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Una proposta seria e concreta



James Fishkin con Giancarlo Bosetti



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Lei è sostenitore di un concetto di democrazia che trova nella deliberation, cioè nella discussione, nel processo di un libero confronto razionale tra argomenti diversi, un momento essenziale. La sua proposta dei “sondaggi deliberativi” mira a formare un’opinione pubblica più competente e riflessiva. Nel suo programma una funzione importante è svolta dai moderatori. Ci parli della loro funzione.

I moderatori servono a garantire che tutti parlino e che nessuno domini il dibattito. I sondaggi deliberativi non sono semplici riunioni di cittadini: la loro composizione si basa sul campionamento casuale di cittadini rappresentativi della comunità, sulla costituzione di un panel ben definito che viene chiamato a discutere di argomenti specifici, organizzati in modo equilibrato e trasparente. Il ruolo dei moderatori è molto importante: devono avere una formazione appropriata, per poter facilitare la discussione e rispondere in maniera pertinente alle domande del campione.

Il metodo che propongo ha come scopo la creazione di un’opinione pubblica informata e ponderata, del tutto diversa da quella attuale, che è il semplice prodotto di orientamenti già selezionati in partenza e poi trasmessi dalla televisione, e che si esprime in modo incompetente e impulsivo attraverso i sondaggi tradizionali. Il sondaggio tradizionale può essere utile all’inizio, per comprendere la base di partenza, le opinioni da cui si parte, ma poi è importante ripetere l’esame alla fine, per analizzare le differenze tra il prima e il dopo.

Di solito ogni discussione tende a risolversi in termini di contrapposizione tra due diversi orientamenti, ma ci sono anche ipotesi intermedie. Si riesce a rappresentare tutte le posizioni?

Di solito, prima di effettuare un sondaggio deliberativo, stabiliamo il tema e stiliamo un documento introduttivo, nel quale vengono presentate fino a quattro opzioni di base (nulla esclude che dal dibattito ne possano emergere altre) e cerchiamo di riassumere, per ogni alternativa, tutte le informazioni e le argomentazioni principali favorevoli e contrarie. In questo modo il pubblico, nell’affrontare il problema, è stimolato a riflettere e a prendere in considerazione elementi ai quali prima non aveva neppure pensato.

È necessaria la presenza di esperti che rappresentino ciascuna opzione?

Non solo. Per ogni alternativa sarebbe bene avere a disposizione sia un sostenitore che un critico, in modo che si possa arrivare ad ottenere fino ad otto punti di vista autorevoli.

Le opzioni quindi non sono mai soltanto due?

L’unico caso in cui sembrava ci fossero solo due alternative è stato quello del sondaggio deliberativo organizzato in Australia in occasione del referendum per la Repubblica. Ma anche allora si è dovuto riconoscere che gruppi diversi avevano diversi motivi per essere contrari o favorevoli, quindi le posizioni finivano per differenziarsi ulteriormente.

E quando la vita politica si basa sulla contrapposizione tra due grandi partiti politici, come ad esempio in America, che succede?

Anche in quel caso ci sono diverse proposte e diversi orientamenti, e per ognuno ci sono argomenti favorevoli e contrari. Quando ci siamo occupati delle elezioni generali britanniche del 1997, c’erano tre grandi partiti, rappresentati ognuno da un esperto, ma erano stati convocati anche degli esperti indipendenti che costringessero quelli politicamente schierati ad affrontare la discussione con onestà e trasparenza. A seconda del tema, il quadro di riferimento può essere organizzato in modo diverso, le prospettive possibili sono sempre molte.

I moderatori sono personaggi sconosciuti al grande pubblico?

Solo nei gruppi di discussione più ristretti. In quelli più grandi, spesso ci affidiamo ad una personalità televisiva di spicco, o a dei politici (come in Australia), ma cerchiamo sempre di garantirne la neutralità e l’equilibrio. In Danimarca per esempio abbiamo invitato un commentatore televisivo famosissimo, di cui però non era altrettanto noto l’orientamento.

Invece per quanto riguarda la partecipazione dei politici, che esperienza ha avuto?

Abbiamo invitato Tony Blair, e anche Al Gore nel 1996: in quell’occasione avevamo invitato tutti i maggiori candidati presidenziali, ma Clinton essendo già presidente non aveva potuto partecipare e quindi il vicepresidente era intervenuto come rappresentante dei Democratici. Ma dipende dalle situazioni, dagli argomenti trattati, non sempre i politici che partecipano hanno ruoli di spicco. In Inghilterra nel 1997, per esempio, ci siamo occupati solo di questioni economiche, quindi abbiamo convocato i ministri Kenneth Clark, conservatore, e Gordon Brown, il suo rivale laburista. Invitiamo rappresentanti di alto livello se abbiamo particolari esigenze di equilibrio e credibilità, o in prospettiva di una trasmissione televisiva.

Cosa convince i politici a partecipare? Il sondaggio deliberativo viene percepito come particolarmente favorevole da una parte politica, dai progressisti o dai conservatori?

No, non esistono differenze ed è bene che non ce ne siano: il sondaggio deliberativo dev’essere per sua natura equilibrato.

E la gente che opinione ha di questi sondaggi, dove si sono tenuti?

Noi speriamo che li consideri obiettivi e trasparenti. La situazione è aperta e ogni orientamento è convinto di prevalere. Se le questioni sono abbastanza complesse, come spesso succede, è anche probabile che abbiano tutti ragione: da domande relative a un unico argomento, viene sempre fuori qualcosa di favorevole e gratificante per ciascun orientamento, anche se in caso di referendum, per esempio, è ovvio che qualcuno alla fine debba vincere.

Lei è un professore, non un politico. Come ha fatto a realizzare la sua idea? Ha avuto qualche legame con le strutture statali?

In ogni paese e in ogni caso è stato diverso. L’idea mi è venuta in occasione delle elezioni primarie americane, ma l’ho realizzata per la prima volta in Inghilterra, con l’appoggio di Channel Four: il progetto era quello di utilizzare i risultati del sondaggio deliberativo per approfondire le varie questioni durante la campagna elettorale. Successivamente sono tornato in America, ho applicato lì la mia idea e in seguito l’ho esportata in Australia in occasione del referendum, anche lì con la partecipazione di uno dei maggiori canali televisivi del paese. Adesso sto promuovendo la realizzazione di un sondaggio deliberativo europeo, che permetta finalmente alle diverse nazioni di dialogare tra loro in maniera costruttiva.

Secondo lei qual è il modo migliore per iniziare un esperimento del genere? È meglio partire subito approfondendo i temi fondamentali al centro della lotta politica, o cominciare da questioni locali e più circoscritte?

Noi abbiamo affrontato temi sia locali che nazionali. Ci siamo dedicati molto al locale, proprio poche settimane fa a New Haven in Connecticut abbiamo effettuato un sondaggio deliberativo sulla questione della suddivisione delle entrate tra città e circoscrizioni. Ovviamente se ci si limita al locale l’esperimento è più economico. Quando si comincia a riferirsi al nazionale è probabile che si vogliano coinvolgere anche i media: il pubblico si entusiasma all’idea di partecipare, e più aumentano le persone, più crescono i costi.

In Italia un soggetto adatto a sponsorizzare un’iniziativa simile sarebbe la televisione pubblica, l’equivalente della PBS americana, per intenderci, anche se ha una natura molto diversa e dimensioni molto maggiori. Ma i sondaggi deliberativi trasmessi che qualità televisiva dovrebbero avere? Dovrebbero assomigliare a dei talk shows, a una specie di “Grande Fratello”, o essere al contrario molto ufficiali? In Europa la politica-spettacolo è molto diffusa, non c’è bisogno di aumentarla, ma è anche vero che per attrarre il pubblico non bisogna annoiarlo.

Due tipi di broadcasting possono adattarsi al sondaggio deliberativo: la diretta e la registrazione sottoposta a montaggio. La diretta è più imprevedibile, ma si può ben adattare alle prime sessioni. In Australia sono stati trasmessi due giorni di diretta del dibattito e poi uno spettacolo registrato ha mostrato i risultati della discussione. In America le sessioni con i candidati presidenziali sono state trasmesse in diretta, ma poi uno speciale registrato di un’ora e mezzo è servito a sintetizzare gli interventi dei gruppi più ristretti, dando loro il giusto risalto. In Inghilterra, due ore di registrazione sono state trasmesse come diretta la domenica sera, seguite dalla diretta dei risultati: l’accostamento ha mostrato in maniera evidente i cambiamenti di orientamento intervenuti durante il week-end di dibattito. L’anno prossimo a gennaio faremo la stessa cosa con la PBS.

Quanti spettatori ha avuto l’esperimento con la PBS?

Negli Stati Uniti, il picco massimo è stato di nove milioni e mezzo. La tv Australiana ha ottenuto un’audience più elevata, e anche a Channel Four sono stati soddisfatti.

La televisione può considerare il sondaggio deliberativo come un investimento?

È un po’ come gestire una lotteria nazionale: ogni cittadino, ogni elettore ha le stesse probabilità di partecipare a questo progetto scientifico che coinvolge la gente comune. Ma è la funzione sociale ad essere particolarmente importante: il sondaggio deliberativo costituisce una possibilità per il pubblico di far sentire la propria voce dopo aver discusso di temi specifici e aver ottenuto delle risposte alla proprie domande.

Nella scelta dei politici da invitare non possono decidere gli organizzatori chi dovrà partecipare? È il partito che sceglie chi mandare?

Dipende dai temi trattati e soprattutto da chi organizza il sondaggio: la televisione, dei ricercatori, una rivista, un quotidiano, un consorzio di diversi gruppi. Di solito prima facciamo una riunione di briefing in cui si rende noto il materiale che verrà utilizzato e le questioni che verranno trattate. A volte è una riunione molto ampia, a volte invece partecipano solo i ricercatori.

Chi organizza il sondaggio?

Ogni volta è diverso, dipende dall’argomento di cui si discuterà. In Australia è stato appositamente fondato un istituto di ricerca, appoggiato da un gruppo di consulenza e dai due comitati ufficiali del Sì e del No al referendum. Il gruppo di consulenza era composto di ex politici e accademici, persone di prestigio reclutate dall’Istituto. C’era anche un ex primo ministro. Ma non sempre il sondaggio deliberativo si appoggia ad un gruppo di consulenza: quello di Channel Four per esempio non l’ha voluto, è nato da una partnership tra la rete televisiva, un istituto di ricerca e un giornale, l’Independent. Il consulente ero io.

Immaginando lo sviluppo della sua ipotesi, crede che sarebbe utile l’appoggio di un istituto o di una commissione permanente?

Sarebbe un’ottima cosa. Spesso in riferimento a temi specifici esistono delle commissioni che potrebbero sponsorizzare dei sondaggi deliberativi relativi alle proprie pertinenze. In questo modo potrebbero sentire il polso del pubblico, invece di rimanere delle elites isolate. Il sondaggio deliberativo è l’unico modo in cui credo si possa ottenere un’espressione dell’opinione pubblica rappresentativa e riflessiva. Ogni altra modalità di consultazione è autoselezionata e parziale.

Perché non sono i parlamenti a promuovere questi sondaggi deliberativi, invece della società, dei gruppi autorganizzati?

Ho parlato con molti membri dei parlamenti di diversi paesi, e tutti hanno dimostrato grande interesse per l’idea, perché sanno più di chiunque altro che il pubblico spesso non è informato né abbastanza concentrato, a volte non capisce veramente le questioni e dunque è giusto pensare di monitorarne le riflessioni. Siamo riusciti a dimostrare che il pubblico quando pensa arriva a delle conclusioni estremamente sensate: il problema è che solitamente non lo fa.

Forse per i politici il sondaggio deliberativo è però anche un modo di complicarsi inutilmente la vita. Forse non saranno i maggiori sostenitori dell’idea.

Non lo sono, ma a volte, in relazione a particolari temi, il sondaggio deliberativo può dare ai politici il coraggio di fare la cosa giusta. Per citare un esempio banale, negli Stati Uniti un sondaggio iniziale aveva rilevato che gli americani volevano eliminare gli aiuti per l’estero, che consideravano un peso enorme per il budget del paese. Ma quando, nel corso della deliberation, si sono resi conto che in realtà questo peso enorme era pari al solo 1%, hanno cambiato opinione, reagendo in maniera sensata. Cosa sarebbe invece successo se i politici avessero ascoltato quell’invito, pur sapendo che l’opinione pubblica non aveva riflettuto e non era stata correttamente informata?

Ma i politici basano la propria condotta proprio sulla capacità di convincere con la retorica, con l’espressione del volto, col modo di gesticolare. Non dovrebbero essere molto favorevoli alla riflessione.

Se è per questo, i politici a volte convincono anche attraverso una disinformazione fuorviante. Ma sono fiducioso che a lungo termine il sondaggio deliberativo li trovi favorevoli, perché è un’espressione corretta, rappresentativa, informata e degna di fede dell’opinione pubblica. Di solito sono soprattutto i giornalisti a trovare la proposta interessante, perché il sondaggio deliberativo fornisce un esempio del tipo di informazione che andrebbe ricercata, dei mezzi con cui andrebbero convinti i cittadini in condizioni ottimali. Ma anche i politici ci hanno spesso offerto il loro appoggio: dipende dal tema e dalle domande che si fanno, bisogna essere molto cauti.

Una domanda più generale, di carattere teorico. Nel suo libro, The Voice of the People, lei cita il mito della caverna di Platone, un bersaglio classico della critica liberale, secondo cui questo mito nasconde una concezione elitista. Se c’è qualcuno rinchiuso nella caverna, c’è anche qualcuno che sa dove sono la luce, la verità, la realtà. Come risponderebbe a una critica del genere?

Non credo che esista una forma politica giusta in assoluto, ma penso che sicuramente si potrebbe fare di più del semplice guidare il mondo prestando ascolto ad impressioni distratte basate su voci e titoli di giornali. La collettività può rivelarsi molto saggia, se solo le si offre una possibilità e degli stimoli per dimostrarsi più attenta. L’opinione pubblica non vuole essere strumentalizzata, ma non per questo deve diventare critica nei confronti della democrazia: può invece sostenerla, come succedeva nell’antica Atene, appoggiando con la discussione dei rappresentanti che si assumano la responsabilità delle decisioni.

Il pubblico è capace di discernimento, ma non basta chiedere che abbia più potere: lo avrà a condizione che sia correttamente informato. Più potere, ma ad un’opinione pubblica più competente. Il nostro è un esperimento sociale, teso a dimostrare di cosa sarebbe capace il pubblico se riflettesse e si informasse. Il broadcasting e la stampa in quest’ottica hanno il compito di spiegare non tanto le conclusioni ma il percorso per arrivarci e le motivazioni addotte, per arrivare ad una democrazia più ricca e profonda. I padri fondatori che hanno istituito la repubblica americana, avevano paura della massa: accettavano la deliberazione, ma volevano una democrazia il più possibile indiretta. La scienza sociale sta oggi dimostrando che il pubblico è molto più competente di quanto non si pensasse, ma solo alle giuste condizioni: la voce della massa è pericolosa, se stimolata in maniera errata.

Perché questa proposta è nata alla fine del secolo e non alla metà del Novecento, quando la democrazia ha vissuto alcune delle sue peggiori degenerazioni?

La mia idea è nata dalla constatazione degli eccessi e dei limiti della democrazia, evidenti nelle modalità con cui si effettuano sondaggi, elezioni, e referendum. Il pubblico è incompetente, ma ciò dipende dalla situazione attuale in cui non viene stimolato a riflettere. Esiste quella che Anthony Downs ha definito “ignoranza razionale”: il cittadino sente che la sua opinione non conta, perché dispersa in milioni di altri giudizi. La mia esperienza ha dimostrato che fino ad oggi esisteva una profonda ineguaglianza nella democrazia, una diffusione inadeguata dei diritti. Il mio obiettivo è quello di combinare l’eguaglianza politica con la deliberation: bisogna aumentare sondaggi e referendum, ma prendendo in considerazione un’opinione pubblica pensante.

Le opere di Madison e dei padri fondatori americani ci insegnano che perché esista la possibilità di deliberare, i gruppi di discussione devono essere relativamente ristretti, deve esserci la facoltà di confrontarsi faccia a faccia sulle questioni. I padri fondatori sognavano di veder realizzato un contesto del genere nell’assemblea costituzionale. Il sondaggio deliberativo può creare un ambiente di questo tipo, e attraverso il decentramento può estenderlo all’intera nazione. I riformatori progressisti americani e di altri paesi, che promuovono la democrazia diretta ma senza tener conto di questo importante elemento, ci espongono al rischio di una democrazia referendaria e dei sondaggi, di una cittadinanza superficiale.

Il progetto del “deliberation day” firmato da lei e da Bruce Ackerman estende la tecnica del sondaggio deliberativo a un paese intero, immaginando di istituire una vera e propria nuova vacanza nazionale, dedicata alla discussione. È una nuova utopia?

No. È un progetto che potrà essere realizzato, se qualcuno lo sponsorizzerà. Inizialmente potrebbe essere sperimentato a livello locale, solo in alcune città, per essere successivamente esteso se dovesse funzionare: si tratta di costituire gruppi più o meno ampi, i cui membri si dedichino per un’intera giornata alla cittadinanza attiva, prima delle elezioni. È una proposta seria e concreta.

(traduzione di Chiara Rizzo)

 

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