Paura dell’Italia di Berlusconi?
Sì, ma attenti agli eccessi
Marc Lazar
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Sì, ma attenti agli eccessi
Per batterlo ci vuole senso della
misura
Questo articolo è apparso sul numero di Marzo-Aprile 2002 di
Esprit. Marc Lazar è docente di Scienze Politiche presso l’IEP (Institut
d’Etudes Politiques) di Parigi.
La Francia soffre per l’Italia. Da noi, lo sappiamo bene, questo
paese suscita forti passioni. Sono pochi i francesi che rimangono
insensibili alla sua inventiva, al suo patrimonio culturale o alla
sua estetica, anche se in una sua opera appassionante Yves Hersant
ha dimostrato che i viaggiatori francesi tra il 16° e il 18°
secolo erano spesso intrisi di pregiudizi e sprezzanti nei confronti
degli italiani. Tuttavia, cantare la bellezza della penisola,
soccombere al suo fascino, tessere le lodi dei suoi abitanti
significa oggi esprimere una vera e propria infatuazione, che
rischia però a volte di trasformarsi in un esercizio di stile quasi
obbligato, per non dire stucchevole, nella misura in cui si ritiene
di attestare in questo modo il buon gusto e la distinzione culturale
di colui che la esprime. In ogni caso, in Francia l’Italia
letteraria, intellettuale e artistica è ben conosciuta; essa
suscita un interesse quasi costante e aspettative permanenti, ad
esempio per quanto riguarda il cinema, di cui abbiamo prima
deplorato il declino e colto invece più di recente alcuni cenni di
rinascita.
Molto meno conosciuta è invece la politica italiana. Nei rari
momenti in cui la si è ricordata durante questi ultimi venti anni
è stato per ergerla ad esempio o per indignarsene. Questo è il
melanconico scotto che paga l’Italia: l’idealizzazione di cui è
permanentemente oggetto alimenta ricorrenti delusioni. Ad esempio, l’azione
dei giudici dell’operazione mani pulite sembra aver
ispirato alcuni dei nostri giudici di istruzione, e ha consentito ad
alcuni dei nostri editorialisti di sperare in un’analoga
operazione di pulizia in casa nostra. Ancora, nel 1996 la vittoria
di Romano Prodi è stata da molti salutata come il trionfo della
sinistra (cosa non del tutto vera), il segnale di un imminente
cambio nei rapporti di forza in Europa occidentale. Nel 1994, l’elezione
di Silvio Berlusconi aveva già suscitato una forte emozione e
alimentato i peggiori timori. A quell’epoca ci si preoccupò di un
eventuale ritorno del fascismo e i rischi di una telecrazia venivano
segnalati da brillanti spiriti che tacquero invece due anni dopo,
quando lo stesso Cavaliere, pur sempre a capo del suo impero
televisivo, venne nettamente battuto dalla coalizione di
centrosinistra dell'Ulivo.

Il ritorno di Silvio Berlusconi al potere nel maggio 2001 ha
immediatamente fatto risorgere lo spettro del fascismo. Trasmissioni
televisive e radiofoniche, dossier sui quotidiani, manifestazioni,
petizioni, prese di posizione degli editori in occasione del Salone
del libro di Parigi, dove l’Italia è quest’anno l’invitata d’onore,
si sono moltiplicate e hanno trasformato l’Italia, dopo l’Austria,
nel nuovo malato d’Europa. Vedremo poi che esistono veri motivi di
preoccupazione per la penisola. Ma esprimere giudizi perentori,
dedicarsi a facili giochi di parole del genere Berlussolini
(secondo il titolo dell’articolo di Jacques Attali, nell’Express
del 24 gennaio 2002), sviluppare ragionamenti incisivi che danno
vita a condanne senza appello sembra essere poco operativo e
addirittura controproducente. Questi atteggiamenti segnalano una
cattiva conoscenza delle realtà transalpine e una propensione ad
affrontarle non di per se stesse, ma alla luce delle poste in gioco
che caratterizzano la vita politica francese, oppure richiamandosi a
riferimenti storici molto discutibili. Capire anziché giudicare
rimane quindi un’impellente necessità. Ciò presuppone tuttavia l’ammissione
che l’Italia sta affrontando alcuni problemi specifici che, tra l’altro,
rispecchiano alcune sfide lanciate nell’insieme dell’Unione
europea.
Lezioni italiane
Per molti aspetti la situazione italiana è unica in Europa. Il
paese vive una crisi politica senza precedenti. Nello spazio di
alcuni anni sono scomparsi i principali partiti che all’indomani
della seconda guerra mondiale strutturavano la vita pubblica,
facevano vivere nel bene e nel male le istituzioni, selezionavano la
maggioranza delle élites, plasmavano le culture politiche e le
identità collettive, garantivano più o meno facilmente la
modernizzazione del paese, soddisfacevano non senza difficoltà le
aspirazioni della società e rappresentavano il paese all’estero: exit
la Democrazia cristiana (DC), il Partito comunista italiano (PCI) e
anche il Partito socialista italiano (PSI), per non parlare della
miriade di piccole formazioni il cui gioco complicato deliziava gli
osservatori e i politologi.
Scomparsi anche quei leader politici che, inossidabili, tenevano la
scena della teatrocrazia italiana. Alcuni ostentavano una raffinata
eleganza, un’etica senza falle e un’ampiezza di vedute poco
comune; altri, soprattutto negli anni ’80, sprofondavano nella
volgarità e si dedicavano anima e corpo alle delizie dell’arricchimento
e della corruzione, e tutti parlavano quella lingua strana,
esoterica, piena di citazioni latine o di riferimenti libreschi, il politichese,
schernito da Pasolini. Sono nati nuovi partiti: la Lega Nord, Forza
Italia, Alleanza Nazionale (che trae origine dall’ex Movimento
sociale italiano), i Democratici di sinistra (DS, che provengono dal
PCI), i Democratici (il partito di Romano Prodi), e così via.
Ha preso piede un linguaggio semplice, per non dire semplicistico,
degli slogan shock, direttamente provenienti dal marketing e delle
frasi sferzanti. Con il cambiamento della legge elettorale, si sono
costituite delle coalizioni e dei raggruppamenti: la Casa delle
libertà organizza il centrodestra, l’Ulivo il centrosinistra,
avendo al suo interno la Margherita, (composta da partiti centristi,
alleati con i DS), e il Girasole (formato dall’unione dei Verdi e
degli ex socialisti)… Altri responsabili sono saliti alla ribalta,
provenienti da ambienti diversi dalla politica, quali Silvio
Berlusconi, Romano Prodi, Lamberto Dini, Carlo Azeglio Ciampi,
oppure emersi in prima linea grazie all’opportunità offerta da
questo grande rinnovamento della classe politica, come Gianfranco
Fini, Massimo D’Alema o Francesco Rutelli. Nessun altro paese dell’Unione
europea ha conosciuto un tale sconvolgimento del suo sistema
politico, una simile metamorfosi delle sue componenti, e un tale
rovesciamento di orientamento dei suoi elettori.
La situazione dell’Italia è eccezionale anche perché le forze
politiche che si affrontano rappresentano delle coalizioni “anomale”.
Oltre ad alcuni piccoli gruppi nati dalla disgregazione della
Democrazia Cristiana, il centro destra è formato da Forza Italia,
la formazione di Berlusconi, dagli ex fascisti capeggiati da
Gianfranco Fini e dalla Lega Nord, partito di tipo etno-regionalista.
Questa coalizione è senza uguali in Europa occidentale. Sull’altro
fronte si presenta una configurazione a sua volta molto originale,
che raggruppa delle forze di centro e degli ex comunisti. Si fa
fatica a immaginare in Francia un’alleanza che andrebbe dall’UDF
al PCF, passando dal PS, e a cui participerebbero Lionel Jospin,
Robert Hue, Daniel Cohn-Bendit, Jean-Pierre Chevènement, François
Bayrou, Jean-Claude Trichet, Jacques Delors e alcuni altri…
In nessun altro paese dell’Unione europea gli ex comunisti e gli
ex fascisti occupano un posto di quel genere. Infine, è evidente un’altra
peculiarità italiana che consiste nella stessa personalità di
Berlusconi. Nessun proprietario di gruppo privato, che peraltro è
leader nel settore della comunicazione, assume funzioni di potere
dello stesso genere in nessun altro paese europeo. Immaginiamo, per
fare un esempio, che Jean-Marie Messier (l’equivalente di
Murdoch in Francia, n.d.t.) si lanci in politica e sia eletto
Presidente della Repubblica…
L’inventario delle specificità italiane potrebbe durare ancora a
lungo. Ma la disaffezione nei confronti della politica e delle
istituzioni tradizionali, la ridefinizione del potere giudiziario,
il peso dei media, la crisi della rappresentanza non sono
appannaggio della penisola. Al contrario, queste diverse dimensioni
della crisi che colpisce l’Italia si ritrovano in quasi tutte le
democrazie dell’Europa occidentale. Inoltre, la ricomposizione
delle forze politiche non appartiene solo all’Italia. Ad eccezione
dell’Inghilterra, a causa delle specificità del suo sistema
elettorale, nella maggior parte degli altri paesi europei né la
destra né la sinistra possono vincere le elezioni da sole: esse
vanno quindi alla ricerca di alleanze, aggiustano costantemente le
loro strategie e modificano i loro programmi. Infine, una parte
degli elettori chiede spesso novità in politica, in quanto prova
disgusto nei confronti della classe politica tradizionale, e questa
richiesta travalica le frontiere dell’Italia.
Una vittoria annunciata
Il risultato delle elezioni del maggio 2001 non è stato una
sorpresa. Silvio Berlusconi, molto abilmente, parla di plebiscito a
suo favore, opinione che, stranamente, alcuni analisti francesi a
lui ostili confortano in pieno, quando descrivono il suo percorso
come una irresistibile ascesa. Per la verità, non vi è stato un
maremoto berlusconiano.
Per capire bene il risultato di queste elezioni, bisogna tenere a
mente una delle sottigliezze della politica transalpina. Per
semplificare la descrizione di una legge elettorale molto complicata
possiamo dire che gli italiani eleggono il 75% dei loro deputati con
il sistema maggioritario a turno unico, mentre il restante 25% viene
eletto con il sistema proporzionale. Ebbene, al maggioritario la
Casa delle libertà ha ottenuto un po’ più del 45% dei voti e l’Ulivo
un po’ meno del 44%, con una situazione di quasi parità (630.000
elettori in più per la Casa delle libertà, su circa 33 milioni di
voti espressi). Nel proporzionale invece, l’insieme delle
componenti della Casa delle Libertà ha raccolto oltre il 49% dei
voti, contro il 35,6% per l’Ulivo (e il 5% per Rifondazione
comunista). Ma questi risultati del centro destra sono inferiori a
quelli raggiunti nel 1996, dove i diversi partiti che componevano il
Polo delle libertà avevano raccolto oltre il 42% dei voti e la
Lega, che a quell’epoca non era alleata del Polo, aveva raggiunto
il 10,1% (vale a dire un totale del 52,2%). Senza attardarci su
queste cifre e senza analizzarle in dettaglio, dobbiamo tenere a
mente che il centro destra ha vinto più nettamente in termini di
rappresentazione parlamentare che in numero di voti.
Silvio Berlusconi ha vinto le elezioni prima di tutto grazie alle
debolezze e agli errori della coalizione di centrosinistra E
debolezze ed errori sono stati tanti. L’Ulivo, prima di tutto, è
stato vittima della sua instabilità governativa. In cinque anni,
gli italiani hanno visto sfilare tre presidenti del Consiglio:
Romano Prodi (1996-98), Massimo D’Alema (ottobre 1998-aprile 2000)
e Giuliano Amato (primavera 2000-maggio 2001). E’ molto, per una
coalizione che aveva affermato di voler fare della stabilità di
governo uno dei principi della legislatura.
Il centrosinistra ha sofferto della politica di rigore realizzata in
Italia dal 1992, ancora prima dell’arrivo di Prodi. Per tutto un
decennio, tutti i governi che si sono succeduti, ad eccezione di
quello di Silvio Berlusconi nel 1994, hanno tagliato drasticamente
la spesa pubblica, risanato le finanze, bloccato i salari, aumentato
le tasse - addirittura imponendo una tassa speciale per l’Europa…
Per gli italiani il centrosinistra è quindi sinonimo di austerità.
Tanto più che esso non ha saputo valorizzare il suo pur
apprezzabile bilancio di modernizzazione economica e sociale -in
particolare l’avvio di una ambiziosa riforma dello Stato - e si è
ritrovato privo di un suo progetto. In effetti, uno degli obiettivi
del governo Prodi è stato quello di far entrare l’Italia nell’Euro.
Esso è stato capace di mettere in sinergia il padronato, i
sindacati e l’opinione pubblica per raggiungere questo obiettivo.
Ma al termine della “qualificazione” per Eurolandia, per
riprendere il vocabolario in uso dall’altro lato delle Alpi, il
centrosinistra si è trovato a corto di idee e incapace di ritrovare
un secondo slancio.
Inoltre, l’Ulivo è stato roso dalle sue divisioni interne, con
cui deve ancora combattere e che, dopo la sconfitta, non hanno fatto
altro che acuirsi. Esso soffre anche di un forte deficit di
leadership. Nel 2001 si è venuta a creare una situazione
inverosimile, dato che il Primo ministro dell’epoca, Giuliano
Amato, è rimasto in seconda linea nella campagna elettorale,
lasciando le redini non al dirigente del principale partito dell’Ulivo,
i DS, bensì al sindaco di Roma, Francesco Rutelli, scelto perché
ritenuto telegenico e in grado di rappresentare il nuovo. Un po’
come Al Gore negli Stati Uniti, in lotta per la successione a Bill
Clinton, Rutelli è stato costretto a fare implicito riferimento al
bilancio del governo uscente senza tuttavia difenderlo
completamente, per potersi presentare come un uomo diverso. Ne è
venuta fuori una confusione che ha contribuito a destabilizzare l’elettorato
indeciso. Al contempo, Rutelli ha dovuto - e deve ancora oggi -
imporsi a partiti che non si riconoscono in lui, avendolo scelto per
mancanza di meglio.
Infine, il centrosinistra ha perso perché si è chiuso in una
strategia difensiva. Dopo la sconfitta alle elezioni regionali del
2000, l’Ulivo ha ritenuto più o meno consapevolmente che il
risultato delle successive elezioni legislative fosse ormai scritto.
Massimo D’Alema ha deciso di dare le dimissioni pur non essendovi
obbligato da nessuno, e il centrosinistra, avendo fatta propria l’idea
della sconfitta, si è fissato uno obiettivo minimo: salvare il
salvabile anziché sviluppare un’azione di attacco. Questa
sindrome della sconfitta, prima ancora della battaglia, è stata
particolarmente forte nelle forze di sinistra dentro l’Ulivo, e in
particolare nei DS, impotenti a dare una soluzione al dilemma cui
nessuna sinistra riformista sfugge oggi in Europa: come attrarre una
parte delle classi media dinamiche senza perdere il sostegno delle
categorie popolari?
Berlusconi, un attore politico
Le elezioni del maggio 2001 registrano quindi una sconfitta del
centrosinistra. Ma rappresentano anche una innegabile vittoria di
Silvio Berlusconi.
Dopo la sua sconfitta del 1996, numerosi osservatori ritennero che
questo uomo fosse finito, per lo meno dal punto di vista politico.
Il suo passaggio in politica sembrava quindi simile a una meteora.
Al contrario, egli ha saputo rilanciarsi grazie alla sua
testardaggine, ma anche a causa dei calcoli di Massimo D’Alema. In
quanto Presidente del Consiglio, quest’ultimo ha tentato di
intraprendere una riforma della Costituzione, conferendo a
Berlusconi il ruolo di principale interlocutore dell’opposizione.
Egli tentava di gettare le basi di un sistema politico rinnovato,
fondato su due grandi forze, la sinistra, che pretendeva dirigere, e
la destra, che sarebbe stata posta sotto la guida di Silvio
Berlusconi. Egli certamente sperava che gli italiani non si
riconoscessero in questo uomo a causa dei suoi eccessi, dei suoi
guai con la giustizia e dell’oggettivo conflitto che esiste tra i
suoi interessi privati e la sua ambizione di diventare un grande
uomo di Stato. Era quindi indispensabile evitare di risolvere quest’ultima
questione con una legge, per poterla poi usare come risorsa politica
contro di lui…
Approfittando di queste opportunità, Silvio Berlusconi ha messo di
nuovo in piedi una coalizione politica che si riteneva non avesse
più futuro da quando, nel 1994, la Lega Nord aveva rotto la propria
alleanza con Forza Italia, Alleanza nazionale e i piccoli gruppi
democratico-cristiani (CCD-CDU), provocando la caduta del governo di
Silvio Berlusconi. Con pazienza, usando tutti i mezzi, Silvio
Berlusconi è riuscito, dal 1999-2000, a ricostruire questa
coalizione e a farsi riconoscere come suo leader incontestato. Tanto
più che nel frattempo egli ha rafforzato il suo partito, Forza
Italia. All’inizio Forza Italia era una semplice appendice della
Fininvest, il suo gruppo di affari, ma nel tempo questo
partito-impresa ha consolidato le sue strutture, si è radicato nel
paese, nel nord e nel sud, e funziona ormai come struttura di
accoglienza per tutti coloro che desiderano intraprendere una
carriera pubblica. Esso ha più di 312.000 tesserati e più di
10.000 eletti locali. Nel maggio 2001 è diventato il primo partito
italiano, con quasi il 30% dei voti.
Ma c’è di più. Dal 2000 in poi Berlusconi è riuscito ad imporre
i suoi temi politici ai suoi avversari: la sicurezza, il lavoro, le
tasse, l’immigrazione sono stati inseriti nell’agenda politica.
Su tutti questi argomenti, il centrosinistra è andato a rimorchio,
ridotto a reagire alle proposte di Berlusconi. Inoltre, Berlusconi
ha dato prova di una grande abilità tattica, rifiutando
sistematicamente di affrontare Rutelli in un dibattito televisivo,
affermando di preferire un dialogo con Massimo D’Alema, leader del
principale partito del centrosinistra, o con Giuliano Amato, capo
del governo. In questo modo evitava una situazione pericolosa per se
stesso, pur segnalando a coloro che non l’avessero notato che i
suoi avversari erano incapaci di stringersi intorno ad un leader.
Non è quindi tanto come esperto di comunicazione che Berlusconi ha
vinto le elezioni, ma prima di tutto come uomo politico, vero
architetto di una coalizione, avendo a disposizione un partito
potente, capace di mobilitare gli elettori. E’ ovvio che i suoi
innegabili talenti di comunicatore gli hanno concesso di segnare
ulteriori punti. Ma tutti gli studi indicano che non vi è una
evidente correlazione tra la visione delle sue reti e il voto.
Ma al di là delle defaillances dei suoi avversari e delle
sue capacità, il successo di Silvio Berlusconi sta nell’aver
saputo unire due grandi categorie sociali. Il primo zoccolo su cui
si basa è l’Italia dei piccoli imprenditori, in particolare nel
nord (Lombardia e Veneto, mentre i dirigenti d’impresa dell’Italia
centrale, in Emilia Romagna e in Toscana sono ancora influenzati dai
democratici di sinistra anche se si incominciano a notare dei
cambiamenti). Si tratta di un’Italia dinamica, moderna, che ha
fatto del lavoro accanito il proprio valore centrale, l’Italia di
coloro che si sono fatti da soli o che, più esattamente, pensano di
essersi fatti da soli, mentre hanno invece beneficiato per numerosi
anni del sostegno della Democrazia cristiana.
Questi gruppi sociali ritengono, a torto o a ragione, di essere
stati strumentalizzati e disprezzati. Essi intendono prendersi una
sorta di rivincita sociale sulle forze politiche e le élites
tradizionali, siano esse economiche, sociali, politiche o culturali.
Essi ostentano la loro ostilità verso il grande padronato, le
grandi banche, la vecchia classe politica, i comunisti, i sindacati,
le regole troppo vincolanti imposte da Roma o da Bruxelles. Sono
certamente europeisti, nella misura in cui l’Europa va a loro
beneficio, e solcano il mondo per esportare, vendere o impiantare le
loro fabbriche, utilizzando una manodopera a buon mercato. Ma
rimangono diffidenti nei confronti dello straniero: continuano
quindi a riconoscersi in alcune istituzioni che in passato davano un
senso alle cose, come la Chiesa cattolica, anche se non la
frequentano più assiduamente come prima, fanno riferimento a valori
tradizionali, che trasgrediscono allegramente nella loro vita
quotidiana, e ostentano un forte attaccamento al loro territorio,
alle loro radici. Fino ad poco fa, questa Italia era quella della
Lega Nord. Silvio Berlusconi oggi vi trova una gran parte della sua audience.
Ma questi capi d’impresa non gli firmano una cambiale in bianco;
vedono in lui l’opportunità di far andare avanti i loro
interessi, di avere uno Stato meno invadente ma più efficace, di
poter lavorare, consumare, arricchirsi liberamente, senza troppo
preoccuparsi delle regole e, forse, andare a costituire la nuova
élite che prenderà il posto delle vecchie classi dominanti.
Il secondo zoccolo è costituito dalle persone anziane (l’Italia
è il paese d’Europa con il più basso tasso di crescita
demografica), le persone con un basso livello di istruzione che
leggono pochissimo i giornali, non si interessano di politica,
guardano molto la televisione e sono preoccupate per la presenza
degli immigrati, per le trasformazioni della società o per la
globalizzazione.

Silvio Berlusconi ha saputo parlare a queste due Italie, ed è
proprio per questo motivo che egli è tutto fuorché un epifenomeno.
Mettendo in sordina il suo percorso sinuoso che, in passato, ha
beneficiato in particolare del sostegno e delle elargizioni dell’establishment
socialista, egli si presenta come il prototipo della modernità, l’outsider
di fronte ai notabili e ai potenti, e come il difensore della
tradizione, colui che invoca il ruolo della religione, della
famiglia e della morale più conformista possibile per garantire la
coesione della società. La popolarità di Berlusconi consiste in
questa capacità di rispondere alle aspirazioni e alle apprensioni
di questi due elettorati, anche se in futuro, ora che è capo del
governo, le decisioni che prenderà non potranno soddisfare in
uguale misura queste due categorie. Tanto più che la sua stessa
popolarità è ben lungi dal suscitare l’unanimità. Al di là del
rifiuto viscerale che provoca tra i suoi oppositori, tutti sondaggi
dal 1994 ad oggi dimostrano che gli italiani che votano per lui gli
riconoscono dinamismo, modernismo, lo considerano l’uomo nuovo,
ritengono che sia un perseguitato, ma non si fanno alcuna illusione
sulla sua onestà. E’ questo l’indizio di una delle fragilità
di Silvio Berlusconi.
Primo bilancio
Che dire dell’azione governativa di Berlusconi da quando è al
potere, e cioè dall’11 giugno 2001? Dobbiamo fare due premesse,
per evitare di dipingere il Presidente del Consiglio come un essere
spregevole e stupido, o come un attore onnipotente. Silvio
Berlusconi è oggi un uomo che ha acquisito una certa esperienza
politica. Nel 1994, quando arrivò al potere, non sapeva niente
della politica, delle sue abitudini, dei suoi costumi. Ha fatto
quindi una gaffe dietro l’altra, si è innervosito, si è anche
sfinito nel subire le derisioni o i sarcasmi della classe politica e
dei commentatori, facendosi prendere in giro dal Presidente della
Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, un astuto democristiano… Benché
commetta ancora diverse topiche, egli ha meglio assimilato le regole
dell’universo nel quale si muove. In sintesi, Silvio Berlusconi
dispone di strumenti efficaci (Forza Italia e le sue televisioni),
è diventato un responsabile politico a tutto tondo che agisce come
un politico e sa portare avanti le sue battaglie.
Inoltre, diversamente dall’impressione che se ne può avere
leggendo la stampa francese, Berlusconi non è solo. Egli deve
evidentemente tenere conto del Presidente della Repubblica, delle
forze sociali, dei media, etc. Ma deve fare i conti anche con i suoi
alleati. Silvio Berlusconi presiede, giova ricordarlo, un governo di
coalizione fortemente diviso. Sull’Europa, ad esempio, i
sostenitori molto presenti nel suo partito o all’esterno di esso,
all’interno o all’esterno del governo, devono fare i conti con
gli euro-scettici, o per lo meno con persone che hanno una visione
più liberale dell’Europa, o che le sono addirittura ostili, come
i responsabili della Lega nord. Le divisioni sono altrettanto
profonde per quanto attiene la liberalizzazione dell’economia: i
fautori di un metodo rapido, che propongono di fare l’elettroshock
alla società italiana devono tenere conto delle persone che
vogliono mantenere alcuni aspetti dello stato sociale. E il costume
è un altro punto di divergenza. Nella maggioranza, alcuni
tradizionalisti avrebbero desiderato rimettere in discussione la
legge del 1975 sull’interruzione di gravidanza, ma il loro
desiderio non è stato esaudito. In effetti, come avviene in
qualsiasi coalizione, gli alleati di Silvio Berlusconi difendono il
loro orticello e pensano solo a rafforzarsi: devono quindi marcare
le differenze per esistere.
Tuttavia, Silvio Berlusconi non ha perso tempo da quando si è
insediato alla Presidenza del Consiglio. Ecco le sue principali
realizzazioni: detassazioni delle eredità sul patrimonio, legge per
il rimpatrio dei capitali esportati clandestinamente, abolizione
delle sanzioni previste per il falso in bilancio delle imprese,
restrizione degli scambi con l’estero per le rogatorie giudiziarie
e alcune altre misure a favore delle piccole imprese. Cinque
progetti sono in fase di elaborazione: un controllo severissimo dell’immigrazione,
un progetto che faciliti le procedure di licenziamento, una riforma
della sicurezza sociale e delle pensioni (che ha immediatamente dato
luogo a scioperi) una modifica dell’organizzazione della
magistratura, che significherebbe in particolare mettere la
giustizia al passo; infine, una riforma del sistema dell’istruzione
che prevede in particolare una ripartizione più favorevole al
privato.
Come interpretare l’insieme di questa politica governativa? Uno
dei motori dell’azione di Silvio Berlusconi è la soddisfazione
del proprio interesse e di quello del suo entourage. Una
prova evidente se ne è avuta quando il Presidente del governo si
oppose inizialmente al mandato di arresto europeo, che egli
interpretava come una potenziale minaccia ai suoi affari: la
fermezza dei quattordici altri paesi europei lo ha costretto a fare
dietro front.
Berlusconi ricorre poi ad una retorica liberale. Afferma di voler
liberalizzare l’Italia dal punto di vista economico, uscire dallo
Stato assistenziale, abolire le grandi conquiste sindacali degli
anni ’70. Il messaggio fu lanciato con grande forza durante le
campagne elettorali. E’ meno netto ora che Berlusconi è al
potere. Da un lato perché Berlusconi vede il beneficio che può
trarre nel piazzare i suoi vassalli in tutte le strutture pubbliche
o parastatali. D’altro canto, egli teme i conflitti sociali che
nel 1994 sono stati in parte all’origine della sua caduta. Infine
perché il sud dell’Italia, che ha votato in massa per la Casa
delle libertà, si aspetta molto dagli aiuti pubblici e dalle
sovvenzioni statali. Tuttavia, alcuni provvedimenti neoliberisti
sono il prezzo da pagare per garantirsi il sostegno del suo primo
pilastro elettorale. I piccoli imprenditori aspettano degli atti. La
Confindustria - attualmente diretta da un uomo di Berlusconi,
Antonio d’Amato, un piccolo imprenditore del sud del paese -
continua a dirlo con virulenza: il suo modello è l’Inghilterra di
Margaret Thatcher; il suo nemico è la Francia di Jospin.
Accanto a questo liberismo Berlusconi si richiama al conservatorismo
morale. Quando lo si sente invocare la Chiesa, la religione, la
famiglia o deplorare il declino dei valori, si ha a volte l’impressione
di assistere a qualcosa che assomiglia ad una volontà di
restaurazione di un ordine morale minacciato.
Infine, Berlusconi sfrutta una sorta di soprassalto nazionalista che
si manifesta in Italia da una decina di anni a questa parte. All’origine
di questo fenomeno ci sono due sfide cui l’Italia deve far fronte:
i progetti di secessione della Lega Nord, e quello che in Italia
viene chiamato lo “shock migratorio”, da quando questo paese è
diventato un paese di immigrazione, con tutti i problemi che questo
pone in termini di integrazione. Risultato: l’Italia si interroga
sulla sua identità: che cosa significa essere italiano? Come
definire la nazione italiana? In che cosa consiste l’italianità?
Questi dibattiti, che agitano l’Italia da quando esiste, sono di
nuovo molto di attualità. Le trasmissioni televisive o radiofoniche
e i giornali trattano questo tema all’infinito, le ricerche
storiche si moltiplicano, con il loro strascico di controversie, le
polemiche pubbliche s’infiammano.
I protagonisti politici se ne occupano e questo si traduce negli
atteggiamenti di ostentazione che Silvio Berlusconi adotta. Egli
pretende di ridare all’Italia il posto che le è dovuto nel mondo
e difende le sue posizioni nelle istituzioni europee. Sembra che non
siano mai state vendute tante bandiere come in questo periodo. Non
si grida più “Forza Italia!” solo negli stadi; la
suscettibilità nazionale è a fior di pelle, soprattutto nei
confronti della Francia e della Germania. E’ d’altronde la
ragione per cui le recenti dichiarazioni di Catherine Tasca hanno
suscitato un reale malessere, a volte fin dentro la sinistra
italiana. Berlusconi sfrutta benissimo la situazione. Come una
novella Giovanna d’Arco che parte in guerra dopo aver sentito
delle voci, egli si presenta come l’uomo della provvidenza
chiamato a guidare una crociata contro i comunisti, i giudici e la
classe politica corrotta, per ridare vigore ad un’Italia fino ad
oggi beffeggiata, a suo dire, dal resto dell’Europa. E’ d’altro
canto sintomatico che abbia pensato di chiamare il suo partito “Forza
Italia!”. Pensiamo all’impressione che produrrebbe da noi un
gruppuscolo sostenitore del “sovrano” che decidesse di chiamarsi
“Allez les Bleus”, (il colore della squadra di calcio
francese, l’equivalente dei nostri “assurri” n.d.t.)
oppure “Allez la France!”…
Silvio Berlusconi forever?
Silvio Berlusconi rimarrà certamente a lungo al potere, tanto più
che la sinistra è un campo di macerie. Questa prospettiva è densa
di rischi. Rischi sociali, prima di tutto. E’ appena iniziata una
mobilitazione sindacale contro la modifica delle norme sui
licenziamenti o sulle pensioni. Ebbene, proprio per l’inconsistenza
dell’opposizione, i sindacati, e soprattutto la CGIL, la
principale confederazione vicina ai DS ma gelosa della propria
autonomia, può soccombere alla tentazione di rappresentare l’alternativa
al governo, un po’ come negli anni ’70. Questa deriva è
purtuttavia limitata. I sindacati sono divisi e, benché potenti -
più di 10,5 milioni di iscritti, soprattutto nel pubblico impiego -
sono composti per quasi il 48% da pensionati e sono praticamente
assenti dalle piccole imprese.
Esistono tuttavia altre minacce sociali per Berlusconi. Uno scontro
con il padronato sull’immigrazione non è da escludere. Il capo
del governo intende promulgare una legislazione restrittiva per
placare le preoccupazioni suscitate dall’immigrazione e soddisfare
la Lega nord che ha fatto della lotta all’immigrazione il suo
cavallo di battaglia. Le piccole imprese del nord desiderano invece
poter disporre di una manodopera straniera abbondante, per far
fronte alla penuria di manodopera non qualificata. Al contempo, il
padronato si aspetta una vera e propria politica liberale e
toglierebbe il suo consenso a Silvio Berlusconi se quest’ultimo
non mantenesse le promesse.
Silvio Berlusconi fa correre rischi anche sul piano europeo. Il suo
atteggiamento preoccupa numerosi suoi partner. Il suo desiderio di
essere preso in considerazione, di “giocare insieme ai grandi”,
foss’anche in modo solamente retorico, dovrà essere preso sul
serio. E questo vale anche per il suo stile, che propone una rottura
da quello molto misurato e dolce usualmente praticato nelle
cancellerie. E’ d’altro canto certo che Berlusconi continuerà a
valutare ogni nuovo provvedimento europeo alla luce del suo
interesse, a costo di bloccare alcune decisioni dell’Unione
europea e scatenare delle crisi. D’altronde, egli intende
promuovere il suo progetto di liberalizzazione mettendo insieme sia
Juan Maria Aznar che Tony Blair.
In effetti, se Silvio Berlusconi ha un’ambizione a livello europeo
è proprio quella di riuscire ad aggravare la crisi della sinistra e
garantirne il ricambio con la destra. Egli intende approfittare
delle difficoltà della sinistra, che oggi attrae gli elettori
istruiti, che vivono nelle grandi città, aperti dal punto di vista
culturale, che accettano la globalizzazione e che fa invece fatica a
mobilitare i ceti popolari. Berlusconi si fa paladino della destra,
artigiano della sua trasformazione. Dal punto di vista ideologico,
questa destra metterebbe insieme il liberismo economico e il
tradizionalismo morale. Dal punto di vista strategico, essa
perseguirebbe l’obiettivo di un’Europa essenzialmente economica,
con un rimasuglio di politica comune e un forte riconoscimento delle
realtà nazionali. Dal punto di vista politico raccoglierebbe le
forze estreme e il centro. Dal punto di vista sociologico si
fonderebbe sugli imprenditori, i salariati del settore privato e i
poveri spaventati dalla globalizzazione.
Gli ultimi rischi sono legati alla personalità e alla situazione di
Silvio Berlusconi. Convinto della sua buona stella, fiducioso nel
suo destino, palesemente megalomane, l’uomo è intriso di una
smodatezza che può portarlo ad inciampare in modo spettacolare: la
sua frase sulla superiorità della civiltà occidentale sull’Islam
ne è un buon esempio, anche se la sua popolarità non ne è stata
intaccata. Il problema del conflitto d’interessi, d’altro canto,
rimane intatto e fino a quando non l’avrà risolto sarà
sottoposto a critiche assai dure, anche dalle sue stesse fila, e
soffrirà di una illegittimità che potrà voler compensare con una
aggressività raddoppiata. Infine, Berlusconi non ha chiuso i conti
con la giustizia. Egli ha recentemente dichiarato alla stampa
francese che, anche se fosse condannato non si dimetterebbe. Un’eventuale
condanna radicalizzerebbe ulteriormente il suo comportamento e
quello dei suoi avversari e aprirebbe un periodo di forti
turbolenze.
Una democrazia in pericolo?
Dobbiamo quindi parlare dell’Italia come di un paese in via di
fascistizzazione? Commetteremmo un grave errore. Se indossassimo
occhiali del passato potremmo non riuscire a capire un fenomeno
assai inedito. Lanciarsi in paragoni così arditi contribuisce a
fissare ciò che è ancora fluido; lo abbiamo visto, Berlusconi è
lungi dal riscuotere l’unanimità e, anche se ha carte da giocare,
la sua posizione rimane fragile. In effetti, gli indici di
gradimento del suo governo sono in discesa, anche se i sondaggi
dimostrano che in caso di nuove elezioni vincerebbe facilmente e
tanto più facilmente in quanto non ha sfidanti. Si può urlare al
fascismo deliberatamente, per provocazione, come ha riconosciuto
Dario Fo in una trasmissione televisiva, per attrarre l’attenzione
su ciò che avviene dall’altro lato delle Alpi; ma si tratta di un
gioco rischioso. Certo, Berlusconi è portatore di derive
preoccupanti, soprattutto in assenza di un’opposizione credibile,
con il suo conflitto d’interessi, le minacce che profferisce a
proposito della Rai, sia per denunciarne la parzialità, sia per il
suo disegno di privatizzare due delle tre reti pubbliche, oppure la
sua volontà di sottomettere la giustizia al potere politico e di
sanzionare i magistrati che si interessano troppo da vicino ai suoi
affari.
Esiste anche una concentrazione allarmante del potere intorno a
questo capo dell’Esecutivo che ha una fastidiosa propensione a
collocare i suoi uomini nei posti chiave. Alcuni settori di Alleanza
nazionale si dedicano a pratiche poco brillanti quando rendono
omaggio a Mussolini, quando esercitano pressioni di vario tipo su
persone che appartengono all’opposizione. Ma in sostanza, la
maggioranza degli italiani che sostiene oggi Silvio Berlusconi non
domanda un’autorità più forte. Al contrario, vuole maggiori
libertà, meno regole, che vengano dall’Italia o da altrove, per
poter raggiungere i propri obiettivi personali. E’ probabile che
gli elettori della Casa delle libertà abbandonerebbero il suo
leader se i vincoli diventassero troppo pesanti. In realtà il
fenomeno Berlusconi assume significato in rapporto alle metamorfosi
della democrazia rappresentativa. Esso illustra ciò che Marc Sadoun
chiama la democrazia incarnativa, dato che egli si autoproclama l’incarnazione
della volontà popolare concessa dal suffragio universale e dai
sondaggi. Egli rispecchia anche un’altra tendenza delle nostre
democrazie, già presa in considerazione due secoli fa da
Tocqueville, a non fondarsi più su basi politiche, ma ad essere
considerata come un semplice contesto operativo per il
soddisfacimento dei propri interessi egoistici. In questo senso
Berlusconi è una figura del populismo moderno che chiama in causa
direttamente e contemporaneamente la brava gente, la gente facoltosa
e la nazione.
Possiamo quindi capire bene l’emozione di numerosi intellettuali
che debbono confrontarsi con un governo che non li ama e che
disprezza l’arte e la cultura, i quali aderiscono quindi al grido
lanciato dal giudice Borrelli :”Resistere, resistere, resistere”.
Bisogna tenere la testa a posto. Colpisce in effetti quanto le
analisi siano contraddittorie, cosa tra l’altro molto normale.
Alcuni intellettuali transalpini temono un risorgere del fascismo,
altri evocano una spinta al liberismo, altri ancora denunciano i
comportamenti da mafioso, altri infine parlano della tirannia della
maggioranza. Peggio. Alcuni scrittori o artisti si disperano o
vilipendono il popolo e la sua supposta cecità, la sua ignoranza
grassa, la sua stupidità, la sua mancanza strutturale di senso
civico. Gli officianti di sinistra, in tutti i paesi, hanno una
deplorevole propensione ad idealizzare il popolo quando esso agisce
in conformità con i loro obiettivi, riconoscendosi, ad esempio, per
quanto riguarda la situazione attuale, nei nuovi movimenti sociali;
ma esprimono, viceversa, una reazione quasi aristocratica, come a
guardare il popolo dall’alto, a fustigarlo, per non dire
disprezzarlo, quando esso prende una direzione diversa. La frase
assassina di Brecht lanciata contro i dirigenti comunisti e tedeschi
nel 1953 (non rimane più che dissolvere il popolo, diceva con
ironia) mantiene tutto il suo mordente.
I francesi, dal canto loro, devono evitare due trappole. Da una lato
quella della semplificazione, che consiste nel credere che tutta l’intellighenzia
transalpina abbia aderito all’opposizione a Berlusconi. Bisogna
sapere, in effetti, che alcuni universitari (storici e politologi,
essenzialmente), e anche alcuni giornalisti - che hanno aderito in
passato al partito radicale o all’ex partito socialista italiano -
lo sostengono per anticonformismo, oltre che per il desiderio di
vedere trionfare il liberalismo politico in Italia, e per evitare
che sopravvenga una repubblica dei giudici. Pur criticando con
fermezza il Cavaliere su alcuni punti, e in particolare sul
conflitto di interessi, essi credono di poterlo utilizzare ai loro
fini, cosa che riteniamo illusoria. D’altro canto, è
assolutamente necessario che la Francia non assuma più la posizione
del paese che dà lezioni, che ha trovato il suo spaventapasseri
nella figura di Berlusconi e che si compiace a dare grandi lezioni
di morale, dispensandosi in questo modo dal chinarsi su ciò che
accade veramente in Italia ma anche in Francia…
In realtà, anziché lanciare anatemi, il compito essenziale da
svolgere dai due lati delle Alpi consiste nel produrre uno sforzo di
analisi non solo del fenomeno Berlusconi, di quello che rappresenta
per l’Italia contemporanea, o anche di ciò che rivela dello stato
generale dell’Europa, ma anche di tutte queste Rivoluzioni
invisibili (per riprendere il titolo di un’opera
significativa) che colpiscono e destabilizzano in profondità le
nostre società e i nostri comportamenti politici.
(Traduzione di Silvana Mazzoni)
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