Quinta Repubblica sotto stress
Antonio Carioti
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Le opinioni dei lettori
Ha vinto ma non ha sfondato, Jean-Marie Le Pen. Se solo 200 mila
voti in più fossero andati a Lionel Jospin, il candidato socialista
sarebbe stato promosso al secondo turno, secondo le previsioni
unanimi della vigilia. E il successo colto dal leader del Fronte
nazionale sarebbe rimasto un dato statistico, importante ma non
clamoroso: in fondo si tratta di un punto e mezzo percentuale in
più rispetto alle presidenziali del 1995. In cifre assolute,
considerando l’aumento notevole dell’astensione (dal 21,6 al 27
per cento), l’avanzata di Le Pen è ancora meno significativa: ha
guadagnato infatti circa 235 mila suffragi.
Sarebbe però un errore anche sottovalutare l’affermazione del
Fronte nazionale e del suo capo carismatico. Va considerato
innanzitutto che il Fn aveva subito di recente una scissione
rilevante (almeno a livello di vertice) e le amministrative lo
avevano visto in calo. Se sommiamo al risultato di Le Pen quello del
suo ex luogotenente Bruno Mégret, l’aumento dell’estrema destra
rispetto a sette anni fa raggiunge il 4 per cento e 900 mila voti.
Inoltre l’analisi per aree geografiche e gruppi sociali dimostra
che una parte corposa di questi consensi viene dai ceti operai e da
ex elettori di sinistra.

La verità è che Le Pen ha compiuto un’efficace operazione di
aggiornamento del proprio messaggio. Ha messo la sordina agli
eccessi xenofobi e si è inserito con successo, portandosi dietro il
suo già cospicuo capitale di voti, nel solco dell’ondata
populista che si manifesta in diverse realtà d’Europa.
È quindi anacronistico e semplicistico raffigurarlo come un
fascista. Non dà voce tanto gli spettri del passato, quanto a forme
di protesta e di chiusura strettamente collegate ai problemi di
oggi, alimentate da fenomeni di portata epocale (l’immigrazione e
la crescita del crimine in primo luogo) e dal crescente discredito
dell’establishment politico.
Del resto non è solo a destra che si manifestano con forza
inquietudine e rigetto del sistema. L’abbandono dello stalinismo
da parte del Pcf coincide infatti con la sua quasi scomparsa
elettorale (3,37 per cento), mentre i tre candidati trotskisti,
ancorati a un rigido oltranzismo ideologico, hanno totalizzato circa
il 10 per cento dei suffragi. Rispetto al 1995 il comunista Robert
Hue ha perso oltre un milione e 600 mila voti, mentre i fautori dell’utopia
rivoluzionaria, apparentemente patetici, ne hanno guadagnati quasi
altrettanti.
Sommando l’estrema sinistra pura e dura, la destra populista
xenofoba e il paladino dei cacciatori Jean Sainte-Josse (4,23 per
cento), il voto di protesta supera un terzo dell’elettorato.
Perfino la legge elettorale a doppio turno, autentica ghigliottina
per le forze antisistema, potrebbe non bastare più a garantire un
assetto stabile al quadro politico.
L’impressione è che i francesi vivano con angoscia l’indebolimento
della politica e l’impotenza dei governi che derivano dall’apertura
dei mercati e delle frontiere. La stessa esperienza quinquennale
della coabitazione, con un presidente gollista e un primo ministro
socialista, ha tolto credibilità alla destra moderata come alla
sinistra riformista, apparse sempre più omologate e nei fatti prone
alla volontà di poteri sottratti al controllo popolare, come i
grandi gruppi finanziari o le istituzioni europee.
La candidatura indipendente dell’ex ministro socialista
Jean-Pierre Chevènement, sceso in campo in nome della sovranità
nazionale, cercava appunto di intercettare questi umori. Ma il
risultato più eclatante della sua iniziativa è stato togliere
ossigeno a Jospin e determinarne il naufragio.
Rispetto al 1995, il premier dimissionario ha perso 6 punti e mezzo
e quasi due milioni e 500 mila voti. Dopo cinque anni di guida del
governo, con risultati relativamente apprezzabili in campo
economico, si tratta di una cocente umiliazione, cui Jospin ha
reagito con un dignitoso abbandono. Ora i socialisti devono
sostenere al secondo turno il loro eterno rivale Jacques Chirac, per
giunta coinvolto pesantemente (anche se protetto dall’immunità
presidenziale) in alcune inchieste sulla corruzione.
D’altronde, se la sinistra socialista piange, la destra liberale
non ha proprio alcun motivo per ridere. In fondo si può calcolare
che i voti persi da Jospin siano andati in gran parte a Chevènement,
che nel 1995 non era candidato, anche se forse l’ex ministro, con
il suo richiamo allo statalismo tradizionale, ha raccolto consensi
anche nell’area gollista. Ma comunque a destra l’emorragia è
stata ben maggiore.
Dopo sette anni di permanenza all’Eliseo, a Chirac sono venuti
meno “solo” 650 mila voti. Ma nel 1995 gli altri due candidati
di tendenza moderata - Edouard Balladur e Philippe de Villiers -
raccolsero sette milioni di suffragi. Quest’anno invece gli
scoloriti François Bayrou, Alain Madelin, Corinne Lepage e
Christine Boutin si sono fermati a circa tre milioni. In tutto
mancano all’appello oltre quattro milioni e 650 mila voti, mentre
l’estrema destra, come abbiamo visto, non ne ha guadagnato neppure
un milione.
A questo punto l’esito vittorioso del ballottaggio, per Chirac,
appare scontato. Ma alle elezioni legislative del prossimo giugno lo
schieramento che ha nel presidente il suo campione non parte in una
condizione ideale, anche perché la crescita del Fronte nazionale
inasprisce la conflittualità tra la destra liberale e quella
populista.
Impossibile prevedere che cosa accadrà. Ma certo i meccanismi
istituzionali della Quinta Repubblica, capolavoro del generale
Charles de Gaulle, non hanno mai scricchiolato tanto.
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