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Francia, se prevale la vocazione suicida



Giancarlo Bosetti



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“Non”. Un colossale e nasale “non” a caratteri cubitali. Così Libération rende efficacemente l’idea del raccapriccio per il risultato che manda al ballottaggio Le Pen e liquida Jospin e il suo governo. Raccapriccio per il successo di una destra fascista, xenofoba, antieuropeista, omofobica, in una parola: impresentabile. Impresentabile al punto che nella antifascista Francia non è mai entrata in gioco neanche quando, spesso, avrebbe fatto comodo alla destra democratica per battere la sinistra.

Raccapriccio per questo e doppio raccapriccio per il suicidio di una sinistra che raccoglie intorno alle liste trockiste e comuniste intorno al sedici per cento, più dei voti andati allo stesso Jospin, senza contare il 5% abbondante di un uomo che proviene dal governo socialista come Chevènement. Voti anche loro dispersi, anche se molto al di sotto delle aspettative dell’ex ministro degli interni. Il tutto si aggiunge a un astensionismo record che ha innalzato il risultato del capo del Fronte nazionale a pochi decimi di punto dal presidente uscente. Una Francia dunque “ferita e umiliata”, come scrive il direttore del Monde e una Europa sconcertata che si interroga sul suo futuro. La sorpresa Le Pen dovrebbe fermarsi qui, dal momento che non vi sono dubbi sulla convergenza maggioritaria di voti su Chirac al secondo turno (con un risultato stimato di poco sotto l’80%), ma ce n’è abbastanza per mettersi le mani nei capelli e darsi da fare intorno ad alcune pericolose disfunzioni delle nostre democrazie.

Già si accumulano molti elementi di analisi sulle ragioni di questa disfatta (tale è per tutti quanti hanno care le sorti delle istituzioni liberali) - i vizi della coabitazione, la usura del sistema costituzionale francese, la apatia e l’indifferenza del corpo elettorale, la scarsa visibilità di una alternativa tra due poli, la grande paura dell’immigrazione, l’incubo dei conflitti etnici, la demagogia sull’ordine pubblico, le nostalgie nazionaliste e tutto quel che volete - ma niente è in grado di spiegare questo risultato quanto la determinazione che la sinistra ha messo nel dividersi, l’impegno profuso da tutti gli attori della disgregazione nel neutralizzare il potenziale elettorale della “gauche”. E questo è l’aspetto che ci parla di un guaio largamente condiviso dai sistemi politici democratici, e ovviamente anche dal nostro: la precarietà delle coalizioni (badate, non da una parte sola, ma sia a destra che a sinistra).

La capacità di costruire coalizioni, di mantenerle unite in modo almeno passabile, di attraversare senza sfasciarsi sia i cicli di opposizione che quelli di governo è la virtù che decide in ultima analisi del risultato. A un livello ancora inferiore, minimale, di “incollaggio” dei fattori politici in campo, sembra risultare determinante la capacità di neutralizzare soggetti capaci di disperdere quote piccole ma determinanti per il risultato. Il non aver saputo intercettare fenomeni come l’ascesa di una Arlette Laguiller, di un Olivier Besançenot o per altri versi di un Jean-Pierre Chevènement, ha provocato il terremoto.

Non è una realtà tanto diversa da quella per cui la maggiore abilità manovriera dei repubblicani americani nel gestire il fenomeno dell’estrema destra Pat Buchanan (rispetto a quella mostrata dai democratici nel gestire, all’estremo opposto, Ralph Nader) ha influito in modo determinate sulla pur contrastata vittoria di Bush. E non siamo lontani neppure, come a questo punto dovrebbe essere evidente, dal confronto tra la tenuta in Italia dell’alleanza di Berlusconi con Bossi e la rottura dell’Ulivo con Bertinotti.

Certo le elezioni presidenziali a due turni, che hanno molti altri assodati vantaggi (come per esempio quello di rimediare ai guai combinati dal primo turno con il secondo, il che appunto avverrà in ogni caso) non si prestano molto ad aggregare i candidati al primo turno, data la natura squisitamente personale e proporzionale del primo dei due voti. E quindi non c’è ragionamento che possa sottrarci a una severa meditazione sul peso crescente che hanno sulla opinione pubblica di un paese ricco, istruito e bene informato, argomenti nazionalisti e xenofobi, ovvero micidiali semplificazioni che portano con sé un carico avvelenato e pericolosissimo di violenza e di arbitrio.

Ma non c’è dubbio che le geometrie degli schieramenti in battaglia delle formazioni politiche, l’abilità di utilizzare (direttamente e, più spesso, indirettamente) a beneficio di un candidato o di una coalizione la presenza di attori “irregolari” sulle ali diventerà sempre più influente su risultati che si decidono per poche centinaia di migliaia di voti. Nessuno è al riparo: nemmeno i sistemi elettorali “perfetti”, come quello americano - l’abbiamo visto - o quello inglese (per lunghi anni in balia di un partito socialdemocratico, quello di Roy Jenkins, non ultima ragione del lungo ciclo thatcheriano a causa della dispersione di potenziali voti laburisti).

La geometria entra a pieno titolo tra le virtù necessarie al leader politico. A saperla usare si evitano un sacco di guai. Qualche volta, come questa, finisce per contare di più di tante raffinate arti di governo.

 

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