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La stanza del polline



Paola Casella



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Zoë Jenny, La stanza del polline, Fazi Editore, pp. 107, £ 22.000

Sprofondo in un sogno ad occhi aperti. Sono molto più giovane, mia madre è in cucina, e prepara la cena per noi mentre io faccio i compiti. Si muove per casa. I rumori che fa sono lo sfondo sul quale anch'io mi muovo, sono un nastro che mi penetra dentro attraverso le orecchie. Da qualche parte in me è custodito ciascuno di quei suoni, così un giorno potrò rievocarli quando sarò sola, e ricordarmi il suo viso e mettermi a parlare con lei anche se lei non c'è.

La stanza del polline, il breve romanzo di esordio della ventisettenne svizzera Zoë Jenny che è diventato un piccolo caso letterario in tutto il mondo, è la storia di un'assenza, quella della madre della giovane protagonista, che abbandona il marito e la figlia ancora bambina e che viene ritrovata dalla figlia, ormai adolescente, quando per la disperazione dopo la morte del secondo marito (forse un suicidio, forse un incidente) si è rinchiusa in una stanza coperta da un tappeto di polline di fiori.

Del resto Lucy, la donna che anche sua figlia chiama solo per nome, non c'è neppure quando è fisicamente presente. E' l'incarnazione di un vuoto esistenziale totale e di un egocentrismo assoluto che tiene la figlia a perenne distanza, forse per puro egoismo, forse per perverso istinto materno, l'unico che possiede, quello teso ad allontanare la figlia dal pericolo.

La figlia la guarda, sempre da lontano, anche quando la vicinanza fisica è obbiettiva - ma continua a mancare il contatto - con apprensione, con diffidenza, con amore, l'amore incondizionato e acritico di un figlio non amato nei confronti di un genitore incapace di amare.

Mi viene un oscuro presentimento e un'urgenza improvvisa di chiederle se è sicura di essere lei quella che allora lasciò mio padre e salì sull'aereo e non piuttosto un'altra, e se è veramente sicura che io sia uscita da dentro di lei, perché mai come adesso mi sembra impossibile che sia così.

Il rapporto madre-figlia, ma anche quello fra la figlia e un padre contemporaneamente amato e compatito, è reso in uno stile immediato che coinvolge tutti e cinque i sensi, come si conviene a una protagonista che "sente i rumori con gli occhi". Bellissima la parte iniziale, che descrive la paura del buio di una bambina lasciata sola, e lo fa nel modo fattuale e diretto dei più piccoli, soprattutto quelli che hanno imparato presto a non aspettarsi protezione dagli adulti.

E fattuale, asciutto ed essenziale è tutto il racconto di Zoë Jenny, che si muove avanti e indietro nel tempo e nello spazio descrivendo una geografia interiore che ha i contorni della solitudine, e le emozioni allo stesso tempo ovattate ed estreme di chi, solo e senza il minimo senso del proprio valore - perché non le è stato insegnato, da due genitori inesistenti e interamente avviluppati dal loro stesso senso di nullità - vive tutto troppo intensamente e allo stesso tempo con troppo distacco, e comunque soggettivamente, togliendo alla realtà esterna qualunque parvenza di oggettività.

La giovane protagonista Jo è costretta a improvvisarsi adulta senza imparare a crescere, guidata da un istinto vitale e fondamentalmente sano, ma minata da una percezione negativa di fondo che le fa accettare passivamente una quasi-violenza e il conseguente aborto.

Non sto rovinando la suspence, perché non ce n'è, in un romanzo così laconico dove non contano i fatti, ma la percezione che ne ha l'io narrante. Non dico però come finisce la storia, né se il segreto di Lucy sia destinato a essere svelato, quel "grande segreto" che, dice la protagonista, "mi aveva divorato il terreno sotto i piedi come una bestia rapace eternamente affamata, che aveva divorato senza riguardo lo sfondo sul quale di volta in volta avrei voluto camminare".


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