Quando il Piemonte impose la
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Antonio Carioti
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Dal 1862 al 2002: la lira italiana, alla quale daremo
definitivamente addio il prossimo 28 febbraio, è durata esattamente
140 anni. In fondo non è poco, anche se altre valute europee in via
di sparizione, appartenenti a Stati di più antica data, vantano
origini più remote. D’altronde il nome lira, derivante dall’unità
di peso denominata dai romani libra e più tardi libbra (all’incirca
mezzo chilo), era già in uso ai tempi di Carlo Magno.
All’epoca, oltre dodici secoli fa, la lira non era però una
moneta circolante, ma una semplice unità di misura. In argento,
corrispondeva a 20 soldi e 240 denari: questi ultimi erano gli unici
ad essere effettivamente coniati dalla zecca imperiale e a
tintinnare nelle tasche dei sudditi meno indigenti, perché anche il
soldo era solo un’unità di conto, non una moneta metallica.

Con il passare degli anni la progressiva
svalutazione del denaro fece sì che si perdesse il rapporto di
equivalenza tra la lira come peso e la lira come unità valutaria,
che ormai corrispondeva a molto meno di una libbra d’argento.
Infine nel XV secolo vennero coniate le prime monete denominate
lire, nel ducato di Milano e nella Repubblica di Venezia. Ma le lire
in uso nei diversi Stati italici non avevano lo stesso valore, senza
contare che nella penisola circolavano anche fiorini, ducati, scudi,
svanziche, baiocchi, paolini e chi più ne ha più ne metta.
Già nel Settecento si cominciò a parlare di unificazione
monetaria, per dare maggiore certezza agli scambi e favorire così
lo sviluppo economico. Ma all’epoca non c’erano le condizioni
per un’integrazione delle valute che precedesse quella politica. E
quest’ultima si poteva fare solo con la forza delle armi. Non a
caso la prima lira italica venne introdotta da Napoleone I, come
moneta dell’effimero regno d’Italia (comprendente peraltro solo
alcune regioni centro-settentrionali) incluso tra gli Stati
satellite che facevano da corona al suo impero.
Nell’Italia di metà Ottocento le valute più importanti erano la
lira piemontese (regno di Sardegna), la lira e il fiorino austriaci
(Lombardo-Veneto annesso all’impero asburgico), la lira toscana e
lo scudo lucchese (Granducato), lo scudo romano (Stato pontificio),
il ducato napoletano e l’onza siciliana (regno delle Due Sicilie).
Un discreto rompicapo.
L’unità d’Italia, com’è noto, avvenne in tempi brevi. Dallo
scoppio della seconda guerra d’indipendenza contro l’Austria
(aprile 1859) al plebiscito che sancì l’annessione al regno
sabaudo delle terre meridionali tolte ai Borboni da Giuseppe
Garibaldi (ottobre 1860) passa appena un anno e mezzo. Compiuta la
conquista militare, si trattava di costruire uno Stato nuovo su basi
ancora fragili, partendo da realtà alquanto eterogenee. E per
giunta il massimo tessitore dell’impresa, Camillo di Cavour, venne
a mancare quasi subito, il 6 giugno 1861. Roba da mettersi le mani
nei capelli.
La classe dirigente del neonato regno d’Italia era composta da
notabili di orientamento conservatore, non a caso passati alla
storia con il nome di “destra storica”. Gente severa, con il
culto dell’ordine, dotata di un forte senso delle istituzioni ma
quasi del tutto sprovvista di sensibilità sociale. Ebbero il merito
di dare alla nazione le strutture indispensabili per inserirsi nel
contesto delle potenze europee, ma facendo pagare al popolo, specie
ai più poveri, un prezzo molto elevato.
L’indirizzo fondamentale della loro politica, forse priva di
alternative praticabili ma certo assai dolorosa, fu la rapida
estensione a tutta la penisola delle leggi vigenti nel Piemonte
sabaudo, in un quadro di rigido accentramento amministrativo. Così
per le tasse, le tariffe doganali, la leva militare, le leggi
ecclesiastiche. E naturalmente la moneta.

In quest’ultimo caso la scelta di procedere in
fretta aveva anche una rilevante giustificazione sul piano
simbolico, perché lasciare in giro il denaro coniato dagli Stati
preunitari, con impressa sopra l’effigie dei sovrani spodestati,
avrebbe trasmesso ai nuovi sudditi di casa Savoia un senso di
precarietà. Bisognava che tutti gli italiani avessero al più
presto in mano le monete con lo stemma sabaudo e il volto di
Vittorio Emanuele II.
Fu una specie di corsa contro il tempo: nel luglio 1861 fu scelta l’impronta
da coniare; nel marzo 1862 venne stabilito il valore aureo della
nuova lira (0,29 grammi, pari a 4,5 grammi d’argento); nel maggio
successivo furono fissati i rapporti di cambio con le valute
destinate a sparire. Una lira piemontese corrispondeva a una lira
italiana, mentre la lira austriaca venne cambiata a 0,87 lire
italiane e una lira toscana a 0,84; per uno scudo pontificio,
invece, si ottenevano 5,38 lire.
Nella seconda metà del 1862 le tre zecche italiane, a Napoli,
Milano e Torino (Roma era ancora sotto il Papa) cominciarono a
coniare. Furono emessi 150 milioni di lire in monete d’oro e d’argento,
36 milioni in monete bronzee. Se si pensa alla complessità del
processo che ha condotto alla nascita dell’euro, si valutano
meglio l’audacia e la risolutezza dell’operazione compiuta dai
nostri governanti ottocenteschi in poco più di un anno.
Ovviamente i disagi per la popolazione furono enormi. All’epoca la
stragrande maggioranza dei cittadini non sapeva leggere né scrivere
e ovviamente non esisteva la televisione per informarli. Per chi era
abituato da sempre a una moneta, adottarne una nuova presentava
complicazioni enormi. Nei primi tempi la circolazione della lira fu
piuttosto limitata e ci vollero parecchi anni prima che sparissero
del tutto le valute preunitarie.
Il processo fu lungo e laborioso soprattutto al Sud, dove l’annessione
sabauda aveva suscitato le maggiori resistenze, ma anche altrove.
Basta pensare che il giornale tuttora più diffuso in Emilia, Il
Resto del Carlino di Bologna, venne fondato nel 1885, molti anni
dopo l’unificazione, ma prese il nome appunto da una moneta, il
carlino, in uso nelle legazioni pontificie.
Se per la lira unica si era andati avanti a spron battuto, per gli
istituti di emissione si procedette con maggiore cautela, cercando
di rispettare i sentimenti localistici. Nel 1860 venne fondata la
Banca nazionale del regno d’Italia, ma a due banche toscane, al
Banco di Napoli e al Banco di Sicilia venne lasciata la potestà di
battere moneta. E lo stesso diritto venne conservato, dopo il 1870 e
la presa di Porta Pia, dalla Banca romana.
Nel 1889 proprio un’inchiesta amministrativa sulla Banca romana
fece emergere clamorose irregolarità. Esplose il più grave
scandalo dell’Italia liberale, dal quale venne travolto il governo
guidato da un politico, Giovanni Giolitti, che sarebbe però tornato
trionfalmente in auge nei primi anni del Novecento. La Banca romana
venne liquidata e tutto il sistema creditizio fu riformato, con la
fusione della Banca nazionale e delle due banche toscane. Nacque
così la Banca d’Italia come principale istituto d’emissione,
anche se il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia continuarono ad
affiancarla in questo compito fino al 1926.
All’unificazione della valuta si aggiunse dunque il monopolio dell’emissione,
destinato a durare per tre quarti di secolo. Fino a quando la
sovranità monetaria, allargatasi da Torino a Roma, non si è
insediata a Francoforte: senza guerre, per fortuna, ma anche senza
unificazione politica. Un'operazione meno traumatica di quella del
1862, ma forse ancora più complicata.
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