La top five della redazione
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Antonello da Messina, “Vergine
Annunziata”
Antonio Carioti
Ritrarre la Madonna credo sia spesso stato per i pittori un modo di
rendere omaggio al fascino femminile. Arte sacra, certo, ma con quel
tocco di profano e di carnale che ribolle dentro qualsiasi uomo di
fronte alla grazia ineguagliabile del sesso debole. Il quadro di
Antonello da Messina mi ha sempre colpito, fin da quando lo vidi per
la prima volta sul testo di storia dell’arte al liceo, perché mi
sembra che trasmetta in modo sottile e al tempo stesso intenso
questa felice ambiguità.
La figura velata della Vergine, di cui si vedono solo il volto e le
mani, esprime senza dubbio anche un afflato religioso. Ma io in
quell’ovale perfetto e luminoso ho sempre visto soprattutto una
giovane donna dalla bellezza quieta e posata, straordinariamente
dolce ma non per questo meno conturbante. Non vorrei sembrare
corrivo verso certi usi islamici, ma trovo che il quadro dell’artista
siciliano (chissà, forse aveva qualche antenato arabo) sia un’inconfutabile
dimostrazione di quanto possa risultare attraente una ragazza con il
velo.

Egon Schiele, "La barca da pesca di Trieste"
Martina Fornasaro
Toni caldi resi ancora più dolci dalle luci di un tramonto
settembrino illuminano "La barca da pesca di Trieste" che
Egon Schiele ha dipinto nel 1912, il mio quadro preferito al quale
sono affezionata anche perchè io a Trieste sono nata e ci ho
vissuto fino ai miei 20 anni. E, in quei gialli, quegli arancioni,
quei rossi, riconosco anche i colori che - proprio in autunno -
illuminano il Carso (sono quelli del sommaco, un piccolo arbusto
-diffusissimo- verde in estate, coloratissimo da settembre a
novembre, e che poi perde tutte le foglie restituendo così alla
vista il grigio freddo della roccia carsica).
Certamente anche Schiele conosceva questi colori: a Trieste, si
legge nelle sue biografie, c'era stato almeno un paio di volte.
Ho incorniciato la riproduzione della "Barca da pesca di
Trieste": sta nella mia camera, proprio sopra il comò. Ho
appena ripitturato casa: è stato il primo quadro che ho riappeso
dopo i lavori.

Henri Matisse "La danza"
Valentina Furlanetto
Cinque nudi che danzano in tondo tenendosi per mano. Corpi rosei,
sfondo blu, terra verde. E' La danza di Henri Matisse. In
realtà, come di molte tele di Matisse, ne esistono varie versioni.
Una del 1909 sta al Moma di New York, un'altra, del 1910, si trova a
San Pietroburgo, al Museo Ermitage.
Ma perchè La danza? Perchè è l'immagine della gioia
inarrestabile della vita, del suo continuo rinnovarsi, il suo eterno
movimento; perchè è il vortice dionisiaco che si contrappone alla
staticità apollinea delle mele di Cezanne; perchè ha ispirato uno
spartito jazz (di Max De Aloe); perchè prima, molto prima dei
girotondi, era un bellissimo girotondo.

Paolo Uccello, "La battaglia di San Romano"
Alessandro Lanni
Sullo sfondo ci sono uomini che scappano, che caricano pesantissime
balestre, che si sfidano a duello. Lepri inseguite da levrieri
affamati e cerbiatti che saltano. In primo piano, tra le foreste di
picche e di lance, tra i muscoli azzurri dei cavalli, i fiori e i
frutti accuratamente descritti, le armature e i pennacchi colorati e
multiformi (e questi meriterebbero un discorso a sé stante), quasi
si perde la "chiave" del quadro, anzi delle tre tavole
della Battaglia di San Romano di Paolo di Dono detto Paolo
Uccello (1397-1475).
Distribuiti nelle capitali dell'arte europea (uno è alla National
Gallery, uno al Louvre, l'altro agli Uffizi), i tre episodi che
celebrano la vittoria delle truppe fiorentine guidate da Niccolò da
Tolentino su quelle senesi di Bernardino della Ciarda hanno un
elemento che non può non saltare agli occhi anche del turista più
distratto: i cappelli, i copricapo di alcuni soldati.
Nel primo, il comandante dei futuri vincitori incita all'attacco
indossando una sorta di turbante di una stoffa gialla e rossa, come
un broccato di quelle tende che si trovano nei saloni dei musei o
nelle case delle nonne. Poi ci sono i personaggi che indossano i
"mazzocchi". Per chi non ha dimestichezza con i dettami
della moda fiorentina, si tratta di grandi Polo ("il buco con
la menta intorno") che cingono il cranio dei soldati. E per
chi, a sua volta, non avesse dimestichezza con le caramelle, dicesi
"mazzocchio" un poliedro regolare: la prova del nove per
gli artisti alle prese con la neonata scienza prospettica.
Una gran passione per Paolo Uccello se, come raccontano le Vite
del Vasari, fu bonariamente rimproverato da un altro genio del '400
fiorentino al pittore ossessionato dalla geometria: «Onde Donatello
scultore suo amicissimo li disse molte volte, mostrandogli Paulo
mazzocchi a punte e quadri tirati in prospettiva perdiverse
vedute....et altre bizarie in che spendeva e consumava il tempo
"Eh, Paulo, questa tua prospettiva ti fa lasciare il certo per
l'incerto; queste son cose che non servono se non a questi che fanno
le tarsie!"»

Edvard Munch, “L’urlo”
Chiara Rizzo
Camminavo lungo la strada con due amici
quando il sole tramontò
il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue
mi fermai, mi appoggiai stanco morto a un recinto
sul fiordo nerazzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di
fuoco
i miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura
e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura.
È un brano del diario di Munch. Il suo quadro “L’urlo”, che a
me piace tanto, è dunque decisamente autobiografico: l’uomo in
primo piano che grida è l’artista stesso. Ma, al di là della sua
relativa occasionalità, per me quest’immagine ha l’incontestabile
capacità di trasmettere sensazioni universali, forse soprattutto
per com’è dipinta, per questo personaggio che sembra più uno
spirito che un corpo, con la testa completamente calva come un
teschio ricoperto di pelle mummificata, con quello sguardo
allucinato e terrorizzato, con quella bocca aperta in uno spasmo
innaturale, con le sagome dei due uomini sullo sfondo sordi e
impassibili all’urlo che proviene dall’anima dell’uomo. Sono
gli amici del pittore, incuranti della sua angoscia, a testimonianza
della falsità dei rapporti umani.
Un’intensa esplosione di energia psichica, tutta l’angoscia che
si racchiude in uno spirito tormentato che vuole esplodere in un
grido liberatorio. Ma non c’è nessun elemento che induca a
credere alla liberazione consolatoria. L’urlo rimane solo un grido
sordo che non può essere avvertito dagli altri, rappresenta tutto
il dolore che vorrebbe uscire da noi, senza mai riuscirci. E così
diventa semplicemente un modo per guardarci dentro, dove possiamo
trovare solo angoscia e disperazione.
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