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Un appunto sulle proposte della Convenzione



Alessandro Pizzorusso




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Quello che segue è un appunto su alcune proposte contenute nella risoluzione “Delimitazione delle competenze tra l’UE e gli Stati membri” approvata dal Parlamento europeo il 16 maggio 2002. Alessandro Pizzorusso è Professore ordinario di Diritto costituzionale, Università di Pisa.

La relazione sulla delimitazione delle competenze tra l’Unione europea e gli Stati membri (2001/2024(INI)) - approvata dal Parlamento europeo sulla base del “progetto Lamassoure” - contiene un’analisi dei principali problemi derivanti dell’attuale assetto istituzione dell’UE, che rappresenta un’utile base di discussione.

Giustamente il progetto allarga il suo campo di osservazione dal tema assegnato della ripartizione delle competenze fra UE e stati ad altri problemi che sono ad esso connessi (o addirittura pregiudiziali) e ciò inevitabilmente lo conduce a delineare una soluzione per l’intero problema del nuovo assetto costituzionale che l’UE dovrebbe assumere a conclusione dei lavori di ristrutturazione attualmente in corso. Su taluni punti, tuttavia, esso fornisce delle indicazioni incomplete, omettendo di specificare la portata di alcune delle scelte che esso propone, e su altri tace del tutto, nonostante che tale silenzio getti un ambito di indeterminatezza sulle soluzioni esplicitamente proposte.

Le osservazioni che seguono prendono spunto da alcune di tali indicazioni.

Nonostante che le Comunità europee (e l’UE che successivamente si è affiancata ad esse) siano state concepite come organizzazioni internazionali, il progetto ritiene applicabili all’ordinamento dell’UE alcuni principi che sono stati elaborati con riferimento agli ordinamenti costituzionali degli stati, come la separazione dei poteri e l’organizzazione di un sistema di fonti del diritto ordinate gerarchicamente (nn.11 e 15 della relazione), e che sono invece estranei alle impostazioni che seguono le tecniche proprie del diritto internazionale, nonostante che sia in base a quest’ultimo che le organizzazioni internazionali vengono costituite e normalmente funzionano.
Ciò trova fondamento in talune particolarità che sono proprie delle Comunità e dell’UE e principalmente nella circostanza che queste sono state dotate, a partire dal trattato istitutivo della CECA (che fu quello che dette inizio a questa evoluzione), di funzioni normative e di funzioni giurisdizionali, pur se vincolate all’osservanza dei trattati istitutivi.
L’impostazione originaria di tipo internazionalistico ha trovato inoltre una limitazione nel principio, che è stato affermato dalla giurisprudenza dei giudici comunitari ed accettato dagli stati, della priorità del diritto comunitario nei confronti del diritto statale e dell’immediata applicabilità di esso nell’ambito degli ordinamenti interni.
Nello stesso senso va l’individuazione, successivamente compiuta dalla giurisprudenza comunitaria e recepita dal Trattato di Maastricht, nelle “tradizioni costituzionali comuni agli stati membri” (e nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che è un trattato europeistico di per sé non riferibile all’UE) di una fonte di diritto comunitario, produttiva, precisamente, di “principi generali” di tale diritto.
Infine, il preambolo della Carta di Nizza contiene un catalogo delle fonti del diritto comunitario nel quale queste tradizioni (le quali non concernono soltanto i diritti umani, ma anche l’organizzazione europea, dalla quale tali diritti sono per molti versi inseparabili) occupano il primo posto.
In virtù di questa evoluzione, accanto al corpo delle norme del diritto comunitario che traggono origine dall’attività diplomatica degli stati membri (e che quindi hanno carattere “eteronomo” rispetto al sistema Comunità-Unione), si è venuto formando un corpo di norme anch’esse costitutive di diritto europeo, ma non dotate di carattere eteronomo.
Si è determinata così una situazione nella quale coesistono ragioni che inducono a configurare le Comunità e l’UE come enti appartenenti al genere delle organizzazioni internazionali (e principalmente soggetti ai principi propri del diritto internazionale) e ragioni che inducono a configurare questi enti come appartenenti al genere delle organizzazioni statali (ed alla specie delle organizzazioni fondate su un sistema di autonomie territoriali a più livelli) e principalmente soggetti ai principi propri del diritto costituzionale.
L’opera di razionalizzazione che il processo di riforma attualmente in corso ha per scopo dovrebbe consentire la realizzazione di un migliore equilibrio fra le une e le altre.

Negli ordinamenti statali, il principio della separazione dei poteri trova attuazioni, spesso non del tutto coerenti, ma comunque rispondenti a principi teoricamente abbastanza chiari, per quanto riguarda i rapporti fra il potere giudiziario e gli altri poteri, mentre dà frequentemente luogo a difficoltà quasi insolubili con riferimento ai rapporti fra potere legislativo e potere esecutivo.
Infatti, l’evoluzione della democrazia parlamentare ha fatto progressivamente venir meno la contrapposizione fra potere regio e potere parlamentare, che offriva una spiegazione razionale dell’assetto “dualista”, e le situazioni che si sono venute realizzando si sono fondate, o sulla contrapposizione fra due poteri che traggono entrambi origine dall’elezione popolare, seppur in modo variamente differenziato (come soprattutto nel presidenzialismo americano), o sulla maggiore o minore integrazione di esecutivo e maggioranza parlamentare in un potere sostanzialmente unico, anche se variamente articolato (con soluzioni comprese fra, ad un estremo, quelle di tipo assembleare e, all’estremo opposto, quelle di tipo maggioritario).
Si aggiunga che l’evoluzione degli ordinamenti costituzionali ha portato all’individuazione di altri poteri, in aggiunta ai tre tradizionali, con riferimento ai quali si pongono talora problemi almeno parzialmente nuovi. Inoltre negli ordinamenti a struttura federale (o comunque a struttura composta, quale che sia la denominazione e la conformazione degli enti territoriali dotati di forme di autonomia più o meno ampia) questo tipo di struttura incide spesso sull’assetto dei poteri, sia nell’ambito dell’ente centrale, sia nell’ambito degli enti autonomi.
Pertanto, parlare puramente e semplicemente di separazione dei poteri, legislativo, esecutivo, giudiziario (o delle corrispondenti funzioni), senza qualche maggiore specificazione, rischia di contribuire a determinare incertezza.

Anche con riferimento all’ordinamento dell’UE il principio della separazione dei poteri può trovare applicazione senza eccessive difficoltà di ordine teorico con riferimento ai rapporti fra gli organi giurisdizionali e gli organi più propriamente qualificabili come politici.
Sviluppi analoghi potrebbero verosimilmente aversi anche con riferimento ad organi non giurisdizionali i quali fruiscano di un regime di indipendenza simile a quello generalmente applicato agli organi giurisdizionali, come la Banca centrale europea ed altri.
L’applicazione del principio della separazione dei poteri nell’ambito dell’UE assume invece carattere maggiormente problematico con riferimento alla determinazione della struttura e del funzionamento degli organi costituzionali politici: ciò deriva principalmente dal diverso rilievo che assume il rapporto fra istituzione centrale ed istituzioni territoriali in un caso, come quello dell’UE, nel quale il rapporto unitario è recente o recentissimo e l’Unione deve realizzare forme di migliore cooperazione fra popolazioni diverse, sulle quali esercita ancora una forte influenza l’egemonia che per circa due secoli hanno esercitato le ideologie che si ispiravano al dogma, oggi ridimensionato dalle tragiche esperienze del XX secolo, secondo il quale ogni entità nazionale dovrebbe corrispondere ad uno stato ed ogni stato dovrebbe essere espressione di un’unica entità nazionale.
Tale situazione comporta chiaramente la ricerca di un assetto costituzionale nel quale l’esigenza di bilanciare i poteri pubblici fra un ente centrale e una pluralità di enti territoriali (eventualmente distribuiti su più livelli) assume un rilievo molto maggiore di quanto avvenga in uno stato nazionale rigidamente unitario, e generalmente anche di quanto avvenga in uno stato articolato in autonomie.
Mentre, con riferimento alle ipotesi di quest’ultimo tipo, il problema dell’equilibrio fra i partiti politici (e principalmente fra maggioranza e opposizione) assume normalmente un rilievo preminente rispetto al problema dell’equilibrio fra istituzioni centrali ed istituzioni territoriali, in un caso come quello dell’UE (e quanto meno in una fase che si presenta quasi come una fase di avvio, quale molto probabilmente sarà quella che si realizzerà una volta completata la procedura di allargamento in progetto), è logico che questo secondo problema assuma un rilievo preminente e che ad esso sia dato di conseguenza, in sede di riorganizzazione dell’Unione, un ruolo proporzionato alle relative esigenze.
Ciò non significa però che se ne debba dedurre la necessità di mantenere l’impianto internazionalistico originariamente adottato (e successivamente per più versi modificato, ma mai compiutamente ripensato), in virtù del quale gli stati mantenevano poteri di controllo pressoché assoluti sull’esercizio di quasi tutte le funzioni conferite alle Comunità e all’UE.
Dopo che le esperienze compiute nella prima fase di funzionamento delle istituzioni comunitarie hanno mostrato tutti gli inconvenienti di questo assetto, il criterio generale per la soluzione del problema è stato individuato nel ricorso al principio di sussidiarietà (cui la relazione giustamente si richiama frequentemente), per il quale l’esercizio di tutti i poteri pubblici deve avvenire nelle forme e nelle sedi che rendano possibile la massima partecipazione dei cittadini alla formazione delle decisioni delle quali sono destinatari, ma è evidente che la semplice enunciazione del principio non può essere sufficiente ad assicurarne la più efficace attuazione e che occorre individuare una serie di criteri di ripartizione delle funzioni fra l’Unione e gli stati membri, nonché una serie di criteri che delimitino il ruolo che gli stati membri debbono poter esercitare nell’ambito delle procedure di formazione delle decisioni di competenza dell’Unione.

Per quanto riguarda la ripartizione generale delle funzioni fra l’Unione e gli stati membri, la relazione fissa alcuni punti fermi che precisano e in gran parte confermano quelli che già erano stati individuati nella precedente fase di funzionamento delle istituzioni comunitarie.
Da essi risulta che le funzioni proprie dell’Unione sono essenzialmente funzioni normative e di indirizzo, mentre la generalità delle funzioni esecutive e giurisdizionali debbono restare normalmente assegnate agli stati membri .
Il problema della ripartizione delle funzioni fra Unione e stati membri riguarda perciò essenzialmente le funzioni normative, poiché la determinazione delle eccezioni alla competenza amministrativa e giurisdizionale degli stati non presenta grandi difficoltà, come già risulta dall’esperienza fatta negli anni passati, mentre la determinazione di una funzione d’indirizzo - o “politica” - dell’Unione dipenderà, più che da quanto possa essere scritto in un trattato (o costituzione che sia), da quanto i titolari degli organi supremi dell’Unione riusciranno concretamente a fare.
E’ invece di grande importanza tenere presenti i collegamenti che sussistono fra il problema della ripartizione delle competenze normative fra l’Unione e gli stati membri e il problema dell’assetto degli organi comunitari e della disciplina del loro funzionamento, poiché è soltanto dalla combinazione dei due ordini di problemi che può uscire una soluzione equilibrata.
Queste considerazioni giustificano il rilievo che la relazione dà all’applicazione del principio di gerarchia al sistema delle fonti comunitarie, che immagina come articolato in tre livelli, corrispondenti alla “costituzione”, alle “leggi comunitarie” ed alle “norme di applicazione” (corrispondenti, direi, a quelli che la dottrina italiana denomina “regolamenti di esecuzione”, aventi natura amministrativa) e questa configurazione sembra confermare l’impostazione della dottrina che configura i rapporti fra fonti comunitarie e fonti statali come rapporti fra ordinamenti distinti e non come rapporti derivanti dall’appartenenza ad un’unica gerarchia normativa.

La maggior parte delle considerazioni contenute nella relazione sono dedicate alla legislazione, mentre della costituzione (e delle norme di applicazione) si parla solo occasionalmente (principalmente al n.12).
Se tuttavia può ammettersi che la futura costituzione - ove si riesca a realizzarla - debba essere adottata mediante un trattato stipulato da tutti gli stati membri con la procedure consuete, non dovrebbe affatto ritenersi scontato che lo stesso debba valere anche per le successive leggi di revisione, per le quali, al contrario, dovrebbe essere prevista (dalla costituzione stessa) una procedura ad hoc, che garantisca equamente le aspirazioni degli stati, ma senza riconoscere ad essi, né a ciascuno di loro, un vero e proprio diritto di veto.
Tutt’al più si potrebbe immaginare una graduazione della modificabilità delle disposizioni costituzionali che corrispondentemente individui procedure e/o maggioranze diverse applicabili a diverse classi di modifiche (ed eventualmente anche un ristrettissimo gruppo di principi per i quali la revisione non è ammessa, come avviene in alcuni paesi membri), ma non par dubbio che l’attribuzione del “normale” potere di revisione costituzionale ad un organo dell’Unione costituisca una rivendicazione di primaria importanza.

Il problema delle “norme di applicazione” (n.12) è anch’esso di un certo rilievo, innanzi tutto perché bisognerebbe stabilire se la previsione di esse in costituzione comporterebbe l’attribuzione all’organo competente, nelle materie in cui l’Unione è titolare di potestà legislativa, di una potestà normativa, vincolata bensì al rispetto delle norme di legge, ma derivante direttamente dalla previsione costituzionale (e quindi esercitabile anche in assenza di previsioni legislative, secondo il modello dei “regolamenti indipendenti”, entro i limiti della competenza legislativa dell’Unione), oppure se la legittimazione ad esercitarla deriverebbe dall’esistenza di una specifica disposizione di legge comunitaria bisognosa di norme di esecuzione.
Sarebbe inoltre necessario stabilire in modo esplicito, sia quale sarebbero le conseguenze dell’eventuale illegittimità (annullabilità, disapplicabilità, ecc.) di esse, sia quali sarebbero le condizioni per ricorrere nei loro confronti. In secondo luogo, sarebbe opportuno dire esplicitamente - se così si ritiene che debba essere, come sembra peraltro difficile negare - che il principio della priorità del diritto comunitario sul diritto interno degli stati vale anche le norme di applicazione, in quanto parte del diritto comunitario.

Per quanto riguarda la ripartizione della competenza legislativa, la relazione propone di impiegare il criterio delle materie (n.9) e di distinguere un limitato gruppo di materie di competenza “propria” o esclusiva dell’Unione (nn.22-24), un più ampio gruppo di materie di competenza “comune” o concorrente, nelle quali l’Unione dovrebbe limitarsi a dettare principi e obiettivi, mentre spetterebbe agli stati membri (o agli enti territoriali di essi) dettare le norme complete (n.25-28), una competenza destinata ad “integrare” l’azione degli stati membri in materia di loro competenza (n.29) ed una competenza eventuale del tipo di quella attualmente prevista dall’art.308 TCE (n.35). Non parrebbe una vera competenza normativa (o comunque una competenza normativa diversa da quelle precedentemente indicate), ma la previsione di una mera attività politica d’indirizzo, quella di cui al n.30.
Questa impostazione - complessivamente considerata - comporta un certo ridimensionamento del potere “regolamentare” (ma in realtà “legislativo”) attualmente previsto dall’art.249, comma 2, TCE, che risulterebbe esercitabile soltanto nella materie di competenza esclusiva oppure nei casi di interventi “integrativi” o in via di applicazione dell’attuale art.308 TCE. Nei casi di competenza concorrente sarebbe invece esercitabile soltanto una potestà normativa simile a quella ora attuata mediante “direttive” (art.249, comma 3, TCE).
La soluzione proposta appare tecnicamente corretta laddove applica la distinzione fra potestà esclusiva dell’Unione in alcune materie elencate (nn.22-24), potestà concorrente dell’Unione e degli stati in altre (n.25-28) e potestà esclusiva degli stati nelle materie residue (n.21). Richiederebbe probabilmente qualche maggiore precisazione la previsione degli interventi legislativi “integrativi” e di quelli sostitutivi ex art.308 TCE (questi ultimi, tra l’altro, sono attualmente rimessi ad una delibera del Consiglio presa all’unanimità, ma secondo l’impostazione della relazione la procedura di approvazione delle leggi sarebbe probabilmente diversa).

La portata reale di questa parte della relazione non può essere tuttavia valutata disgiuntamente dalla disciplina del procedimento di formazione delle leggi dell’UE, con riferimento al quale essa è molto parca di indicazioni; queste si riducono anzi ad una sola, fornita al n.12, dove si dice che le leggi sarebbero adottate da parte del Consiglio e del Parlamento, qualificati come “i due rami del potere legislativo … ai quali incombono le scelte politiche”. Ciò fa pensare ad un legislatore bicamerale, risultante da un’assemblea rappresentativa del Corpo elettorale (il Parlamento) e da una camera rappresentativa degli stati membri (il Consiglio); manca ogni specificazione esplicita circa il carattere paritario o meno del rapporto fra le due camere.
Questo si presenta in realtà come un punto decisivo per la valutazione della proposta: se infatti essa presupponesse un rapporto paritario, ne deriverebbe l’attribuzione al Consiglio di un potere di veto, il che parrebbe eccessivo, anche nell’ipotesi in cui esso deliberasse a maggioranza sulle iniziative sottoposte alla sua deliberazione.
Una diversa soluzione potrebbe consistere nel distinguere una serie di ipotesi nelle quali il voto del Consiglio ha forza pari a quello del Parlamento da altre in cui invece il suo eventuale voto negativo può essere superato (individuandosi a quali condizioni) da un nuovo voto del Parlamento, come avviene in molti sistemi bicamerali non paritari.
Del pari dovrebbe essere disciplinato, per i casi in cui al voto del Consiglio sia riconosciuta pari forza determinante, una procedura di risoluzione della controversie che eviti un’illimitata navette (del tipo, ad esempio, della commission mixte paritaire di cui all’art.45 della Costituzione francese).

La relazione contiene anche alcune proposte riguardanti la Corte di Giustizia (nn.41-43), le quali sono conseguenza del nuovo assetto del sistema delle fonti comunitarie; su di esse ci riserviamo di intervenire eventualmente in seguito con un separato appunto.

(24 maggio 2002)


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