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Arafat (purtroppo) non è Michael Collins



Antonio Carioti



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La crisi dell’Ulster iniziata alla fine degli anni Sessanta, di cui il “Bloody Sunday” di Londonderry (o Derry, come chiamano la città i nazionalisti cattolici) fu uno dei momenti più tragici, non è che l’ultimo capitolo di un conflitto antico, forse oggi in via di definitiva soluzione, tra le aspirazioni nazionali dell’Irlanda celtica e la politica di potenza della Corona britannica. Cominciò tutto nel Medioevo, per la precisione nel XII secolo, e si proseguì di generazione in generazione tra guerre, rivolte, stragi.

Una tappa fondamentale, fra le tante di quel terribile cammino, è stata rievocata qualche anno fa in un bel film diretto da Neil Jordan e interpretato da Liam Neeson: Michael Collins. Era la ricostruzione, tutto sommato abbastanza aderente alla realtà storica, dell’opera svolta dal più importante capo militare del nazionalismo irlandese per condurre il suo popolo all’indipendenza. Una vicenda le cui analogie con la situazione mediorientale degli ultimi tempi meritano alcune riflessioni.

In Italia nemmeno i più strenui sostenitori di Israele negano che gli arabi di Palestina abbiano diritto a una patria. Ma molti aggiungono che l’attuale leader dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Yasser Arafat, non è credibile, perché compromesso con il terrorismo. Di conseguenza, visto che non ha un interlocutore serio con cui trattare, lo Stato ebraico non potrebbe far altro che tenersi i territori occupati, in attesa che dall’altra parte maturi una leadership con le credenziali in ordine.

Osservatori autorevoli come Edward Luttwak ed Ernesto Galli della Loggia hanno sostenuto a questo proposito che, se la lotta delle popolazioni arabe contro l’occupazione israeliana fosse condotta con metodi nonviolenti, avrebbe molte più probabilità di raggiungere risultati positivi.

La tesi appare suggestiva, ma nel complesso poco realistica, se non altro perché il movimento guidato da Gandhi in India risulta l’unico caso in cui una resistenza pacifica abbia avuto successo in un conflitto del genere. E non bisogna scordare che, subito dopo la partenza dei colonialisti britannici, il subcontinente indiano venne funestato da una guerra feroce tra musulmani e indù, in cui lo stesso Gandhi perse la vita.

Quasi tutte le altre lotte di liberazione sono state segnate dal terrorismo: Algeria, Afghanistan, Sudafrica. Non furono certo i bonzi che si bruciavano in piazza a indurre gli americani al ritiro dal Vietnam. Lo stesso movimento sionista fece ricorso a sanguinosi attentati, contro i britannici e contro gli arabi, per affermare il diritto degli ebrei ad avere uno Stato.

Più di recente abbiamo avuto un esempio che, purtroppo, depone nettamente a sfavore dei metodi nonviolenti. La causa degli albanesi in Kosovo è stata ignorata a lungo, finché Ibrahim Rugova ha mantenuto la lotta contro l’oppressione serba su binari pacifici. Solo quando si è affermato il movimento armato Uck, le cui azioni cruente hanno sollecitato le brutali rappresaglie di Belgrado, la comunità internazionale ha cominciato ad occuparsi della tragedia kosovara.

In un contesto simile, rimproverare ad Arafat di non aver imitato Gandhi appare una forzatura, anche a prescindere dalle evidenti differenze tra Palestina e India. Mentre ben più calzante, a mio avviso, risulta il paragone tra il leader dell’Anp e Collins, il capo guerrigliero interpretato sul grande schermo da Neeson.

Chi ha visto il film, conosce i fatti. Il comandante delle forze indipendentiste irlandesi, che proprio in quel periodo cominciarono a chiamarsi Irish Republican Army (Ira), era un personaggio tutt’altro che estraneo alla pratica del terrorismo. Fu lui a creare una squadra speciale di killer, paradossalmente soprannominati “i dodici apostoli”, che eliminavano sistematicamente spie e collaboratori delle autorità britanniche. Nella prefazione al libro di Collins La strada per la libertà (Raffaello Cortina Editore) Giulio Giorello ha ricordato come proprio un ex premier israeliano, Yitzhak Shamir, abbia dichiarato che se i palestinesi avessero trovato un condottiero simile, non ci sarebbe stato più un supermarket in piedi nell’intero territorio dello Stato ebraico.

Sta di fatto che, dopo una lunga sequela di attentati e rappresaglie, Collins venne incaricato di negoziare la pace con la Gran Bretagna e accettò di firmare un trattato molto oneroso. L’accordo sanciva la divisione in due dell’isola e metteva il nascente “Stato libero” irlandese in condizioni di permanente sudditanza nei riguardi di Londra. Particolarmente odioso, per i nazionalisti, era il giuramento di fedeltà alla Corona inglese imposto ai deputati del Parlamento di Dublino.

L’ala oltranzista del repubblicanesimo irlandese, guidata da Eamon de Valera, rifiutò il trattato e prese le armi contro la corrente maggioritaria, che l’aveva accettato come male minore. Ne seguì un’atroce guerra civile, in cui Collins dovette combattere contro i suoi ex compagni di lotta: pur conducendo le forze governative alla vittoria, rimase ucciso in un’imboscata. E’ soprattutto a lui, al suo coraggio di cogliere l’occasione offerta dalla storia, che l’Irlanda deve la sua indipendenza. Ma nella memoria storica dell’Ira resta bollato come un personaggio ambiguo, che avrebbe svenduto gli ideali del movimento.

Arafat, a Camp David e nei mesi successivi, tra l’estate del 2000 e l’inizio del 2001, si è trovato di fronte a un dilemma molto simile. Le proposte di Ehud Barak e Bill Clinton erano generose, se considerate dal punto di vista israeliano, ma agli occhi dei palestinesi presentavano molti e macroscopici aspetti difficili da ingoiare.

Quando si ricorda che ad Arafat è stato offerto oltre il 90 per cento dei territori occupati, si dimentica di aggiungere che essi costituiscono solo il 22 per cento dell’ex mandato britannico in Palestina, visto che il 78 è occupato da Israele. Quando si evidenzia che il pieno diritto al ritorno per i profughi sconvolgerebbe completamente, a favore degli arabi, l’equilibrio demografico della regione, bisogna però anche considerare la terribile ferita inflitta ai palestinesi dall’esodo del 1948. E molto si potrebbe aggiungere sullo status degli insediamenti ebraici in Cisgiordania, che Barak si era impegnato a smantellare solo in parte.

Diciamo la verità. Se avesse firmato a Camp David, Arafat avrebbe avuto di fronte a sé la medesima prospettiva di Collins, cioè la guerra civile nel suo campo. La furia scatenata contro gli israeliani dopo la provocatoria passeggiata di Ariel Sharon sul monte del Tempio (o spianata delle moschee che dir si voglia), si sarebbe rivolta contro il leader dell’Anp. E a lui sarebbe spettato il compito ingrato di reprimerla. L’operazione militare di Jenin avrebbe dovuto condurla Arafat, ma senza carri armati ed elicotteri, con un tributo di sangue probabilmente ancora più elevato.

Tra l’altro il ritiro israeliano dal Libano meridionale aveva proprio in quel periodo galvanizzato gli estremisti islamici palestinesi, convinti di poter indurre lo Stato ebraico a cedere con il ricorso al terrorismo, seguendo appunto l’esempio degli Hezbollah filoiraniani libanesi. E oltre ai fanatici musulmani, Arafat avrebbe dovuto affrontare i settori intransigenti del proprio movimento, Al-Fatah, in un conflitto dall’esito terribilmente incerto, ma di sicuro assai doloroso.

Piuttosto che fare la fine di Collins, cioè mettersi contro i suoi e magari venire ucciso da loro, Arafat ha preferito lasciarsi trascinare dagli estremisti, pur di rimanere il simbolo della lotta contro l’occupazione. Gli è mancata l’audacia del guerrigliero irlandese, ma bisogna riconoscere che l’alternativa postagli dagli eventi era davvero diabolica. Credere che toglierlo di mezzo avvicini la soluzione del problema ha un senso solo se si è fautori del Grande Israele, cioè di un progetto incompatibile con qualsiasi prospettiva di pace.

 

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