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Paura dell’Italia di Berlusconi? Sì, ma attenti agli eccessi



Marc Lazar



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Questo articolo è apparso sul numero di Marzo-Aprile 2002 di Esprit. Marc Lazar è docente di Scienze Politiche presso l’IEP (Institut d’Etudes Politiques) di Parigi.

La Francia soffre per l’Italia. Da noi, lo sappiamo bene, questo paese suscita forti passioni. Sono pochi i francesi che rimangono insensibili alla sua inventiva, al suo patrimonio culturale o alla sua estetica, anche se in una sua opera appassionante Yves Hersant ha dimostrato che i viaggiatori francesi tra il 16° e il 18° secolo erano spesso intrisi di pregiudizi e sprezzanti nei confronti degli italiani. Tuttavia, cantare la bellezza della penisola, soccombere al suo fascino, tessere le lodi dei suoi abitanti significa oggi esprimere una vera e propria infatuazione, che rischia però a volte di trasformarsi in un esercizio di stile quasi obbligato, per non dire stucchevole, nella misura in cui si ritiene di attestare in questo modo il buon gusto e la distinzione culturale di colui che la esprime. In ogni caso, in Francia l’Italia letteraria, intellettuale e artistica è ben conosciuta; essa suscita un interesse quasi costante e aspettative permanenti, ad esempio per quanto riguarda il cinema, di cui abbiamo prima deplorato il declino e colto invece più di recente alcuni cenni di rinascita.

Molto meno conosciuta è invece la politica italiana. Nei rari momenti in cui la si è ricordata durante questi ultimi venti anni è stato per ergerla ad esempio o per indignarsene. Questo è il melanconico scotto che paga l’Italia: l’idealizzazione di cui è permanentemente oggetto alimenta ricorrenti delusioni. Ad esempio, l’azione dei giudici dell’operazione mani pulite sembra aver ispirato alcuni dei nostri giudici di istruzione, e ha consentito ad alcuni dei nostri editorialisti di sperare in un’analoga operazione di pulizia in casa nostra. Ancora, nel 1996 la vittoria di Romano Prodi è stata da molti salutata come il trionfo della sinistra (cosa non del tutto vera), il segnale di un imminente cambio nei rapporti di forza in Europa occidentale. Nel 1994, l’elezione di Silvio Berlusconi aveva già suscitato una forte emozione e alimentato i peggiori timori. A quell’epoca ci si preoccupò di un eventuale ritorno del fascismo e i rischi di una telecrazia venivano segnalati da brillanti spiriti che tacquero invece due anni dopo, quando lo stesso Cavaliere, pur sempre a capo del suo impero televisivo, venne nettamente battuto dalla coalizione di centrosinistra dell'Ulivo.

Il ritorno di Silvio Berlusconi al potere nel maggio 2001 ha immediatamente fatto risorgere lo spettro del fascismo. Trasmissioni televisive e radiofoniche, dossier sui quotidiani, manifestazioni, petizioni, prese di posizione degli editori in occasione del Salone del libro di Parigi, dove l’Italia è quest’anno l’invitata d’onore, si sono moltiplicate e hanno trasformato l’Italia, dopo l’Austria, nel nuovo malato d’Europa. Vedremo poi che esistono veri motivi di preoccupazione per la penisola. Ma esprimere giudizi perentori, dedicarsi a facili giochi di parole del genere Berlussolini (secondo il titolo dell’articolo di Jacques Attali, nell’Express del 24 gennaio 2002), sviluppare ragionamenti incisivi che danno vita a condanne senza appello sembra essere poco operativo e addirittura controproducente. Questi atteggiamenti segnalano una cattiva conoscenza delle realtà transalpine e una propensione ad affrontarle non di per se stesse, ma alla luce delle poste in gioco che caratterizzano la vita politica francese, oppure richiamandosi a riferimenti storici molto discutibili. Capire anziché giudicare rimane quindi un’impellente necessità. Ciò presuppone tuttavia l’ammissione che l’Italia sta affrontando alcuni problemi specifici che, tra l’altro, rispecchiano alcune sfide lanciate nell’insieme dell’Unione europea.

Lezioni italiane

Per molti aspetti la situazione italiana è unica in Europa. Il paese vive una crisi politica senza precedenti. Nello spazio di alcuni anni sono scomparsi i principali partiti che all’indomani della seconda guerra mondiale strutturavano la vita pubblica, facevano vivere nel bene e nel male le istituzioni, selezionavano la maggioranza delle élites, plasmavano le culture politiche e le identità collettive, garantivano più o meno facilmente la modernizzazione del paese, soddisfacevano non senza difficoltà le aspirazioni della società e rappresentavano il paese all’estero: exit la Democrazia cristiana (DC), il Partito comunista italiano (PCI) e anche il Partito socialista italiano (PSI), per non parlare della miriade di piccole formazioni il cui gioco complicato deliziava gli osservatori e i politologi.

Scomparsi anche quei leader politici che, inossidabili, tenevano la scena della teatrocrazia italiana. Alcuni ostentavano una raffinata eleganza, un’etica senza falle e un’ampiezza di vedute poco comune; altri, soprattutto negli anni ’80, sprofondavano nella volgarità e si dedicavano anima e corpo alle delizie dell’arricchimento e della corruzione, e tutti parlavano quella lingua strana, esoterica, piena di citazioni latine o di riferimenti libreschi, il politichese, schernito da Pasolini. Sono nati nuovi partiti: la Lega Nord, Forza Italia, Alleanza Nazionale (che trae origine dall’ex Movimento sociale italiano), i Democratici di sinistra (DS, che provengono dal PCI), i Democratici (il partito di Romano Prodi), e così via.

Ha preso piede un linguaggio semplice, per non dire semplicistico, degli slogan shock, direttamente provenienti dal marketing e delle frasi sferzanti. Con il cambiamento della legge elettorale, si sono costituite delle coalizioni e dei raggruppamenti: la Casa delle libertà organizza il centrodestra, l’Ulivo il centrosinistra, avendo al suo interno la Margherita, (composta da partiti centristi, alleati con i DS), e il Girasole (formato dall’unione dei Verdi e degli ex socialisti)… Altri responsabili sono saliti alla ribalta, provenienti da ambienti diversi dalla politica, quali Silvio Berlusconi, Romano Prodi, Lamberto Dini, Carlo Azeglio Ciampi, oppure emersi in prima linea grazie all’opportunità offerta da questo grande rinnovamento della classe politica, come Gianfranco Fini, Massimo D’Alema o Francesco Rutelli. Nessun altro paese dell’Unione europea ha conosciuto un tale sconvolgimento del suo sistema politico, una simile metamorfosi delle sue componenti, e un tale rovesciamento di orientamento dei suoi elettori.

La situazione dell’Italia è eccezionale anche perché le forze politiche che si affrontano rappresentano delle coalizioni “anomale”. Oltre ad alcuni piccoli gruppi nati dalla disgregazione della Democrazia Cristiana, il centro destra è formato da Forza Italia, la formazione di Berlusconi, dagli ex fascisti capeggiati da Gianfranco Fini e dalla Lega Nord, partito di tipo etno-regionalista. Questa coalizione è senza uguali in Europa occidentale. Sull’altro fronte si presenta una configurazione a sua volta molto originale, che raggruppa delle forze di centro e degli ex comunisti. Si fa fatica a immaginare in Francia un’alleanza che andrebbe dall’UDF al PCF, passando dal PS, e a cui participerebbero Lionel Jospin, Robert Hue, Daniel Cohn-Bendit, Jean-Pierre Chevènement, François Bayrou, Jean-Claude Trichet, Jacques Delors e alcuni altri…

In nessun altro paese dell’Unione europea gli ex comunisti e gli ex fascisti occupano un posto di quel genere. Infine, è evidente un’altra peculiarità italiana che consiste nella stessa personalità di Berlusconi. Nessun proprietario di gruppo privato, che peraltro è leader nel settore della comunicazione, assume funzioni di potere dello stesso genere in nessun altro paese europeo. Immaginiamo, per fare un esempio, che Jean-Marie Messier (l’equivalente di Murdoch in Francia, n.d.t.) si lanci in politica e sia eletto Presidente della Repubblica…

L’inventario delle specificità italiane potrebbe durare ancora a lungo. Ma la disaffezione nei confronti della politica e delle istituzioni tradizionali, la ridefinizione del potere giudiziario, il peso dei media, la crisi della rappresentanza non sono appannaggio della penisola. Al contrario, queste diverse dimensioni della crisi che colpisce l’Italia si ritrovano in quasi tutte le democrazie dell’Europa occidentale. Inoltre, la ricomposizione delle forze politiche non appartiene solo all’Italia. Ad eccezione dell’Inghilterra, a causa delle specificità del suo sistema elettorale, nella maggior parte degli altri paesi europei né la destra né la sinistra possono vincere le elezioni da sole: esse vanno quindi alla ricerca di alleanze, aggiustano costantemente le loro strategie e modificano i loro programmi. Infine, una parte degli elettori chiede spesso novità in politica, in quanto prova disgusto nei confronti della classe politica tradizionale, e questa richiesta travalica le frontiere dell’Italia.

Una vittoria annunciata

Il risultato delle elezioni del maggio 2001 non è stato una sorpresa. Silvio Berlusconi, molto abilmente, parla di plebiscito a suo favore, opinione che, stranamente, alcuni analisti francesi a lui ostili confortano in pieno, quando descrivono il suo percorso come una irresistibile ascesa. Per la verità, non vi è stato un maremoto berlusconiano.

Per capire bene il risultato di queste elezioni, bisogna tenere a mente una delle sottigliezze della politica transalpina. Per semplificare la descrizione di una legge elettorale molto complicata possiamo dire che gli italiani eleggono il 75% dei loro deputati con il sistema maggioritario a turno unico, mentre il restante 25% viene eletto con il sistema proporzionale. Ebbene, al maggioritario la Casa delle libertà ha ottenuto un po’ più del 45% dei voti e l’Ulivo un po’ meno del 44%, con una situazione di quasi parità (630.000 elettori in più per la Casa delle libertà, su circa 33 milioni di voti espressi). Nel proporzionale invece, l’insieme delle componenti della Casa delle Libertà ha raccolto oltre il 49% dei voti, contro il 35,6% per l’Ulivo (e il 5% per Rifondazione comunista). Ma questi risultati del centro destra sono inferiori a quelli raggiunti nel 1996, dove i diversi partiti che componevano il Polo delle libertà avevano raccolto oltre il 42% dei voti e la Lega, che a quell’epoca non era alleata del Polo, aveva raggiunto il 10,1% (vale a dire un totale del 52,2%). Senza attardarci su queste cifre e senza analizzarle in dettaglio, dobbiamo tenere a mente che il centro destra ha vinto più nettamente in termini di rappresentazione parlamentare che in numero di voti.

Silvio Berlusconi ha vinto le elezioni prima di tutto grazie alle debolezze e agli errori della coalizione di centrosinistra E debolezze ed errori sono stati tanti. L’Ulivo, prima di tutto, è stato vittima della sua instabilità governativa. In cinque anni, gli italiani hanno visto sfilare tre presidenti del Consiglio: Romano Prodi (1996-98), Massimo D’Alema (ottobre 1998-aprile 2000) e Giuliano Amato (primavera 2000-maggio 2001). E’ molto, per una coalizione che aveva affermato di voler fare della stabilità di governo uno dei principi della legislatura.

Il centrosinistra ha sofferto della politica di rigore realizzata in Italia dal 1992, ancora prima dell’arrivo di Prodi. Per tutto un decennio, tutti i governi che si sono succeduti, ad eccezione di quello di Silvio Berlusconi nel 1994, hanno tagliato drasticamente la spesa pubblica, risanato le finanze, bloccato i salari, aumentato le tasse - addirittura imponendo una tassa speciale per l’Europa… Per gli italiani il centrosinistra è quindi sinonimo di austerità. Tanto più che esso non ha saputo valorizzare il suo pur apprezzabile bilancio di modernizzazione economica e sociale -in particolare l’avvio di una ambiziosa riforma dello Stato - e si è ritrovato privo di un suo progetto. In effetti, uno degli obiettivi del governo Prodi è stato quello di far entrare l’Italia nell’Euro. Esso è stato capace di mettere in sinergia il padronato, i sindacati e l’opinione pubblica per raggiungere questo obiettivo. Ma al termine della “qualificazione” per Eurolandia, per riprendere il vocabolario in uso dall’altro lato delle Alpi, il centrosinistra si è trovato a corto di idee e incapace di ritrovare un secondo slancio.

Inoltre, l’Ulivo è stato roso dalle sue divisioni interne, con cui deve ancora combattere e che, dopo la sconfitta, non hanno fatto altro che acuirsi. Esso soffre anche di un forte deficit di leadership. Nel 2001 si è venuta a creare una situazione inverosimile, dato che il Primo ministro dell’epoca, Giuliano Amato, è rimasto in seconda linea nella campagna elettorale, lasciando le redini non al dirigente del principale partito dell’Ulivo, i DS, bensì al sindaco di Roma, Francesco Rutelli, scelto perché ritenuto telegenico e in grado di rappresentare il nuovo. Un po’ come Al Gore negli Stati Uniti, in lotta per la successione a Bill Clinton, Rutelli è stato costretto a fare implicito riferimento al bilancio del governo uscente senza tuttavia difenderlo completamente, per potersi presentare come un uomo diverso. Ne è venuta fuori una confusione che ha contribuito a destabilizzare l’elettorato indeciso. Al contempo, Rutelli ha dovuto - e deve ancora oggi - imporsi a partiti che non si riconoscono in lui, avendolo scelto per mancanza di meglio.

Infine, il centrosinistra ha perso perché si è chiuso in una strategia difensiva. Dopo la sconfitta alle elezioni regionali del 2000, l’Ulivo ha ritenuto più o meno consapevolmente che il risultato delle successive elezioni legislative fosse ormai scritto. Massimo D’Alema ha deciso di dare le dimissioni pur non essendovi obbligato da nessuno, e il centrosinistra, avendo fatta propria l’idea della sconfitta, si è fissato uno obiettivo minimo: salvare il salvabile anziché sviluppare un’azione di attacco. Questa sindrome della sconfitta, prima ancora della battaglia, è stata particolarmente forte nelle forze di sinistra dentro l’Ulivo, e in particolare nei DS, impotenti a dare una soluzione al dilemma cui nessuna sinistra riformista sfugge oggi in Europa: come attrarre una parte delle classi media dinamiche senza perdere il sostegno delle categorie popolari?

Berlusconi, un attore politico

Le elezioni del maggio 2001 registrano quindi una sconfitta del centrosinistra. Ma rappresentano anche una innegabile vittoria di Silvio Berlusconi.
Dopo la sua sconfitta del 1996, numerosi osservatori ritennero che questo uomo fosse finito, per lo meno dal punto di vista politico. Il suo passaggio in politica sembrava quindi simile a una meteora. Al contrario, egli ha saputo rilanciarsi grazie alla sua testardaggine, ma anche a causa dei calcoli di Massimo D’Alema. In quanto Presidente del Consiglio, quest’ultimo ha tentato di intraprendere una riforma della Costituzione, conferendo a Berlusconi il ruolo di principale interlocutore dell’opposizione. Egli tentava di gettare le basi di un sistema politico rinnovato, fondato su due grandi forze, la sinistra, che pretendeva dirigere, e la destra, che sarebbe stata posta sotto la guida di Silvio Berlusconi. Egli certamente sperava che gli italiani non si riconoscessero in questo uomo a causa dei suoi eccessi, dei suoi guai con la giustizia e dell’oggettivo conflitto che esiste tra i suoi interessi privati e la sua ambizione di diventare un grande uomo di Stato. Era quindi indispensabile evitare di risolvere quest’ultima questione con una legge, per poterla poi usare come risorsa politica contro di lui…

Approfittando di queste opportunità, Silvio Berlusconi ha messo di nuovo in piedi una coalizione politica che si riteneva non avesse più futuro da quando, nel 1994, la Lega Nord aveva rotto la propria alleanza con Forza Italia, Alleanza nazionale e i piccoli gruppi democratico-cristiani (CCD-CDU), provocando la caduta del governo di Silvio Berlusconi. Con pazienza, usando tutti i mezzi, Silvio Berlusconi è riuscito, dal 1999-2000, a ricostruire questa coalizione e a farsi riconoscere come suo leader incontestato. Tanto più che nel frattempo egli ha rafforzato il suo partito, Forza Italia. All’inizio Forza Italia era una semplice appendice della Fininvest, il suo gruppo di affari, ma nel tempo questo partito-impresa ha consolidato le sue strutture, si è radicato nel paese, nel nord e nel sud, e funziona ormai come struttura di accoglienza per tutti coloro che desiderano intraprendere una carriera pubblica. Esso ha più di 312.000 tesserati e più di 10.000 eletti locali. Nel maggio 2001 è diventato il primo partito italiano, con quasi il 30% dei voti.

Ma c’è di più. Dal 2000 in poi Berlusconi è riuscito ad imporre i suoi temi politici ai suoi avversari: la sicurezza, il lavoro, le tasse, l’immigrazione sono stati inseriti nell’agenda politica. Su tutti questi argomenti, il centrosinistra è andato a rimorchio, ridotto a reagire alle proposte di Berlusconi. Inoltre, Berlusconi ha dato prova di una grande abilità tattica, rifiutando sistematicamente di affrontare Rutelli in un dibattito televisivo, affermando di preferire un dialogo con Massimo D’Alema, leader del principale partito del centrosinistra, o con Giuliano Amato, capo del governo. In questo modo evitava una situazione pericolosa per se stesso, pur segnalando a coloro che non l’avessero notato che i suoi avversari erano incapaci di stringersi intorno ad un leader.

Non è quindi tanto come esperto di comunicazione che Berlusconi ha vinto le elezioni, ma prima di tutto come uomo politico, vero architetto di una coalizione, avendo a disposizione un partito potente, capace di mobilitare gli elettori. E’ ovvio che i suoi innegabili talenti di comunicatore gli hanno concesso di segnare ulteriori punti. Ma tutti gli studi indicano che non vi è una evidente correlazione tra la visione delle sue reti e il voto.

Ma al di là delle defaillances dei suoi avversari e delle sue capacità, il successo di Silvio Berlusconi sta nell’aver saputo unire due grandi categorie sociali. Il primo zoccolo su cui si basa è l’Italia dei piccoli imprenditori, in particolare nel nord (Lombardia e Veneto, mentre i dirigenti d’impresa dell’Italia centrale, in Emilia Romagna e in Toscana sono ancora influenzati dai democratici di sinistra anche se si incominciano a notare dei cambiamenti). Si tratta di un’Italia dinamica, moderna, che ha fatto del lavoro accanito il proprio valore centrale, l’Italia di coloro che si sono fatti da soli o che, più esattamente, pensano di essersi fatti da soli, mentre hanno invece beneficiato per numerosi anni del sostegno della Democrazia cristiana.

Questi gruppi sociali ritengono, a torto o a ragione, di essere stati strumentalizzati e disprezzati. Essi intendono prendersi una sorta di rivincita sociale sulle forze politiche e le élites tradizionali, siano esse economiche, sociali, politiche o culturali. Essi ostentano la loro ostilità verso il grande padronato, le grandi banche, la vecchia classe politica, i comunisti, i sindacati, le regole troppo vincolanti imposte da Roma o da Bruxelles. Sono certamente europeisti, nella misura in cui l’Europa va a loro beneficio, e solcano il mondo per esportare, vendere o impiantare le loro fabbriche, utilizzando una manodopera a buon mercato. Ma rimangono diffidenti nei confronti dello straniero: continuano quindi a riconoscersi in alcune istituzioni che in passato davano un senso alle cose, come la Chiesa cattolica, anche se non la frequentano più assiduamente come prima, fanno riferimento a valori tradizionali, che trasgrediscono allegramente nella loro vita quotidiana, e ostentano un forte attaccamento al loro territorio, alle loro radici. Fino ad poco fa, questa Italia era quella della Lega Nord. Silvio Berlusconi oggi vi trova una gran parte della sua audience. Ma questi capi d’impresa non gli firmano una cambiale in bianco; vedono in lui l’opportunità di far andare avanti i loro interessi, di avere uno Stato meno invadente ma più efficace, di poter lavorare, consumare, arricchirsi liberamente, senza troppo preoccuparsi delle regole e, forse, andare a costituire la nuova élite che prenderà il posto delle vecchie classi dominanti.

Il secondo zoccolo è costituito dalle persone anziane (l’Italia è il paese d’Europa con il più basso tasso di crescita demografica), le persone con un basso livello di istruzione che leggono pochissimo i giornali, non si interessano di politica, guardano molto la televisione e sono preoccupate per la presenza degli immigrati, per le trasformazioni della società o per la globalizzazione.

Silvio Berlusconi ha saputo parlare a queste due Italie, ed è proprio per questo motivo che egli è tutto fuorché un epifenomeno. Mettendo in sordina il suo percorso sinuoso che, in passato, ha beneficiato in particolare del sostegno e delle elargizioni dell’establishment socialista, egli si presenta come il prototipo della modernità, l’outsider di fronte ai notabili e ai potenti, e come il difensore della tradizione, colui che invoca il ruolo della religione, della famiglia e della morale più conformista possibile per garantire la coesione della società. La popolarità di Berlusconi consiste in questa capacità di rispondere alle aspirazioni e alle apprensioni di questi due elettorati, anche se in futuro, ora che è capo del governo, le decisioni che prenderà non potranno soddisfare in uguale misura queste due categorie. Tanto più che la sua stessa popolarità è ben lungi dal suscitare l’unanimità. Al di là del rifiuto viscerale che provoca tra i suoi oppositori, tutti sondaggi dal 1994 ad oggi dimostrano che gli italiani che votano per lui gli riconoscono dinamismo, modernismo, lo considerano l’uomo nuovo, ritengono che sia un perseguitato, ma non si fanno alcuna illusione sulla sua onestà. E’ questo l’indizio di una delle fragilità di Silvio Berlusconi.

Primo bilancio

Che dire dell’azione governativa di Berlusconi da quando è al potere, e cioè dall’11 giugno 2001? Dobbiamo fare due premesse, per evitare di dipingere il Presidente del Consiglio come un essere spregevole e stupido, o come un attore onnipotente. Silvio Berlusconi è oggi un uomo che ha acquisito una certa esperienza politica. Nel 1994, quando arrivò al potere, non sapeva niente della politica, delle sue abitudini, dei suoi costumi. Ha fatto quindi una gaffe dietro l’altra, si è innervosito, si è anche sfinito nel subire le derisioni o i sarcasmi della classe politica e dei commentatori, facendosi prendere in giro dal Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, un astuto democristiano… Benché commetta ancora diverse topiche, egli ha meglio assimilato le regole dell’universo nel quale si muove. In sintesi, Silvio Berlusconi dispone di strumenti efficaci (Forza Italia e le sue televisioni), è diventato un responsabile politico a tutto tondo che agisce come un politico e sa portare avanti le sue battaglie.

Inoltre, diversamente dall’impressione che se ne può avere leggendo la stampa francese, Berlusconi non è solo. Egli deve evidentemente tenere conto del Presidente della Repubblica, delle forze sociali, dei media, etc. Ma deve fare i conti anche con i suoi alleati. Silvio Berlusconi presiede, giova ricordarlo, un governo di coalizione fortemente diviso. Sull’Europa, ad esempio, i sostenitori molto presenti nel suo partito o all’esterno di esso, all’interno o all’esterno del governo, devono fare i conti con gli euro-scettici, o per lo meno con persone che hanno una visione più liberale dell’Europa, o che le sono addirittura ostili, come i responsabili della Lega nord. Le divisioni sono altrettanto profonde per quanto attiene la liberalizzazione dell’economia: i fautori di un metodo rapido, che propongono di fare l’elettroshock alla società italiana devono tenere conto delle persone che vogliono mantenere alcuni aspetti dello stato sociale. E il costume è un altro punto di divergenza. Nella maggioranza, alcuni tradizionalisti avrebbero desiderato rimettere in discussione la legge del 1975 sull’interruzione di gravidanza, ma il loro desiderio non è stato esaudito. In effetti, come avviene in qualsiasi coalizione, gli alleati di Silvio Berlusconi difendono il loro orticello e pensano solo a rafforzarsi: devono quindi marcare le differenze per esistere.

Tuttavia, Silvio Berlusconi non ha perso tempo da quando si è insediato alla Presidenza del Consiglio. Ecco le sue principali realizzazioni: detassazioni delle eredità sul patrimonio, legge per il rimpatrio dei capitali esportati clandestinamente, abolizione delle sanzioni previste per il falso in bilancio delle imprese, restrizione degli scambi con l’estero per le rogatorie giudiziarie e alcune altre misure a favore delle piccole imprese. Cinque progetti sono in fase di elaborazione: un controllo severissimo dell’immigrazione, un progetto che faciliti le procedure di licenziamento, una riforma della sicurezza sociale e delle pensioni (che ha immediatamente dato luogo a scioperi) una modifica dell’organizzazione della magistratura, che significherebbe in particolare mettere la giustizia al passo; infine, una riforma del sistema dell’istruzione che prevede in particolare una ripartizione più favorevole al privato.

Come interpretare l’insieme di questa politica governativa? Uno dei motori dell’azione di Silvio Berlusconi è la soddisfazione del proprio interesse e di quello del suo entourage. Una prova evidente se ne è avuta quando il Presidente del governo si oppose inizialmente al mandato di arresto europeo, che egli interpretava come una potenziale minaccia ai suoi affari: la fermezza dei quattordici altri paesi europei lo ha costretto a fare dietro front.

Berlusconi ricorre poi ad una retorica liberale. Afferma di voler liberalizzare l’Italia dal punto di vista economico, uscire dallo Stato assistenziale, abolire le grandi conquiste sindacali degli anni ’70. Il messaggio fu lanciato con grande forza durante le campagne elettorali. E’ meno netto ora che Berlusconi è al potere. Da un lato perché Berlusconi vede il beneficio che può trarre nel piazzare i suoi vassalli in tutte le strutture pubbliche o parastatali. D’altro canto, egli teme i conflitti sociali che nel 1994 sono stati in parte all’origine della sua caduta. Infine perché il sud dell’Italia, che ha votato in massa per la Casa delle libertà, si aspetta molto dagli aiuti pubblici e dalle sovvenzioni statali. Tuttavia, alcuni provvedimenti neoliberisti sono il prezzo da pagare per garantirsi il sostegno del suo primo pilastro elettorale. I piccoli imprenditori aspettano degli atti. La Confindustria - attualmente diretta da un uomo di Berlusconi, Antonio d’Amato, un piccolo imprenditore del sud del paese - continua a dirlo con virulenza: il suo modello è l’Inghilterra di Margaret Thatcher; il suo nemico è la Francia di Jospin.

Accanto a questo liberismo Berlusconi si richiama al conservatorismo morale. Quando lo si sente invocare la Chiesa, la religione, la famiglia o deplorare il declino dei valori, si ha a volte l’impressione di assistere a qualcosa che assomiglia ad una volontà di restaurazione di un ordine morale minacciato.

Infine, Berlusconi sfrutta una sorta di soprassalto nazionalista che si manifesta in Italia da una decina di anni a questa parte. All’origine di questo fenomeno ci sono due sfide cui l’Italia deve far fronte: i progetti di secessione della Lega Nord, e quello che in Italia viene chiamato lo “shock migratorio”, da quando questo paese è diventato un paese di immigrazione, con tutti i problemi che questo pone in termini di integrazione. Risultato: l’Italia si interroga sulla sua identità: che cosa significa essere italiano? Come definire la nazione italiana? In che cosa consiste l’italianità? Questi dibattiti, che agitano l’Italia da quando esiste, sono di nuovo molto di attualità. Le trasmissioni televisive o radiofoniche e i giornali trattano questo tema all’infinito, le ricerche storiche si moltiplicano, con il loro strascico di controversie, le polemiche pubbliche s’infiammano.

I protagonisti politici se ne occupano e questo si traduce negli atteggiamenti di ostentazione che Silvio Berlusconi adotta. Egli pretende di ridare all’Italia il posto che le è dovuto nel mondo e difende le sue posizioni nelle istituzioni europee. Sembra che non siano mai state vendute tante bandiere come in questo periodo. Non si grida più “Forza Italia!” solo negli stadi; la suscettibilità nazionale è a fior di pelle, soprattutto nei confronti della Francia e della Germania. E’ d’altronde la ragione per cui le recenti dichiarazioni di Catherine Tasca hanno suscitato un reale malessere, a volte fin dentro la sinistra italiana. Berlusconi sfrutta benissimo la situazione. Come una novella Giovanna d’Arco che parte in guerra dopo aver sentito delle voci, egli si presenta come l’uomo della provvidenza chiamato a guidare una crociata contro i comunisti, i giudici e la classe politica corrotta, per ridare vigore ad un’Italia fino ad oggi beffeggiata, a suo dire, dal resto dell’Europa. E’ d’altro canto sintomatico che abbia pensato di chiamare il suo partito “Forza Italia!”. Pensiamo all’impressione che produrrebbe da noi un gruppuscolo sostenitore del “sovrano” che decidesse di chiamarsi “Allez les Bleus”, (il colore della squadra di calcio francese, l’equivalente dei nostri “assurri” n.d.t.) oppure “Allez la France!”…

Silvio Berlusconi forever?

Silvio Berlusconi rimarrà certamente a lungo al potere, tanto più che la sinistra è un campo di macerie. Questa prospettiva è densa di rischi. Rischi sociali, prima di tutto. E’ appena iniziata una mobilitazione sindacale contro la modifica delle norme sui licenziamenti o sulle pensioni. Ebbene, proprio per l’inconsistenza dell’opposizione, i sindacati, e soprattutto la CGIL, la principale confederazione vicina ai DS ma gelosa della propria autonomia, può soccombere alla tentazione di rappresentare l’alternativa al governo, un po’ come negli anni ’70. Questa deriva è purtuttavia limitata. I sindacati sono divisi e, benché potenti - più di 10,5 milioni di iscritti, soprattutto nel pubblico impiego - sono composti per quasi il 48% da pensionati e sono praticamente assenti dalle piccole imprese.

Esistono tuttavia altre minacce sociali per Berlusconi. Uno scontro con il padronato sull’immigrazione non è da escludere. Il capo del governo intende promulgare una legislazione restrittiva per placare le preoccupazioni suscitate dall’immigrazione e soddisfare la Lega nord che ha fatto della lotta all’immigrazione il suo cavallo di battaglia. Le piccole imprese del nord desiderano invece poter disporre di una manodopera straniera abbondante, per far fronte alla penuria di manodopera non qualificata. Al contempo, il padronato si aspetta una vera e propria politica liberale e toglierebbe il suo consenso a Silvio Berlusconi se quest’ultimo non mantenesse le promesse.

Silvio Berlusconi fa correre rischi anche sul piano europeo. Il suo atteggiamento preoccupa numerosi suoi partner. Il suo desiderio di essere preso in considerazione, di “giocare insieme ai grandi”, foss’anche in modo solamente retorico, dovrà essere preso sul serio. E questo vale anche per il suo stile, che propone una rottura da quello molto misurato e dolce usualmente praticato nelle cancellerie. E’ d’altro canto certo che Berlusconi continuerà a valutare ogni nuovo provvedimento europeo alla luce del suo interesse, a costo di bloccare alcune decisioni dell’Unione europea e scatenare delle crisi. D’altronde, egli intende promuovere il suo progetto di liberalizzazione mettendo insieme sia Juan Maria Aznar che Tony Blair.

In effetti, se Silvio Berlusconi ha un’ambizione a livello europeo è proprio quella di riuscire ad aggravare la crisi della sinistra e garantirne il ricambio con la destra. Egli intende approfittare delle difficoltà della sinistra, che oggi attrae gli elettori istruiti, che vivono nelle grandi città, aperti dal punto di vista culturale, che accettano la globalizzazione e che fa invece fatica a mobilitare i ceti popolari. Berlusconi si fa paladino della destra, artigiano della sua trasformazione. Dal punto di vista ideologico, questa destra metterebbe insieme il liberismo economico e il tradizionalismo morale. Dal punto di vista strategico, essa perseguirebbe l’obiettivo di un’Europa essenzialmente economica, con un rimasuglio di politica comune e un forte riconoscimento delle realtà nazionali. Dal punto di vista politico raccoglierebbe le forze estreme e il centro. Dal punto di vista sociologico si fonderebbe sugli imprenditori, i salariati del settore privato e i poveri spaventati dalla globalizzazione.

Gli ultimi rischi sono legati alla personalità e alla situazione di Silvio Berlusconi. Convinto della sua buona stella, fiducioso nel suo destino, palesemente megalomane, l’uomo è intriso di una smodatezza che può portarlo ad inciampare in modo spettacolare: la sua frase sulla superiorità della civiltà occidentale sull’Islam ne è un buon esempio, anche se la sua popolarità non ne è stata intaccata. Il problema del conflitto d’interessi, d’altro canto, rimane intatto e fino a quando non l’avrà risolto sarà sottoposto a critiche assai dure, anche dalle sue stesse fila, e soffrirà di una illegittimità che potrà voler compensare con una aggressività raddoppiata. Infine, Berlusconi non ha chiuso i conti con la giustizia. Egli ha recentemente dichiarato alla stampa francese che, anche se fosse condannato non si dimetterebbe. Un’eventuale condanna radicalizzerebbe ulteriormente il suo comportamento e quello dei suoi avversari e aprirebbe un periodo di forti turbolenze.

Una democrazia in pericolo?

Dobbiamo quindi parlare dell’Italia come di un paese in via di fascistizzazione? Commetteremmo un grave errore. Se indossassimo occhiali del passato potremmo non riuscire a capire un fenomeno assai inedito. Lanciarsi in paragoni così arditi contribuisce a fissare ciò che è ancora fluido; lo abbiamo visto, Berlusconi è lungi dal riscuotere l’unanimità e, anche se ha carte da giocare, la sua posizione rimane fragile. In effetti, gli indici di gradimento del suo governo sono in discesa, anche se i sondaggi dimostrano che in caso di nuove elezioni vincerebbe facilmente e tanto più facilmente in quanto non ha sfidanti. Si può urlare al fascismo deliberatamente, per provocazione, come ha riconosciuto Dario Fo in una trasmissione televisiva, per attrarre l’attenzione su ciò che avviene dall’altro lato delle Alpi; ma si tratta di un gioco rischioso. Certo, Berlusconi è portatore di derive preoccupanti, soprattutto in assenza di un’opposizione credibile, con il suo conflitto d’interessi, le minacce che profferisce a proposito della Rai, sia per denunciarne la parzialità, sia per il suo disegno di privatizzare due delle tre reti pubbliche, oppure la sua volontà di sottomettere la giustizia al potere politico e di sanzionare i magistrati che si interessano troppo da vicino ai suoi affari.

Esiste anche una concentrazione allarmante del potere intorno a questo capo dell’Esecutivo che ha una fastidiosa propensione a collocare i suoi uomini nei posti chiave. Alcuni settori di Alleanza nazionale si dedicano a pratiche poco brillanti quando rendono omaggio a Mussolini, quando esercitano pressioni di vario tipo su persone che appartengono all’opposizione. Ma in sostanza, la maggioranza degli italiani che sostiene oggi Silvio Berlusconi non domanda un’autorità più forte. Al contrario, vuole maggiori libertà, meno regole, che vengano dall’Italia o da altrove, per poter raggiungere i propri obiettivi personali. E’ probabile che gli elettori della Casa delle libertà abbandonerebbero il suo leader se i vincoli diventassero troppo pesanti. In realtà il fenomeno Berlusconi assume significato in rapporto alle metamorfosi della democrazia rappresentativa. Esso illustra ciò che Marc Sadoun chiama la democrazia incarnativa, dato che egli si autoproclama l’incarnazione della volontà popolare concessa dal suffragio universale e dai sondaggi. Egli rispecchia anche un’altra tendenza delle nostre democrazie, già presa in considerazione due secoli fa da Tocqueville, a non fondarsi più su basi politiche, ma ad essere considerata come un semplice contesto operativo per il soddisfacimento dei propri interessi egoistici. In questo senso Berlusconi è una figura del populismo moderno che chiama in causa direttamente e contemporaneamente la brava gente, la gente facoltosa e la nazione.

Possiamo quindi capire bene l’emozione di numerosi intellettuali che debbono confrontarsi con un governo che non li ama e che disprezza l’arte e la cultura, i quali aderiscono quindi al grido lanciato dal giudice Borrelli :”Resistere, resistere, resistere”. Bisogna tenere la testa a posto. Colpisce in effetti quanto le analisi siano contraddittorie, cosa tra l’altro molto normale. Alcuni intellettuali transalpini temono un risorgere del fascismo, altri evocano una spinta al liberismo, altri ancora denunciano i comportamenti da mafioso, altri infine parlano della tirannia della maggioranza. Peggio. Alcuni scrittori o artisti si disperano o vilipendono il popolo e la sua supposta cecità, la sua ignoranza grassa, la sua stupidità, la sua mancanza strutturale di senso civico. Gli officianti di sinistra, in tutti i paesi, hanno una deplorevole propensione ad idealizzare il popolo quando esso agisce in conformità con i loro obiettivi, riconoscendosi, ad esempio, per quanto riguarda la situazione attuale, nei nuovi movimenti sociali; ma esprimono, viceversa, una reazione quasi aristocratica, come a guardare il popolo dall’alto, a fustigarlo, per non dire disprezzarlo, quando esso prende una direzione diversa. La frase assassina di Brecht lanciata contro i dirigenti comunisti e tedeschi nel 1953 (non rimane più che dissolvere il popolo, diceva con ironia) mantiene tutto il suo mordente.

I francesi, dal canto loro, devono evitare due trappole. Da una lato quella della semplificazione, che consiste nel credere che tutta l’intellighenzia transalpina abbia aderito all’opposizione a Berlusconi. Bisogna sapere, in effetti, che alcuni universitari (storici e politologi, essenzialmente), e anche alcuni giornalisti - che hanno aderito in passato al partito radicale o all’ex partito socialista italiano - lo sostengono per anticonformismo, oltre che per il desiderio di vedere trionfare il liberalismo politico in Italia, e per evitare che sopravvenga una repubblica dei giudici. Pur criticando con fermezza il Cavaliere su alcuni punti, e in particolare sul conflitto di interessi, essi credono di poterlo utilizzare ai loro fini, cosa che riteniamo illusoria. D’altro canto, è assolutamente necessario che la Francia non assuma più la posizione del paese che dà lezioni, che ha trovato il suo spaventapasseri nella figura di Berlusconi e che si compiace a dare grandi lezioni di morale, dispensandosi in questo modo dal chinarsi su ciò che accade veramente in Italia ma anche in Francia…

In realtà, anziché lanciare anatemi, il compito essenziale da svolgere dai due lati delle Alpi consiste nel produrre uno sforzo di analisi non solo del fenomeno Berlusconi, di quello che rappresenta per l’Italia contemporanea, o anche di ciò che rivela dello stato generale dell’Europa, ma anche di tutte queste Rivoluzioni invisibili (per riprendere il titolo di un’opera significativa) che colpiscono e destabilizzano in profondità le nostre società e i nostri comportamenti politici.

(Traduzione di Silvana Mazzoni)


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