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La musa inquietante



Tina Cosmai




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Una prosa leggera


Luca Scarlini, La Musa Inquietante Raffaello Cortina Editore Pag. 111 £. 16.000

Il computer è sempre esistito. E’ stato, nel tempo, l’immaginazione di una realtà altra che supera i confini della nostra quotidianità, del nostro universo emozionale. Una realtà che alimenta il nostro immaginario concretizzando quel processo dialettico dell’esistenza che si dipana nel conflitto tra spazio intellettuale e spazio emozionale.

Luca Scarlini, autore del saggio La musa inquietante, indaga e analizza la storia di questo processo, avanzando la tesi che il computer e la realtà cibernetica siano la concretizzazione di un’idea che ha sempre popolato l’immaginario dell’uomo. Ed è interessante leggere di come Scarlini ritrovi quest’idea nella storia della letteratura e delle arti in genere, compreso il cinema.

Più che un'idea, è un’immagine, quella di una macchina pensante, una sorta di fantasma che l’autore ritrova nelle riflessioni filosofiche e nelle fiction narrative a partire dall’Ottocento. La creazione del computer dunque ha una sua origine speculativa che supera il concetto illuminista di ausilio per l’uomo, per arrivare ad antropomorfizzare l’oggetto cibernetico.

Scarlini afferma che proprio nella letteratura, quella fantascientifica in particolare, ricorre questa paura della perfezione della macchina che tende a sostituirsi all’uomo, da qui la dinamica antropomorfa per ridurre il rischio comunicativo tra la macchina e la persona, il pericolo di evidenziare la finitudine dell’essere umano.

L’autore cita scrittori come Asimov, che hanno affrontato il tema della caducità dell’uomo rispetto all’elemento tecnologico avanzato, e in particolare il racconto Someday, in cui Asimov narra di due bambini incantati da un computer che racconta loro una fiaba. Così come Pierre Boulle ne Il robot imperfetto evoca uno scienziato che costruisce macchine e robot difettosi.

I robot innamorati confondevano i sessi. Le specie evolutive oscillavano tra situazioni incoerenti senza che si riuscisse a capire se tendevano al bene o al male, e anche i suoi più feroci detrattori furono obbligati a piegarsi e a riconoscere l’apparizione delle ultime caratteristiche umane che ancora mancavano: il senso artistico e il sense of humour

La fantascienza quindi, secondo Scarlini, è un terreno privilegiato, in quanto ha saputo cogliere, anticipando i tempi, il conflitto che la "macchina pensante" avrebbe generato nell’uomo. Negli anni Sessanta il rapporto dialettico tra uomo e robot diviene tema di romanzi, come Il grande ritratto di Dino Buzzati che Scarlini, contro la critica del tempo, definisce uno dei più belli dello scrittore di Belluno. E’ la storia di uno scienziato che costruisce un enorme computer ponendolo nelle viscere di una montagna.

La macchina ha il carattere della moglie scomparsa, Laura. La storia decisamente surreale, contiene varie metafore, non soltanto quella della macchina pensante, ma addirittura quella di una macchina che genera, che contiene un essere in sé. La solitudine della montagna evoca un ventre che procrea da solo, senza amore, nella affermazione di una visione solipsistica dell’esistenza.

Ma vi è anche un approccio creativo nella letteratura verso il computer, ed è quello che Scarlini riconosce ad esempio in Giorgio Manganelli e Augusto Frassinetti nello scritto dal titolo Teo o l’acceleratore della storia, in cui v’è una relazione positiva ed ironica con la macchina.

Certamente se si pensa a Philip K. Dick o a Thomas Pynchon, l’elemento paranoico nel rapporto con una realtà perfetta, che non ha in sé manifestazioni vulnerabili, crea scenari desolati e agghiaccianti, come li definisce lo stesso autore. I personaggi di Dick vivono un inferno personale in cui non si riesce a distinguere la realtà degli androidi da quella degli umani, il vero dal falso. La perfezione dunque genera solitudine, incomprensione.

Il viaggio di Scarlini all’interno della letteratura approda poi all’ipertesto, alla produzione di diverse espressioni, visive, sonore e alla narrativa in Rete. E’ molto interessante il concetto espreesso dall'autore che definisce la produzione di più testi come simbolo dei vari aspetti dell’animo umano.

La migliore definizione resta forse quella di Robert Coover, che in un articolo sulla New York Review of Books scriveva: "I lettori che si arrendono ai romanzi come se andassero in vacanza da loro stessi hanno paura di perdere quell’esperienza da sogno che è l’essere risucchiati dalla storia, ma questa caratteristica è presente anche nella lettura di una hyperfiction perché l’iperspazio è strano e somiglia molto più allo spazio interiore che a quello esterno".

D’altronde le premesse per un ipertesto c'erano già state nella letteratura cartacea e Scarlini cita Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, escursione in una serie di romanzi possibili, una vera e propria navigazione narrativa in cui il protagonista è il lettore stesso. Ma a parte la produzione di testi che si espandono in immagini, in suoni e così via, la connotazione forte della scrittura in Rete, secondo Scarlini, è l’accentuata individualità, la liberazione del linguaggio emozionale e quindi la tendenza a parlare di sé.

L'autore la definisce la pratica del diario in Rete, su cui molto è stato scritto da Philippe Lejeune, studioso di autobiografia. L’uso del nickname disinibisce sia chi scrive, sia chi riceve il testo scritto e dunque l’identità diviene un fattore relativo. Ciò che fluisce sono le parole, le emozioni, o meglio, quelle emozioni che nella realtà di fatto difficilmente vengono vissute.

Scarlini si ferma qui nella sua analisi, ma aggiungerei che la scrittura in Rete propone quel modello emozionale che lo scrittore immagina, creando una forte idealizzazione di sé e del suo interlocutore. Anche se, come scrive Luca Scarlini "l’identità è d’altra parte una realtà su cui molti si trovano ormai in disaccordo, indicandone la natura come convenzionale…" direi che la personalità espressa nella sua verità, nei suoi limiti, apre il varco a migliaia di spazi, emozionali, meditativi, che l’uomo spesso non ha il coraggio di esplorare.

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