L’identità culturale europea e la
sfida della tecnica globale
Giacomo Marramao
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Quello che segue è il testo dell'intervento di Giacomo Marramao
al convegno "Lo Spirito d’Europa: sfide globali e identità
nazionali", che si è svolto al Castello di Capalbio venerdì
26 luglio. L'intervento è un'anticipazione di una più ampia
relazione alla tavola rotonda sul tema dell'Europa e i diritti cui
hanno partecipato Giuliano Amato, Sergio Cofferati, Elena Paciotti e
Stefano Rodotà e che apparirà nel volume di Annali della
Fondazione Basso, di prossima pubblicazione per i tipi dell'editore
Carocci.
Nel mio saggio apparso nel volume Una Costituzione senza Stato,
recentemente pubblicato dall'editore Il Mulino a cura di Gabriella
Bonacchi, mi è già accaduto di adoperare il codice binario che
può ricondursi alla formula “ottimismo della volontà, pessimismo
della ragione”. E’ sicuramente vero che dobbiamo dire che l’Europa
va presa sul serio, e che per fortuna abbiamo una Carta dei diritti,
ma nel momento stesso in cui diciamo: “meno male che abbiamo una
Carta dei diritti fondamentali”, diciamo anche che la situazione
non è francamente eccellente, perché vi sono delle condizioni che
minacciano fortemente l’Europa e paradossalmente la minacciano
proprio nel momento in cui si allarga ai paesi dell’Est, con una
serie di problemi.
Diciamo allora che il tema esposto da Elena Paciotti e da Stefano
Rodotà e il tema dell’intervento del presidente Amato sono, a mio
parere, non un’alternativa, bensì i due lati della stessa
medaglia: la questione dell’Europa, oggi.
Il presidente Amato, nel chiedersi le ragioni di una sorta di
tendenza alla diaspora rispetto all’Europa e di disaffezione nei
confronti della stessa, ha sottolineato che non si ha più la
sensazione che l’Europa costituisca un valore aggiunto. È qui il
punto fondamentale, il tema del valore aggiunto che non c’è
rispetto alle situazioni degli Stati nazionali, i quali peraltro,
sia ben chiaro, non sono affatto scomparsi. E’ vero che la
sovranità è un concetto ormai inservibile, ma gli Stati nazionali
ancora resistono, persistono e sono, in qualche modo, anche
referenti familiari del nostro agire.
Primo punto, dunque, è la questione del valore aggiunto. Si tratta
di un fatto che condiziona fortemente i comportamenti individuali e
collettivi rispetto all’Europa; ma ve ne è anche un secondo,
ricordato sempre da Amato: l’apertura dei mercati.
Vorrei riprendere, ora, un tema, presente nell’intervento di
Sergio Cofferati e, a mio parere, di notevole importanza. Premetto
subito che non faccio parte della società politica, ma della
società civile. A questo proposito, voglio sottolineare per inciso
quanto sia curioso lo sdoppiamento che si è creato negli ultimi due
decenni nel nostro paese: si parla di società civile come qualcosa
di altro dalla politica. Chiarito questo, ho la sensazione, e può
darsi che mi sbagli proprio perché non appartengo alla società
politica, che stiamo vivendo, sottovalutandolo e percependolo in
maniera molto incompleta e insoddisfacente, un conflitto culturale
molto più profondo dei conflitti che affiorano sul terreno della
politica e che sono legati, secondo me, ai fenomeni evocati nell’intervento
di Cofferati. Voglio dire che in tempi di globalizzazione, con tutto
ciò che di vago vi è nel termine, l'Europa si trova a fronteggiare
due ordini di problemi.

Intanto, c'è un dato elementare: l’Europa, con
la sua cultura, col suo modello sociale, si trova stretta nella
tenaglia, che sperimentiamo ogni giorno, di due veri colossi, che
dominano il mondo e che sono il colosso americano e il colosso
asiatico; in prospettiva, direi anche il colosso cinese, che, fra 15
o 20 anni, sarà, probabilmente, la principale economia del pianeta.
I modelli di competizione che oggi prevalgono, richiedono un
supplemento di indagine e di strumenti culturali rispetto a quelli
approntati nel passato tanto dalla tradizione liberale quanto dalla
tradizione socialista, marxista e del movimento operaio, perché si
tratta di problemi che presuppongono una comparazione circa il
rapporto che si ha nelle aree geo-economiche.
L’economia cinese sta assumendo, con tutte le contraddizioni, una
fisionomia ben diversa dal toyotismo giapponese, perché vi prevale
un’etica produttivistica non già di segno individualistico,
bensì collettivo-globale; in America, invece, il modello di
competizione è un altro, con vantaggi e svantaggi, di tutt'altro
segno.
Io credo che se non si affronta in maniera molto seria e radicale il
problema del nesso etica-economia nelle diverse aree geo-economiche
del pianeta, e non si comincia a declinare il capitalismo e il
mercato anche al plurale, difficilmente riusciremo a capire come
vanno le cose. Oggi si dice che il mercato sia l’unico modo per
regolare i rapporti sociali, perché è entrato in crisi lo
Stato-nazione. Questa, secondo me, è una sciocchezza, nel senso che
il mercato moderno è stato determinato dal sistema di relazioni tra
gli Stati, e non c’entra nulla col mercato degli antichi imperi.
Ci sono sempre stati i mercati: ad essere in crisi è il mercato
moderno, ed è entrato in crisi esattamente in contemporanea con la
crisi del sistema internazionale fondato sugli Stati. Quindi il
problema è che il mercato si trova oggi nella terra di nessuno del
passaggio tra vecchie regole che non funzionano più, e nuove regole
che ancora si devono dare.
E’ questo il motivo per cui si verificano i processi spaventosi,
come li definisce George Soros, di instabilità delle borse e dei
mercati finanziari, dovuti all’autonomizzarsi dei capitali
finanziari. Vi è inoltre, tuttavia, un problema molto più serio,
legato proprio al fatto che, mentre in alcuni punti del pianeta
avvengono degli arricchimenti spropositati e rapidissimi, nello
stesso momento, in altri, si producono voragini di impoverimento e
di degrado altrettanto rapido e spaventoso.
Tutto ciò è una conseguenza della globalizzazione e, se non
affrontiamo il problema delle regole del mercato internazionale,
difficilmente potremo parlare di Europa, se non in termini del tutto
retorici. Questo è il primo aspetto.
Nel tempo della globalizzazione, l’Europa vive poi un altro
problema, che Giuliano Amato e Stefano Rodotà hanno evocato con
approcci diversi, ma in maniera tutto sommato convergente, e a cui
è legata anche la questione dei diritti. Si tratta del famoso “corto
circuito” tra globale e locale, dove c’è, da una parte, una
mondializzazione dei processi di integrazione economica, monetaria,
del capitale finanziario e, dall’altra, un moltiplicarsi di
fenomeni di localizzazione dei processi identitari, che sono una
componente importante non solo della politica ma anche delle forme
del conflitto.
Il problema è proprio questo: avere, nei confronti dell’Europa,
una serie di atteggiamenti, legati proprio al fenomeno di fortissima
localizzazione dei processi di identificazione simbolica dei
soggetti. Che risposta può dare l’Europa? La Fondazione Basso e
anche noi, singolarmente, ci siamo collocati su una posizione molto
vicina, molto prossima a quella di Giuliano Amato, di un'Europa non
come “superstato”: si tratta di una posizione che non è neanche
quella di Jürgen Habermas, che pure è stato il mentore e il
proponente del gruppo di lavoro su questi temi formato presso la
Fondazione nel 1998.
La posizione di Habermas, è vero, non coincide con l'approccio di
Dieter Grimm, il quale è assertore dell’equazione
Stato-costituzione-popolo, dove il popolo, e questo va detto a
difesa di Grimm, non è inteso etnicamente o in termini di
omogeneità, bensì giuridicamente. Grimm è un giudice
costituzionale e un grande giurista, che ha letto profondamente non
solo Carl Schmitt ma anche Hans Kelsen, quindi sa che il popolo nel
senso della omogeneità è una pura maschera totemica lontanissima
dalla realtà, in quanto il popolo è differenziato. Però Habermas
che giustamente contesta Grimm, alla fine non propone nulla di molto
diverso dalla posizione di chi vede con favore l’estensione all’Europa
del modello dello Stato federale tedesco.
Mi è sembrato molto più interessante il confronto tra Jacques
Delors e Vaclav Havel. Mentre Delors sosteneva una posizione simile
a quella di Habermas, Havel, che è in qualche modo uno dei
beneficiari dell’allargamento dell’Europa, sosteneva invece in
maniera molto chiara, che l’Europa non può essere intesa come un
superstato, e va invece concepita nel contesto di una nuova forma
politico-costituzionale. In un precedente convegno, Giuliano Amato
ha definito l’Europa un Ufo, un oggetto volante non identificato
che però vola, è in grado cioè di funzionare. Ebbene, credo sia
importante sottolineare come l’Europa abbia fin qui funzionato,
eccome: a partire dal "semplice" dato di aver permesso al
continente delle guerre di non avere guerre per più di mezzo
secolo.
Ritengo, dunque, che l’idea di una Costituzione senza Stato possa
essere la prospettiva nella quale dobbiamo muoverci, al di là della
tradizione del diritto pubblico moderno incentrata sul concetto di
sovranità. Ma è qui il nodo fondamentale, e vengo al discorso di
Stefano Rodotà, che mi pare importante.
Dobbiamo avere il coraggio di dichiarare che il messaggio che viene
dalla Carta dei diritti europei è un messaggio che va preso in
considerazione da parte di tutti i Paesi, di tutti gli Stati membri,
e che la democrazia non solo non coincide più con il concetto di
sovranità, ma neanche con il concetto di sovranità popolare:
dunque non coincide più con l’implicita tirannia della
maggioranza, che è inclusa e implicata nel concetto di sovranità
popolare. La democrazia coincide, invece, con la tutela dei diritti
fondamentali e, come dice l’ultimo articolo della Carta dei
diritti, con il divieto dell’abuso di diritto. Ciò significa che
non si può adoperare e usare il diritto, perché non dall’autoritarismo
può venire il pericolo in senso classico, ma da una utilizzazione
degli spazi del diritto ai fini dell’abuso dello stesso, cioè ai
fini del restringimento di altre aree del diritto.
È in questo contesto, dunque, che devono essere assicurate la
tutela dei diritti fondamentali, la garanzia delle minoranze, la
garanzia del dissenso e qualsiasi revisione che implichi l’ampliamento
dello spettro dei diritti. Quest’ultimo è un punto fondamentale,
poiché non va mai dimenticato che il diritto è un prodotto storico
storicamente destinato a modificarsi e ampliarsi: da qui il rifiuto
di qualunque revisione che implichi un restringimento dell’orizzonte
dei diritti.
Tutto questo avviene all’interno di un modello, che è sin dal
preambolo un modello plurale. Come ha detto Amato, non il popolo
europeo, ma i popoli europei, nel creare tra loro un’unione sempre
più stretta, hanno deciso di condividere un futuro di pace fondato
su questi valori comuni. Il soggetto della Carta è già un soggetto
plurale; naturalmente rimane il problema dell’implementazione:
cioè, la Carta c’è, ma come la rendiamo un fatto operante,
incisivo e coesivo? E qui ho due provocazioni in qualche modo
rivolte a tutti.
Mi pare ci siano due nodi cruciali per il sindacato, ma anche per
una sinistra che deve affrontare la sfida posta dalla cultura dei
diritti al plurale. Stefano Rodotà forse è stato uno dei primi in
Italia a introdurre l’idea del passaggio dalla cultura del
diritto, della legalità e della partecipazione, fatto
importantissimo al quale il movimento operaio ha dato - sin dai
primi del ‘900 - un contributo importantissimo, alla cultura dei
diritti al plurale. Come può questa cultura radicarsi fino in
fondo? Perché io credo che ciò non sia ancora accaduto; basta
ascoltare il linguaggio, non di Sergio Cofferati, che mi sembra un
linguaggio estremamente sobrio e anche aderente alle modifiche che
avvengono nella realtà, ma il linguaggio del ceto politico della
sinistra.
Ebbene, nel quadro di una cultura che fa fatica a lasciarsi permeare
dalla cultura dei diritti al plurale, sono due i nodi da sciogliere,
nodi che credo costituiscano anche due sorgenti di ostilità all’Europa.
Il primo nodo è rappresentato dal problema dello iato che si
determina, nella società europea, sia a livello di cultura
sindacale che di cultura politica, tra gli insider e gli outsider.
Questo è il problema che spiazza fondamentalmente le nuove
generazioni, e che ha prodotto una frattura proprio nella
trasmissione intergenerazionale dell’esperienza. La sensazione è
che gli stessi sindacati europei, che sono fondamentalmente
schierati a difesa degli insider, non considerino affatto il
problema della frattura che c’è tra chi sta dentro e chi sta
fuori, frattura che può essere determinante per le forme di vita e
di esperienza giovanili. Si tratta di una questione molto seria,
usata contro l’Europa dagli outsider, e dalla cosiddetta
cultura del polo delle libertà contro la cultura della sinistra.
Il secondo nodo è rappresentato dal problema del lavoro autonomo,
che la cultura della sinistra, del socialismo, del movimento
operaio, a partire da Marx, ha sottovalutato enormemente, e che è
componente fondamentale della costituzione di capitale. Il capitale
non è fatto soltanto di lavoro salariato, ma anche di quel lavoro
salariato e diretto che è quello dei lavoratori autonomi. Questo
tipo di lavoro appare oggi proliferante, ed è uno dei fattori che,
nel processo di localizzazione e identità, determinano lo
scetticismo nei confronti dell’Europa, il consenso al polo, ai
vari “leghismi” e, in genere, alla cultura di destra nell’Europa.
Sono due esempi che fanno capire come il corto circuito
globale-locale sia in grado di produrre delle fratture molto serie
all’interno della dinamica sociale europea, condizionando, dunque,
il processo dei diritti e della politica.
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