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Io invece (breve tassonomia degli incipit)



Sergio Garufi




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Forse il fascino delle tassonomie deriva proprio dalla loro arbitrarietà, e quanto più sono eccentriche e bizzarre tanto più seducono gli spiriti classificatori. Estremamente arbitraria, ma istruttiva e divertente, è la catalogazione degli incipit letterari fatta da Giacomo Papi e Federica Presutto in In principio... (Baldini & Castoldi), di cui discorre più approfonditamente, in altro articolo, Paola Casella. Da quelli in presa diretta, che aprono con un dialogo, alle immancabili localizzazioni geografiche e temporali, fino agli avvii in medias res, che catapultano il lettore nel pieno della vicenda narrata, dando per scontata una storia pregressa, gli incipit svolgono sempre una funzione determinante nell’economia di un racconto. E questo non solo perché debbono essere efficaci, invogliando il lettore a proseguire, o convincendo il curioso che si aggira in libreria a fare l’acquisto; ma anche perché imprimono il ritmo alla narrazione, condensando in una frase (nei casi più fortunati) la struttura stessa dell’intreccio.

Il caso più eclatante è, senza dubbio, quello di Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcìa Marquez. Il capolavoro dello scrittore colombiano prende avvio con una formidabile prolessi (nell’accezione di senso indicata da Gerard Genette, ovvero unaanticipazione che racconta o evoca in anticipo un evento ulteriore), che informa della sua circolarità tutto il racconto, rispecchiando così la stessa struttura temporale del romanzo. E’ un espediente narrativo che provoca turbamento e sospensione nel lettore, perché viene reiterato altre quattro volte nel prosieguo della narrazione, fino all’effetto di sollievo che sopraggiunge solo dopo un centinaio di pagine; e che riflette pure quella fitta rete di richiami, quel tempo del ricordo al quale fanno riferimento anche la ciclicità dei nomi della sterminata stirpe dei Buendia.

Ugualmente circolare e classificatorio (pur con le debite proporzioni) è anche l’incipit de Il Mostro di Vigevano, promettente esordio narrativo di Piersandro Pallavicini, che include sia all’inizio che alla fine del suo romanzo un’interminabile lista di video porno di proprietà del protagonista. Ma resta difficile segnalare un inizio in particolare, anche perché è compito arduo distinguere il valore dell’incipit da quello del resto della vicenda.

Non a caso la storia della letteratura è piena di inizi promettenti che tradiscono, nel seguito, quelle legittime aspettative (o viceversa). Si pensi, per esempio, alla banalità da scompartimento ferroviario con cui prende avvio il bel libro di Trifonov Il lungo addio (“A quei tempi, una ventina d’anni fa, qui c’era un mare di lillà”); e all’inizio tautologico e un po’ in sordina di quel capolavoro assoluto che è Viaggio al termine della notte di Céline (“E’ cominciato così. Io, io non avevo proprio detto nulla. Nulla. E’ stato Arthur Ganate a farmi parlare”).

Non fa certamente parte di questa categoria lo straordinario incipit de L’Uomo senza qualità di Musil (troppo lungo per riportarlo qui interamente), con la sua lucida ironia, il taglio saggistico della prosa e la studiata prolissità, che rispecchiano fedelmente lo sguardo disincantato dell’io narrante e preparano il lettore a una lunga e proficua avventura intellettuale. E si può dire lo stesso della zampata magistrale del Moby Dick di Melville (“Chiamatemi Ismaele”), l’inquietudine metafisica carica di valenze simboliche di Tlon, Uqbar Orbis Tertius di Borges (“Devo la scoperta di Uqbar alla congiunzione di uno specchio e di un'enciclopedia"), e dello stesso Borges il mirabile ipallage che apre Le rovine circolari; e ancora il dissonante nichilismo metropolitano de L’Origine di Bernhard (“La città, popolata da due categorie di persone, gli affaristi e le loro vittime, è abitabile per colui che ci viene per imparare e per studiare soltanto in maniera dolorosa, disturbante ogni indole naturale, col tempo perturbante e devastante, molto spesso unicamente subdola e micidiale”); e infine il colloquiale ammiccamento di Umiliati e offesi di Dostoevskij (“Una sera del ventidue marzo dell’anno scorso mi capitò un’avventura veramente strana”).

Come chiunque scriva per mestiere sa, le frasi più importanti di ogni scritto sono quelle iniziali e finali (cioè gli incipit e gli explicit), perché le prime invogliano alla lettura di un testo, mentre le seconde debbono riassumerlo e chiuderlo in bellezza. Maestro in entrambi i casi è il nostro Aldo Busi, del quale, in un’ipotetica lista dei migliori avvii di romanzo, non si potrebbe non includere, fra gli incipit, il commovente quesito del Seminario sulla gioventù (“Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, neppure una reminiscenza”); e, fra gli explicit, la formidabile chiusa di Vita standard di un venditore provvisorio di collant, la cui vicenda circolare è strutturata nell’arco di due settimane, e in cui la tensione finale e domenicale si stempera in una battuta ironica: al posto della parola fine compare la scritta “lunedì”, a suggerire che la vita prosegue il suo corso ineluttabile, perfino dopo i momenti più drammatici.

Rimanendo fra gli autori italiani, non è possibile omettere di segnalare, in questa lista di incipit memorabili, quello de Gli Esordi di Antonio Moresco. Questo romanzo, accolto da gran parte della critica nostrana con grande entusiasmo, e considerato da alcuni (quorum non ego) un autentico capolavoro, prende avvio in modo curioso, sgraziato, quasi sgrammaticato. Il suo incipit recita testualmente: “Io invece mi trovavo a mio agio in quel silenzio”.

Tiziano Scarpa, grande estimatore di Moresco sin dalla prima ora, sostiene, a proposito di questo incipit, che "Io invece..." è quello che ci dice ogni artista quando concepisce una sua opera. Dunque esprimersi artisticamente significherebbe dire "Io invece". Perché il paesaggio gli altri lo vedono così, mentre "io invece" lo disegno a mio modo, la storia racconta questo, e "io invece" lo racconto diversamente, gli esseri umani sono fatti in questa maniera, e "io invece" li descrivo così. Per Scarpa quell’"io invece" sarebbe, insomma, un atto rivoluzionario, e l’essenza stessa dell’atto creativo.

 

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