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Un free-lance che stava là davanti per noi



Ettore Colombo



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Raffaelle Ciriello era un fotografo free-lance, anche se medico, di professione, specializzato in reportage all'estero. Sposato, con una figlia di un anno, aveva iniziato la sua carriera seguendo corse automobilistiche e rally africani, tra cui la Parigi-Dakar. Residente a Milano, Ciriello aveva poi documentato diversi conflitti. Sue alcune foto di Ilaria Alpi, uccisa in Somalia, e di Maria Grazia Cutuli, l'inviata del quotidiano di via Solferino uccisa il 19 novembre scorso in Afghanistan. Un ricordo affettuoso di Maria Grazia, sua collega e compagna di viaggio in Afghanistan, compare anche sul sito del fotoreporter (www.ciriello.com).

Sempre sul suo sito si trovano diverse immagini da lui scattate in Afghanistan, fin dal 1995, a Sarajevo, in Palestina, Rwanda e Uganda. E compaiono anche immagini del comandante Ahmed Shah Massud, ripreso prima del suo assassinio. Nel sito ci sono le foto del vecchio leone dello zoo di Kabul e del suo custode, sopravvissuti al regime dei talebani e alle bombe americane, che hanno fatto il giro del mondo. E quelle, drammatiche, del massacro e dei cadaveri di Srebrenica, in Bosnia, e della fuga disperata della popolazione di origine albanese. Collaboratore di diverse testate giornalistiche, Ciriello era stato accreditato in Medioriente dal Corriere della Sera.

Con la sua morte salgono a quasi 60 le vittime dell’informazione in tempo di guerra (erano stati 55 nel 2001 e 36 nel 1999), segno tangibile che più conflitti producono più morti, anche tra i reporter. Dei 26 reporter uccisi nel 2000, ad esempio, undici erano state vittime di gruppi ribelli o di movimenti indipendentisti. Come nel caso della Sierra Leone dove, ancora una volta, i professionisti dell’informazione erano finiti nel mirino dei ribelli del Fronte rivoluzionario unito, in guerra contro il regime di Freetown: tre i morti nel 2000 (ma erano stati dieci l’anno precedente) e molti quelli in fuga, come nel drammatico caso della giornalista della radiotv di Stato, Mildred Hanciles, cui i ribelli del Ruf hanno ucciso un figlio di 13 anni e che, solo alla fine del 2001, è riuscita a riparare - grazie al sostegno di Amnesty International - in Italia con il marito Edward. In Italia ha trovato il sostegno delle associazioni di giornalisti Inviati di Pace (Idp) (www.inviatidipace.it) e Informazioni senza frontiere (Isf) (www.italian.it/isf ), che stanno sensibilizzando la categoria e l’opinione pubblica sul suo caso, in attesa che il ministro degli Esteri e degli Interni le concedano l’asilo politico che ha richiesto.

Ma è stata la guerra in Afghanistan, prima ancora che quella in Medio Oriente, a fare la parte del leone, nell’eccidio di giornalisti, cameraman e fotografi, spesso free lance o comunque non assunti con regolare contratto giornalistico, fatto che ha - come nel caso di Ciriello - scatenato polemiche. Già l’assassinio dei primi quattro giornalisti, caduti sul fronte afgano (Maria Grazia Cutuli, inviata speciale inviata de Il Corriere della Sera, Julio Fuentes, giornalista di El Mundo, Harry Burton, cameraman australiano dell'agenzia stampa Reuters e Azizullah Haidari, fotografo di origine afgana della Reuters) lungo la strada che da Jalalabad porta a Kabul, aveva fatto subito pensare che gli assassini avessero agito a sangue freddo, con la precisa determinazione di uccidere i giornalisti. Ma dopo la morte dei quattro giornalisti caduti nell'agguato sulla via di Kabul, le vittime del mondo dell'informazione impegnato nella guerra in Afghanistan, sono diventate sette con i tre morti caduti in un'imboscata dei talebani mentre si dirigevano su un blindato dell'Alleanza del Nord a Taloqan: si trattava di Johanne Sutton, 34 anni, Pierre Billaud, 31 anni, entrambi francesi, inviati delle emittenti Radio France Internationale (Rfi) e Rtl, e del tedesco Volker Handloik, 40 anni, collaboratore del settimanale tedesco Stern.

Infine, il rapimento e poi l’esecuzione del giornalista americano di origine israeliana Daniel Pearl, 38 anni, reporter del Wall Street Journal rapito in Pakistan a gennaio e avvenuta dopo un mese di prigionia il 23 febbraio scorso testimonia il ruolo ambiguo che spesso giocano i media e gli Stati nel corso di guerre difficili e tormentate come quella in Afghanistan.

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