minority
Report attraverso il supermercato suggerendogli in anticipo i
mezzi, i modi e i tempi per sfuggire ai poliziotti.
La scena è divertentissima e somiglia maledettamente da vicino a
certi racconti Sufi dove compare un certo Khidr (il Verde). In
soldoni questo personaggio appare a chi se lo merita al momento
giusto, con indosso un costume verde brillante, per guidarlo alla
salvezza attraverso i pericoli in cui si trova. La sua prerogativa
è fare cose apparentemente assurde, quando non penalmente
perseguibili, ma che in una prospettiva temporale più lunga trovano
una loro essenziale utilità.
Il tema del Verde è molto ricorrente per mostrare la dimensione in
cui agisce un illuminato rispetto agli uomini ordinari. Peter Brook,
che ricorderete per il Mahabharata, ha portato per primo sullo
schermo in maniera esplicita con un film del ’79 (Meeting with
Remarkable Men) i temi connessi con questo tipo di tradizione.
Ma la citazione più corretta riguarda un film del ’77 di Richard
Moor (The Silent Flute) dove, lungo il pericoloso itinerario
della sua ricerca, l’eroe veniva aiutato da un personaggio
misterioso (un monaco che usa il flauto oltre che per suonarlo per
‘suonarle’, letteralmente) il quale compie azioni
incomprensibili per tempi e modi ma fondamentali per sfuggire ai
pericoli. Il film era interpretato da icone di Hollywood come David
Carradine, Cristopher Lee, Eli Wallach e Roddy McDowall. Il soggetto
era niente di meno che di Bruce Lee e James Coburn.
Minority Report, come ho detto, è un mosaico, un
caleidoscopio di citazioni iconografiche, c’è un uso sapiente dei
toni musicali, infiniti riferimenti simbolici d’oriente e d’occidente,
un dosaggio di immagini e chiaroscuri. Conosco un signore vissuto
qualche secolo fa, illustre maestro spirituale oltre che massimo
poeta d’oriente: Rumi, che si intendeva di linguaggio e poesia
come pochi altri, e che decise di usare queste sue qualità all’interno
di un sistema di linguaggio innovativo che riuscisse a comunicare
simultaneamente non solo emozioni ma vere e proprie conoscenze
profonde, aggirando i filtri dell’umana e condizionata ragione.
Questo metodo si chiama ‘diffusione’ e tende a far trovare all’uditore
la propria personale strada tra apologhi e dialoghi, interpretazioni
e citazioni, tra favole e poesie, parabole e riferimenti. Il suo
messaggio viene veicolato oltre la coscienza attraverso l’influenza
multipla e simultanea di tutti questi elementi. Il capolavoro di
Rumi è il Masnawi, immenso poema in versi e in prosa di cui
purtroppo le italiche genti, a parte pochi frammenti pubblicati da
alcuni volenterosi, sono rimaste prive. E così l’elenco delle
coincidenze si allunga.
Come dicevo forse è solo un caso, magari indotto dal fatto che
dalle parti di Los Angeles, come del resto in altri luoghi
californiani, esistono cospicui gruppi di studi dove il genere di
racconti incarnato da Rumi è pane quotidiano. Forse di questi
racconti la fantasia indagatrice di Spielberg si è appropriata. Non
dico che i messaggi del regista siano paragonabili a quelli di Rumi.
Voglio solo suggerire che la cifra stilistica del nostro sembra
attingere a piene mani a certe tradizioni d’Asia.
Nei racconti dervisci, per esempio, appaiono spesso personaggi
appena abbozzati, che servono solo per introdurre nella storia certi
elementi e che poi scompaiono. E nel film di Spielberg alcuni
personaggi sono fugaci supporti della narrazione. Il fatto che la
loro sorte appare vaga credo sia da attribuire non ad una sciatteria
ma semplicemente al fatto che la storia, nel suo significato
complessivo, non ha più bisogno di loro, o non ne ha bisogno a
livello di dettaglio - torniamo alla mosca del saggio cinese. Un
motivo in più per porre attenzione alla filigrana.
Ho preferito dilungarmi su questa analogia interpretativa piuttosto
che altre forse più familiari agli spettatori occidentali, come
quella della Guida di Dante. Però certo è che la luce, anche nell’itinerario
del Divin Poeta, ha un ruolo centrale, dalle oscurità dell’Inferno
alla luce del Sole e l’altre stelle. Negli ultimi dieci minuti Minority
Report diventa con maggior decisione un film a colori, di un
colore alla Poirot, alla Sherlock Holmes, alla Hitchcock. Anche il
ritmo e la scenografia diventano quelli del giallo classico e l’alta
tecnologia si trasforma in un elemento marginale, persino fuori
posto.
L'arma della giustizia finale non è uno strumento sofisticato, di
quelli ipertecnologici ai quali il film ci aveva abituato, ma la
conosciuta pistola ottocentesca, stile giocatore d’azzardo, che
abbiamo visto in tanti i western. Il colpevole si tradisce per la
solita parola incauta, il nostro si salva e tutti vissero felici e
contenti. Se il film fosse finito con la sconfitta dell’eroe,
ridotto a una vita vegetativa in apposita capsula, fosse terminato
nella sua dimensione apocalittica, avrei avuto il forte sospetto che
il film fosse stato girato da qualche aiutante di bottega.
Spielberg non è tipo da lasciare il suo pubblico senza speranza,
perché la sua cifra narrativa non è quella delle sottigliezze
stilistiche tipo ‘opera aperta’. Per questo tipo di pencolamenti
negli abissi del mistero del dramma e del destino lasciate fare,
tanto per fare citazioni letterarie, alla Doris Lessing della serie
di Canopus in Argos (purtroppo quasi per nulla disponibile in
italiano) o meglio di Discesa all’Inferno, il cui finale mi
sembra avere molti connotati in comune con la paventata fine dell’eroe
di Spielberg, una fine che altri autori avrebbero forse fatto
coincidere con quella del film.
Cito Lessing non a caso. Infatti molta della sua produzione presenta
le stesse atmosfere allucinate e fantastiche di Minority,
segue lo stesso filone del racconto simbolico sotto le spoglie della
fantascienza. Naturalmente sarà un caso che anche lei si sia
ispirata largamente alla letteratura Sufi, divenendo pupilla nonché
prefatrice di uno dei massimi autori contemporanei in materia. In Discesa
all’Inferno il protagonista, un illustre professore, viene
ritrovato privo di memoria e internato in un manicomio. Il dottor X
e il dottor Y si battono come forsennati per riportarlo ‘alla
realtà’. Ma lui, reticente ad ogni cura, vive un fantastico
viaggio dentro se stesso, in una specie di universo parallelo che
contiene le chiavi della sua esistenza. Alla fine, grazie all’elettrochoc,
proprio sulle soglie della comprensione di quella sua antica e
profonda esistenza, viene riconsegnato alla sua rispettabile
identità accademica. Ma la sua luce interiore si spegne per sempre.
Per Lessing non esiste un altro viaggio al di fuori di quello che
riguarda lo spazio interiore e in questo viaggio spesso si fallisce
per l’insopportabilità delle pressioni esterne o per mancanza di
saldezza morale. E Minority Report non è forse prima di
tutto un viaggio onirico all'interno di una realtà possibile? E
percorrere fino in fondo l’itinerario ambiguo e periglioso di tale
sogno, o incubo, non è l’unica salvezza possibile per il
protagonista?
Per questo quando avviene il risveglio, quando le trame occulte si
fanno visibili, il film diventa riconoscibile, la trama, la scena,
il colore, quello vero, diviene quello della realtà condivisa e
arcinota di un normale prodotto holliwudiano. E noi spettatori,
traendo un sospiro di sollievo, forse ci diciamo: bene, è solo un
film. O, almeno, una mia vocina ha tentato di dirmelo. Segno che
tutto quello che c’era stato prima si stava aggirando in qualche
zona rimossa della coscienza. Quel luogo dove certi pericoli
incombenti nel modello comunemente accettato vengono ignorati con un
generico: non può accadere.
Non credo che la parte finale del film, con il suo vistoso scarto di
stile, possa essere interpretata senza queste connessioni
simboliche, né possa essere considerata una sbadataggine stilistica
del regista. Spielberg ha voluto certo un finale ottimistico,
rassicurante. E perché no? Per l’inquietudine e il pessimismo
bastano i giornali e gli innumerevoli serissimi intellettuali. Ma
questo finale rassicurante è parte dell’itinerario di scoperta
che porta il protagonista, attraverso dubbi e paure, aiutato dalle
potenze parapsichiche della veggenza e dell’amore (quello della
moglie), a ritrovare il territorio conosciuto dove tutto assume un
significato, il territorio del risveglio e della luce. Il cambio di
visione aiuta gli spettatori a condividere questo scarto di
coscienza e forse a riconoscere in se stessi il senso e la
necessità di un cambiamento.
A questo riguardo mi sembra utile sottolineare il fatto che, nella
contrapposizione dei fattori umani rispetto a quelli ‘onnipotenti’
della tecnologia, che è uno dei messaggi più superficiali del
film, piuttosto che privilegiare la possibilità di ‘scelta’ che
rimane a disposizione per cambiare l’ineluttabile, appare più
significativo un altro elemento: l’intenzione. Come l’intenzione
del bianco e nero. Ciò che veramente non riescono a vedere i
veggenti nell’accadimento dei fatti è la presenza dell’intenzione
che li guida, in base alla quale anche un omicidio, vaticinato e
ineluttabilmente accaduto, può non essere ciò che sembra. E l’intenzione,
per ogni cambiamento, viene prima della volontà, proviene dalla
parte più profonda dell’anima, è la guida autentica attraverso l’ignoto.
Se la mia ipotesi di lettura ha qualche fondamento, allora ci
troviamo davanti uno Spielberg più maturo, uno che ha deciso di
imboccare decisamente la via del simbolismo fantastico, facendolo
con i mezzi e il linguaggio che conosce meglio, mettendo a profitto
tutte le prove precedenti delle quali le innumerevoli citazioni, il
mosaico di riferimenti di cui si compone il film, sembrano indicare
volutamente insieme l’itinerario e la direzione. Restando fedele
alla sua vena di bambino alle prese con un bellissimo giocattolo.
Certo, si potrebbe obiettare che non c’era bisogno di Spielberg
per trasmettere certi messaggi. Ancora una volta la risposta che mi
viene spontanea è: perché no? Non credo che la conoscenza della
letteratura mistico/simbolica sia così diffusa, né che siano così
acquisite le necessità di una evoluzione appena un po’
realistica, né credo che sia superfluo e inutile o privo di
significato il tentativo, secondo me ben riuscito al suo livello, di
suggerire alle platee la quanto mai urgente necessità di ‘vedere
veramente’.
In fondo l’essere umano non è quell’animale dalla memoria
labile per quanto concerne le lezioni importanti della vita? Secondo
me le ripetizioni non sono mai abbastanza, specialmente se arrivano
da un autore di vasto mercato come Spielberg, da uno che sa
raccontare storie senza tanti fronzoli intellettuali. Se c’è un
Rapporto di Minoranza che può rappresentare la salvezza rispetto a
ciò che sembra ineluttabile, forse c’è un gruppo di gente di
minoranza che possiede l’intenzione corretta per correggere le
storture del mondo.
Il tempo ci dirà. Per Spielberg e per il mondo.
Credo che l’uso magistrale dei mezzi cinematografici in tutte le
loro attuali possibilità sia già una bella lezione per chiunque
abbia in animo di percorrere le vie della comunicazione
significativa o simbolica, dal teatro alla poesia, dal giornalismo
alla sceneggiatura, e anche nella vita e nell’amore tra uomo e
donna.
Se avete qualcosa nel cuore, ditelo divertendo.
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