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Proleterka



Francesco Roat



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Fleur Jaeggy, Proleterka, Adelphi, pp.114, L.25.000

Coglie nel segno fin dalla copertina l’ultimo romanzo di Fleur Jaeggy. Sullo sfondo azzurro si staglia una fotografia d’un bianco e nero raffinato e straniante che colpisce per il contrasto tra le due figure ritratte: un uomo severo dal tricorno calato in testa (riconducibile al padre della protagonista) e una fanciulla (verosimilmente sua figlia) dal sorriso algido e spaurito di chi soffre la paura del cielo, per dirla col titolo di un altro testo dell’autrice. E già siamo immersi nel cuore, nell’atmosfera della narrazione (o della riflessione, giacché in Proleterka gli ambiti narrativi s’alternano e si fondono con quelli meditativi) prima ancora di aprire il libro.

Ma pure chi non presta attenzione alla veste iconografica di Proleterka, solo leggendo l’incipit dalla semplicità estrema e insieme folgorante di questo breve ma intensissimo romanzo si trova subito a tu per tu col registro inconfondibile della Jaeggy; con un approccio stilistico fatto di periodi poveri di subordinate e brevi ma incisivi, scanditi attraverso una prosa franta, icastica, essenziale, sebbene ricca di immagini straordinariamente pregnanti, audacemente metaforiche, allusivamente evocative. Ci sono racconti, infatti, che impiegano capitoli interi per entrare nel vivo e altri, come questo, che alla prima pagina, alla prima frase ti trascinano all’interno del loro congegno narrativo affascinandoti con la loro espressività singolare.

“Sono passati molti anni e questa mattina ho un desiderio improvviso: vorrei le ceneri di mio padre. (…) A quel tempo non pensavo ai morti. Loro vengono incontro tardi. Richiamano quando sentono che diventiamo prede ed è ora di andare a caccia”. Superfluo commentare questo avvio così netto e deciso; già di per sé oltremodo significativo a riassumere un mondo emozionale, un modo di porsi nei confronti della scrittura e del sentire.

Ma non lesiniamo gli esempi. Ecco la scarna ma lucida descrizione del funerale del genitore: “Ho partecipato alle esequie. Nient’altro. Dopo la cerimonia sono andata via subito. Era una giornata azzurra, tutto era finito”. Qui, come altrove peraltro, ogni parola è ponderata, calibrata, esatta, come insostituibile. Quantunque a tutta prima possa apparire disadorno e sin troppo spoglio, lo stile della scrittrice privilegia un tono narrativo dimesso ma insieme vividamente espressivo, una scelta linguistico-lessicale tagliente e lucidissima. Come notevole è la capacità di tracciare in pochi e rari accenni il profilo d’un personaggio con un nitore dalla sapiente maestria descrittiva.

Anche la trama, la storia (come nelle opere precedenti) è altrettanto povera di intrecci quantunque ricca di significazioni emozionali. Un anziano padre e sua figlia adolescente trascorrono assieme in crociera una vacanza sulla nave Proleterka. Ma sono come due monadi estranee, due mondi le cui orbite parallele non sembrano destinate ad intersecarsi, e il viaggio - durante il quale la ragazza sperimenterà per la prima volta degli squallidi rapporti sessuali: sorta di iniziazione alla prosaicità della vita adulta - sancirà l’addio al genitore, destinato comunque a morire poco tempo dopo.

E già nell’uso della terza persona con cui, a tratti, l’io narrante femminile parla di sé e del padre (“Date le circostanze, la possibilità di una conoscenza più approfondita tra padre e figlia era assai limitata”) viene rimarcato il distacco, direi l’anticipazione del congedo: fil rouge che attraversa tutte le pagine del romanzo.

Un reiterato congedo rispetto alla vita stessa, espresso mediante un perenne commiato alle persone, al mondo e alle cose (“In un certo modo alcuni abbandonano gli affetti, i sentimenti come fossero cose. Con determinazione, senza tristezza. Diventano estranei”). Anche se si tratta d’un estraniarsi come difesa dall’anaffettività genitoriale. Lo dice a chiare lettere la protagonista parlando del gelido padre e della madre dedita solo all’idolatrato pianoforte. Non a caso lo stesso viaggio della Proleterka è all’insegna dell’abbandono già nel momento del distacco dal molo, quando la nave lancia “Un suono d’addio” e ormai “Non si può tornare indietro”.

Per tutta la crociera l’uomo sembra l’incarnazione stessa dell’assenza, dell’insignificanza in quanto cifra dell’assenza (egli è sempre “distratto, assente, altrove”); e la ragazza, la “figlia di Johannes” considera questi “Un fantasma accanto a me”. Sullo sfondo, gli altri partecipanti alla crociera; un gruppo di apatici e perbenisti borghesi elvetici: le consuete comparse dei racconti di Fleur Jaeggy, a rimarcare l’aura di nordica algidità che si respira in ogni suo scritto.

Freddezza la quale rimanda altresì ad un senso di perenne e sempre più marcata spoliazione che soffre la protagonista. Ma sono un po’ tutti vedovi - manchevoli d’affetti, almeno - i personaggi di Proleterka. Non solo il padre e l’anziana nonna della ragazza sperimentano la privazione dei loro coniugi. La viduitas, la vedovanza, che secondo Starobinski è figura del lutto melanconico, accomuna questi personaggi, per i quali non tanto un essere caro è venuto meno ma il mondo intero.

Tutto, qui, - tra sofferenti, paralitici, morituri e morti - è un continuo venir meno: in una dolorosa sottrazione che però è al contempo sprezzatura e affinamento; quasi una specie di laico esercizio ascetico. Un perenne memento mori; come l’iniziazione alla morte più che alla vita, compiuta di fatto dalla protagonista.

Così l’accondiscendere della giovane alle richieste erotiche di due ufficiali di bordo è un concedersi per non concedersi più. E’ un fare esperienza sessuale perché non vi sia necessità di esperienze ulteriori. E’ un approccio paradossale alla vicinanza affinché sia assolutamente mantenuta la distanza. Così il romanzo si chiude con la figlia che prende definitivamente congedo da Johannes (il quale forse non era nemmeno il suo vero padre) nel segno dell’oblio: indice d’un annichilimento se possibile maggiore ancora della morte stessa.


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