Violenza simbolica e subalternità
culturale
Pierre Bourdieu con Sergio Benvenuto
Questa intervista fa parte dell’Enciclopedia multimediale delle
scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in
collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e
con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica
Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.
L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme
d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica,
la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei
termini vivi della cultura contemporanea.
Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it
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Violenza simbolica e
subalternità culturale
Professor Bourdieu, nell’ambito del suo pensiero, lei ha
elaborato il concetto di "violenza simbolica". Che cosa
intende con questa nozione?
La nozione di violenza simbolica mi è parsa necessaria per designare
una forma di violenza che possiamo chiamare "dolce" e quasi
invisibile, una violenza che svolge un ruolo importante in molte
situazioni e relazioni umane. Per esempio, nelle rappresentazioni
ordinarie, la relazione pedagogica è vista come un’azione di
elevazione dove il mittente si mette, in qualche modo, alla portata
del ricevente per portarlo a elevarsi fino al sapere, di cui il
mittente è il portatore. Una visione non falsa, ma che maschera
l'aspetto di violenza.
La relazione pedagogica, per quanto possa essere attenta alle attese
del ricevente, implica un'imposizione arbitraria di un arbitrio
culturale. Per fare un esempio, basta paragonare - come si sta
iniziando a fare - gli insegnamenti della filosofia negli Stati Uniti,
in Italia, in Germania, in Francia, ecc.: si vede, allora, che il
Pantheon dei filosofi che ognuno di questi tipi nazionali di
insegnamento impone ai discenti è estremamente diverso e una parte
dei malintesi nella comunicazione tra i filosofi dei diversi paesi
consistono nel fatto che essi sono stati esposti, all'epoca della loro
prima iniziazione, a una certa arbitrarietà culturale. E a questo
proposito che ho elaborato la nozione di "violenza simbolica”.
A proposito della filosofia, può fare degli esempi di diversità
da Paese a Paese?
Evidentemente, il fatto che ogni paese abbia i suoi filosofi preferiti
- come i suoi scrittori o musicisti preferiti- mi pare alquanto
normale e banale. In che senso le particolarità culturali nazionali
si traducono in una violenza sugli allievi? Nel senso che gli allievi
ricevono con il crisma della necessità, universalità e quindi
legittimità qualcosa che invece è particolare storicamente
condizionato. La nozione di violenza simbolica diventa importante
quando legittima questo qualcosa di particolare e di storicamente
condizionato. Agli allievi viene quindi mutilata la coscienza, le loro
conoscenze e via dicendo. Con l’aggravante che questa mutilazione,
non apparendo in quanto tale, proprio in quanto è disconosciuta viene
tacitamente riconosciuta.
Quei ragazzi e ragazze credono di accedere alla filosofia nella sua
universalità, mentre accedono a una sua forma del tutto particolare.
Mi rendo conto che il mio discorso è rozzo e molto generale, per cui
potrebbe apparire un po' riduttivo e semplicista.
Possiamo entrare anche più nei dettagli. Prendiamo, ad esempio, il
pensiero di John L. Austin, filosofo inglese che a mio avviso è tra
più importanti della contemporaneità. Ebbene, egli è stato tradotto
in Francia non molto tempo fa, appena quindici anni or sono, con una
prefazione nella quale il presentatore si scusava di presentare un
autore tanto triviale (ovviamente appariva tale perché filtrato
attraverso i canoni della filosofia tedesca, che erano dominanti
nell'insegnamento francese).
Austin, insomma, appariva un po' pedestre, e tutte le raffinatezze del
suo pensiero sfuggivano del tutto ai lettori francesi. In Francia,
certo, ma questo è un esempio emblematico del fatto che molte
conquiste del pensiero universale sembrano quasi non cumulabili, e
perciò si continuano ad opporre le filosofie continentali e le
filosofie anglosassoni ...
In sintesi, penso che il sistema educativo - al pari di altre istanze,
come quelle statuali - eserciti sulle persone che gli sono affidate
delle forme di violenza che possiamo chiamare dolci, impercettibili,
insensibili, infinitesimali: esse consistono nell'imporre, per
esempio, certe categorie del pensiero.
Molto tempo fa scrissi un articolo, un lavoro giovanile, S’intitolava
Sistemi di insegnamento e sistemi di pensiero in cui l'intuizione
centrale riprendeva Durkheim, Marcel Mauss e anche Lèvi-Strauss a
proposito delle forme di classificazione nelle società primitive.
La mia idea era che anche nelle nostre società differenziate, il
sistema scolastico è uno dei luoghi dove si trasmettono le forme di
classificazione, i principi classificatori, le tassonomie, e ciò
accade anche per la filosofia, nella quale le tassonomie altro non
sono se non i concetti che usiamo per classificare i filosofi (uno
empirista, l’altro positivista e via dicendo).
Queste tassonomie diventano delle strutture mentali attraverso cui
percepiamo il mondo intellettuale per il quale esse sono state
formate, ma anche il mondo sociale. E’ proprio questo ciò che
intendo per violenza simbolica: inculcare forme mentali, strutture
mentali arbitrarie, storiche, un’operazione che plasma, in qualche
modo, gli spiriti e che li rende poi disponibili a effetti d’imposizione
fondati sulla riattivazione di queste categorie.
Anche se può apparire astratto, la violenza simbolica è a mio avviso
una violenza cognitiva, che può funzionare solo appoggiandosi sulle
strutture cognitive di chi la subisce.
Secondo me la parola "coscienza" è senz’altro di troppo e
mi pare pericoloso nella misura in cui si può pensare che la vittima
della violenza simbolica abdichi coscientemente alla propria libertà
di dissidenza. Io, invece, penso che la violenza simbolica si eserciti
con la complicità di strutture cognitive che non sono consce,
strutture profondamente incorporate, che - per esempio nel caso della
dominazione maschile- si apprendono attraverso la maniera di
comportarsi, la maniera di sedersi - gli uomini non si siedono come le
donne, per esempio.
Ci sono molti studi di questo tipo: sulle maniere di parlare, di
gesticolare, di guardare a seconda dei sessi e dei ceti sociali. Nella
maggior parte delle società si insegna alle donne ad abbassare gli
occhi quando sono guardate, per esempio. Dunque, attraverso questi
apprendimenti corporei, vengono insegnate delle strutture, delle
opposizioni tra l'alto e il basso, tra il diritto e il curvo.
Il diritto evidentemente è maschile, tutta la morale dell'onore delle
società mediterranee si riassume nella parola "diritto" o
"dritto": "tieniti dritto" vuol dire "sii un
uomo d'onore, guarda dritto in faccia, fai fronte, guarda nel
viso"; la parola "fronte" è assolutamente centrale,
come in "far fronte a". In altri termini, attraverso delle
strutture linguistiche che sono, allo stesso tempo, strutture
corporali, si inculcano delle categorie di percezione, di
apprezzamento, di valutazione, e allo stesso tempo dei principi di
azione sui quali si basano le azioni, le ingiunzioni simboliche (le
ingiunzioni del sistema di insegnamento, dell'ordine maschile, ecc).
In sintesi, è attraverso una logica disposizionale che l'ordine si
impone.
Lei sta forse pensando a certi testi femministi, i quali affermano
che per sfuggire alla violenza simbolica maschile le donne devono
prendere coscienza della loro inferiorità, della loro sottomissione,
ecc. Lei sta forse contestando questa idea secondo cui la soluzione
della questione della violenza simbolica consisterebbe in una presa di
coscienza delle donne?
Proprio così. Penso che la nozione di "presa di coscienza"
non sia stata oggetto di sufficiente riflessione, e questo è
abbastanza comune in un certo tipo di femminismo, anche se un altro
tipo di femminismo si avvicina maggiormente alle analisi da me
proposte e alla tradizione marxista. Insomma, dal mio punto di vista,
questa nozione di presa di coscienza è molto ingenua, in quanto
lascia supporre che i dominati - si tratti dei proletari nella
tradizione marxista o delle donne nella tradizione femminista -
potrebbero liberarsi dalla dominazione attraverso una presa di
coscienza dei meccanismi della dominazione.
Mentre in realtà questi meccanismi di dominazione sono, allo stesso
tempo, sia nell'oggettività (sotto forma di differenziazione nella
divisione del lavoro, ecc.), sia in quel che possiamo chiamare la
soggettività (nelle strutture mentali, sotto forma, appunto, di
categorie di percezione, di valutazione, ecc.).
Queste categorie di percezione e di valutazione sono al di là o al di
qua, poco importa, della presa di coscienza. In fondo, la dominazione
maschile è una costrizione attraverso il corpo; la dominazione è
fatta di forme o catene logico-pratiche, di disposizioni corporee
dell'ordine di quello che la filosofia classica cartesiana
classificava sotto la parola "passione".
In sostanza, le disposizioni sono maniere di essere permanenti,
inscritte in noi attraverso l'apprendimento, attraverso le ingiunzioni
insensibili del mondo sociale, della famiglia ecc., e sono molto
difficili da trasformare.
Si tratta dell'hexis nella tradizione aristotelica, o dell'habitus
nella tradizione tomista. Habitus è la traduzione latina dell'hexis
aristotelica. Lo dico per ricordare che si tratta di qualcosa di
acquisito: hexis viene da echein, ìavereî. Il verbo habeo indica
qualcosa di acquisito attraverso l'apprendimento, quindi qualcosa di
costituito storicamente; il che implica che è storicamente
decostituibile.
Infatti, qualcosa di storicamente costituito può sempre essere
decostituito, trasformato dalla storia. Semplicemente, si opera un
lavoro storico, e questo non può operarsi attraverso il miracolo di
una presa di coscienza. E questo è importante per differenziare la
nozione di violenza simbolica dal semplice effetto di imposizione.
Professor Bourdieu, secondo Lei i media esercitano una violenza
simbolica?
Personalmente, penso che si possa capire l'azione dei media unicamente
nella logica della violenza simbolica. I media, cioè, esercitano un
effetto proporzionato alle loro capacità di manipolare le strutture
precostituite della mente delle persone.
Di conseguenza, uno dei problemi è sapere che queste strutture
precostituite hanno delle condizioni sociali di possibilità: esse
sono costituite, alla lunga, da tutta una serie di azioni. C'è un
lavoro di fabbricazione delle categorie mentali, e allo stesso tempo
ci può essere un lavoro di decostruzione, di trasformazione di queste
categorie.
Per questo la nozione di presa di coscienza è inadeguata. Prendiamo
un esempio semplice, tra gli esempi classici di John L. Austin: quello
di un ufficiale che dà un ordine a un soldato. E’ una cosa
estremamente misteriosa. Perché qualcuno obbedisce a un ordine? Si
vede bene che quel che sta dietro all'esecuzione di un ordine è
l'ordine militare, la disciplina. Ma la disciplina è un concetto
molto esterno, e numerosi sistemi sociali fanno a meno della
disciplina.
Le forme più potenti di dominazione sono dominazioni senza
disciplina, ed è il caso, per esempio, dell'ordine familiare,
dell'ordine domestico, è il caso dell'ordine religioso, almeno in
gran parte. Certo, abbiamo la disciplina d’Ignazio di Loyola.
Indubbiamente, c'è disciplina anche nella religione, ma una parte
considerevole del funzionamento di un ordine religioso si fa sulla
base di disposizioni dell'habitus religioso.
La questione diventa dunque di sapere come si sono costituiti questo
ordine militare incorporato, questa sottomissione che rende possibile
l'obbedienza immediata; in altri termini, come sono fabbricate le
disposizioni permanenti alla sottomissione. Allora, per esempio, per
capire le disposizioni femminili alla sottomissione, bisogna prendere
in esame l'insieme dell'ordine sociale strutturato sulla divisione
maschile-femminile, che è pieno di ingiunzioni, di richiami
all'ordine.
Perché le donne sono sottomesse, così come certe categorie di
persone, spesso appartenenti a classi sociali meno abbienti? In che
senso Lei può dire che queste persone sono dominate? Non dovremmo,
piuttosto, affermare il contrario?
Per esempio, in Italia ci sono molti canali televisivi che programmano
degli spettacoli commerciali tradizionali molto seguiti, e questo ne
fa dei canali molto potenti; viceversa, i programmi di avanguardia e
di nicchia sono molto poco seguiti, e quindi anche molto deboli. In
che senso allora, Lei può affermare che avere dei gusti tradizionali
è una forma di sottomissione?
Di fatto in tutte le società le donne sono nella posizione di
dominate e la dominazione che esse subiscono è tipicamente
illustrativa di quel che chiamo violenza simbolica. Ma una delle
ragioni, mi pare, è connessa a quel che chiamo il mercato dei beni
simbolici, dove circola un genere di beni che hanno valore soltanto
per persone che abbiano certe categorie di percezione per apprezzarli.
Prendo l'esempio dell'opera d'arte, che è un oggetto grezzo per
chiunque non abbia categorie di percezione adeguate. Faccio un esempio
semplicissimo. Un mio amico, Dario Gamboni, ha fatto una ricerca
aneddotica, ma allo stesso tempo rivelatrice: in una cittadina della
Svizzera, la cui municipalità aveva avuto l'idea di esporre nei
giardini pubblici degli oggetti d'arte moderna, degli spazzini hanno
portato via un oggetto d'arte moderna prendendolo per un rifiuto e
l'hanno sbattuto nell'immondizia.
Gamboni ha analizzato come le cose si sono svolte, ha cercato di
individuare chi ha preso posizione pro o contro. Ebbene, questo è
evidentemente un caso-limite, ma emblematico dello scarto tra
l'oggetto in quanto costruito in un universo dove circolano agenti che
hanno categorie di percezione capaci di costituire determinati oggetti
come oggetti d'arte, e gli universi sociali ordinari, dove ci sono
anche persone per le quali, in assenza di categorie di percezione
adeguate, quell'oggetto ridiventa grezzo, un oggetto qualsiasi.
La dominazione non è numerica: si può essere maggioritari
numericamente e minoritari simbolicamente. Questo è il caso,
precisamente, di tutti i campi dell'arte. Allora, il relativismo che
lei suggerisce, l'idea che dopo tutto le forme più popolari di arte
hanno altrettanto valore perché sono plebiscitate, ebbene, questa
forma di relativismo è relativizzabile. Infatti vediamo molto bene
che ci sono mercati importanti - il mercato scolastico, il mercato
mondano - nei quali certe opere valgono e altre non valgono. Per dire
le cose in maniera molto semplice, consideriamo il linguaggio, un
campo nel quale la dominazione simbolica si esercita nella maniera
più visibile: per esempio, le diseguaglianze di accento sono
estremamente potenti nella maggior parte delle società.
Parlare con un accento regionale non è certamente in sé e per sé un
fatto di sottomissione o di inferiorità, ma è un indizio a partire
dal quale il linguaggio viene sperimentato nella sottomissione, nella
vergogna, nell'insicurezza linguistica. A livello generale, ci sono
pronunce legittime e tacitamente riconosciute come tali dai locutori
delle lingue o delle pronunce dominanti; in questo caso, uno degli
indizi del riconoscimento della dominazione è il fatto che si tenda a
correggere il proprio accento. Prendete un locutore con una certa
pronuncia, che appartiene ad una lingua dalla pronuncia dominata, ed
esponetelo a una situazione ufficiale, formale: inconsciamente
tenderà a correggere il proprio accento, il che rischia però di
svalutarlo ancora di più, perché, una volta scomparso il tratto
pittoresco del suo accento iniziale, si troverà nella situazione
tipicamente piccolo-borghese della ricerca della distinzione, in una
situazione di pretenziosità. La cosiddetta volgarità consiste spesso
nel fatto che uno che non è naturalmente distinto, cioé non plasmato
in modo da esserlo spontaneamente, assume gli atteggiamenti di chi è
distinto.
Veniamo ora a un altro esempio molto semplice. Un sociologo o
linguista originario del Ghana ha scritto un articolo pubblicato su
una rivista americana, a proposito della traduzione di un mio libro
dedicato al tema del linguaggio e della dominazione simbolica. Qui
egli dice che nel Ghana, dopo l'indipendenza, dopo l'autonomia, gli
africani continuano a sforzarsi di adottare l'inglese standard. Egli
descrive in maniera abbastanza raffinata come questi sforzi si
segnalino con posture corporee: ci sono maniere di tenere la testa, di
portare il corpo, di tenere la bocca che si impongono a chi vuol
mimare la pronuncia nasale dell'accento britannico. Dunque, è
evidente come in questo caso strutture di dominazione legate ad un
certo mercato linguistico nel quale la lingua inglese è dominante
possano perpetuarsi: c'è, per così dire, una sorta di inerzia delle
strutture.
Dunque, per tornare all'esempio del relativismo, penso che le persone
che possono avere pratiche culturali numericamente dominanti restano
culturalmente e simbolicamente dominate, quindi sottoposte ad una
forma di violenza simbolica. Questo accade precisamente perché, in
primo luogo, ci sono una quantità di situazioni nelle quali i loro
gusti, preferenze, sono automaticamente svalutati; e queste situazioni
sono, in generale, dominanti. Il sistema scolastico è una delle vie
di accesso alle posizioni dominanti. D'altro canto le loro stesse
pratiche manifestano questo, anche se possono fare i fanfaroni e dire
"ma io preferisco le canzonette del mio paese!". Le loro
stesse pratiche, nelle situazioni difficili, formali nel senso
anglo-sassone del termine, ufficiali, mostrano che essi riconoscono la
loro inferiorità, anche loro malgrado. E il loro corpo riconosce
questa inferiorità, proprio come i cittadini del Ghana non possono
evitare di sentire il loro brutto accento, di soffrirne, di sentirsi
in una situazione di insicurezza quando si trovano con un locutore
dominante, o in una situazione difficile, dominati dalla norma.
In sintesi, la sua idea di "violenza simbolica" non si
sovrappone ad una idea economicista, marxista, più in generale ad una
idea che tende a identificare i dominati con i poveri, o con i più
poveri di una società. In pratica, secondo lei, si può essere allo
stesso tempo simbolicamente dominati e ricchi sul piano economico?
Certo, assolutamente. Secondo me, una delle funzioni della nozione di
violenza simbolica è stata quella di rendere intelligibili certe
forme di dominazione che l'economismo della tradizione marxista, e
tutte le teorie prima disponibili sul fenomeno della dominazione,
lasciavano inesplicate. I due terreni su cui la violenza simbolica si
evidenzia meglio che in altri sono la dominazione linguistica e la
dominazione maschile. In questi due casi, l'economicismo brutale cerca
di rendere conto degli effetti di dominio attraverso la logica della
dominazione materiale, dicendo "i rapporti uomini/donne sono
rapporti di sfruttamento e si possono misurare in tempi di lavoro, o
nel rapporto tra il lavoro e i salari."
Ma tutte le analisi di questo tipo sono fondamentalmente viziose,
perché, credo, esse sono del tutto incapaci di rendere conto della
pratica, del fatto che la dominazione maschile, per esempio, possa
esercitarsi in assenza di qualsiasi costrizione economica. Un effetto
di questo fenomeno, del resto, è che la liberazione economica, nella
misura in cui viene realizzata, è lungi dall'essere compiuta nella
maggior parte delle società sviluppate, in quanto le donne guadagnano
sempre meno degli uomini. Ma al di là di questo, ciò che mi preme
sottolineare è che la liberazione economica non comporta affatto la
liberazione simbolica; in posizioni economicamente del tutto dominanti
vi sono delle donne che continuano a subire la dominazione maschile.
Facciamo un esempio. Abbiamo pubblicato da poco un libro collettivo
dal titolo La misère du monde, nel quale studiamo soprattutto forme
non convenzionali di miseria. Studiamo, certo, le forme estreme, come
la disoccupazione di lunga durata, ma studiamo anche delle forme di
miseria piccolo-borghese. Qui, fino all'ultimo momento, sono stato
tentato di pubblicare il colloquio che ho avuto con una donna
dirigente - ma una dirigente di un livello molto alto- la quale mi ha
detto delle cose molto interessanti. Il suo confrontarsi con
situazioni di potere che doveva esercitare, in parte, su uomini le
risultava talmente penoso che doveva farsi massaggiare tutte le
mattine, e compiere tutto un lavoro corporeo, per poter sopportare
qualcosa di molto più pesante di uno stress: una specie di tensione
strutturale legata al fatto che era indotta a vivere un'inversione
sociale della relazione di dominazione, un'inversione che il suo corpo
non seguiva. In altre parole, tutta la situazione le diceva "sei
una dirigente, sei Presidentessa, stai nell'ufficio del Presidente,
hai l'autorità del Presidente e la tua firma è quella del
Presidente, hai tutti i titoli del Presidente, lo stato ti consacra
come Presidente", eppure il suo corpo diceva "sono donna e
ho paura."
Prendo un altro esempio: la timidezza. In un certo senso, più sono
consacrato socialmente, più sono timido e più il mio corpo, come
dire, si rifiuta di intendere quel che dice la situazione sociale. La
situazione sociale dice "tu hai tutti i titoli per essere
un'autorità, sei autorizzato a parlare con autorità", ma
proprio in quel momento scatta la timidezza, uno degli indizi di
quella sorta di corto circuito tra una specie di conoscenza corporea e
la conoscenza intellettuale. Líintellettualismo è comunque
dominante, è la filosofia implicita di tutti gli intellettuali;
purtroppo l'intellettualismo fa dimenticare che il corpo è là, con
la sua logica, e che ci sono delle conoscenze che si fanno solo
attraverso il corpo. Penso che le forme di conoscenza di cui sto
parlando, che sono il fondamento dei rapporti tra i sessi ad esempio,
oppure dei comportamenti sportivi, sono forme di conoscenza corporea:
si conosce col proprio corpo, non necessariamente con la propria
coscienza.
Sulla base della Sua teoria, si deve concludere che questa violenza
simbolica si eserciti molto presto, cioé nella prima infanzia. Tutti
gli esempi che ha portato sin qui dicono che anche se nella vita
adulta si acquisisce una posizione dominante, le esperienze di
acculturazione nella prima infanzia restano decisive. Dunque, si
tratta di qualcosa che passa attraverso i genitori, o il quartiere o
gli amici della prima infanzia?
Penso che sia così. Ed è qui che va effettuata un'articolazione tra
l'analisi sociologica e l'analisi psicoanalitica. Penso, cioé, che le
prime esperienze del mondo sociale si facciano all'interno di quel
microcosmo sociale che è la famiglia: in essa ci sono
differenziazioni, c'è una divisione del lavoro e gerarchie politiche,
ci sono rapporti di dominio, di dominazione simbolica, e c'è una
polizia simbolica. In certi casi può essere la violenza fisica che
gli uomini esercitano sulle donne, e può essere anche violenza
simbolica, ad esempio il fatto che ci siano delle precedenze: uno si
siederà prima dell'altro; ci sono sguardi, ingiunzioni.
Dunque c'è tutto un sistema politico già all'interno della famiglia,
un sistema politico sessuato e sessuale. Ma questo non significa che
l'analisi psicoanalitica non vada effettuata. A proposito di Freud, mi
piace citare sempre una frase di un grande storico della Vienna fin di
secolo: "Freud dimentica che Edipo era un figlio di re." Il
padre, cioé, è un padre socialmente costituito, e il rapporto con il
padre è socialmente costituito, e tutto quel che si impara nel mondo,
nel microcosmo familiare, è strutturante in modo molto potente
perché, appunto, tutto è doppiamente codificato, nel senso che le
relazioni sociali sono codificate sia sessualmente che socialmente.
Per portare un esempio, altrimenti entreremmo in uno sviluppo
interminabile: quando si dice sottomissione, con questo termine si
vuol dire sotto-mettersi, mettersi sotto. Non molto tempo fa, ho
svolto un lavoro su un popolo berbero dell'Africa del Nord che ha
pochissime mitologie . Presso questo popolo, per esempio, uno dei rari
discorsi che assomigli ad un mito, ad un discorso giustificatore
dell'ordine sociale, dice pressappoco che in origine gli uomini e le
donne erano eguali. Le donne andavano alla fontana - la fontana, nel
mito, è il luogo femminile per eccellenza. Un giorno, la donna ha
avuto l'idea di far l'amore con l'uomo (nella visione maschile è la
donna ad essere perversa, è lei l'iniziatrice della perversione
sessuale) dicendo all'uomo: "Vieni, e vedrai, faremo qualcosa di
veramente straordinario", e così lei ha fatto l'amore con lui,
mettendosi sopra di lui, a cavalcioni. Poi l'uomo ha voluto
ricominciare, ma ha detto: "Da ora in poi, la cosa non succederà
più alla fontana - nel luogo femminile -, la cosa avverrà in casa, e
sarò io a mettermi sopra di te." In altri termini, c'è un mito
che giustifica questa opposizione sopra/sotto, la quale è fortemente
strutturante. Alto/basso, sopra/sotto, sono princÏpi di percezione
del mondo sociale. Si dirà allora "una posizione elevata",
"un discorso nobile, cioé elevato", mentre un accento
volgare è "un accento basso", rozzo, ecc. Così queste
opposizioni fondamentali sono doppiamente connotate.
Le si potrebbe obiettare che ciò che lei chiama violenza simbolica
è semplicemente il fatto che esistono delle culture. Ovvero, possiamo
supporre che qualsiasi cultura, anche nel Borneo, tra i selvaggi come
nelle società industriali, determina dei dominanti e dei dominati.
Infatti, ogni cultura prescrive leggi o regole, e in rapporto a queste
leggi o regole ci sono alcuni che risultano più adatti o adattabili,
e altri meno. Dunque, c'è in ogni caso una gerarchia che viene a
formarsi, in qualsiasi cultura, anche nella più
"comunista". Di conseguenza, il concetto stesso di cultura
non implica comunque violenza? E se questa violenza è connaturata al
fatto stesso della cultura, perchè connotarla negativamente come
violenza?
Il fatto che la violenza sia universale non implica che non sia
violenza. Inoltre, certo, la violenza simbolica è una forma
universale di violenza. A questo riguardo credo anzi che la nozione di
violenza simbolica serva a ricordarci un aspetto fondamentale della
nozione di cultura. Si è soliti dire che la cultura è una specie di
codice comune a due locutori, che fa sì che i due locutori associno
lo stesso senso allo stesso segno, e lo stesso segno allo stesso
senso; dunque la cultura è un medium di comunicazione, perché il
linguaggio è un medium di comunicazione.
Si può dire che a partire da una teoria della cultura o del
linguaggio, o di qualsiasi altro strumento simbolico, si può
elaborare una filosofia del consenso. Il consenso è il fatto di
essere d'accordo sul codice di comunicazione. Ebbene, penso che la
nozione di violenza simbolica sia molto importante per ricordarci che
questo consenso sul codice rende possibile una comunicazione che a sua
volta rende possibile la dominazione. In altri termini, la violenza
simbolica è una dominazione che suppone un codice comune. E questo è
importantissimo: la dominazione all'interno di una società si compie
sulla base di un codice comune, nella misura in cui, attraverso il
sistema di insegnamento, i dominati acquistano un minimo di accesso al
codice culturale comune, che una forma di dominazione puÚ esercitarsi
su di loro.
In altre parole, avviene qualcosa di molto paradossale. Ad una visione
semplice della cultura si sostituisce una definizione bifaccia:
d'accordo, la cultura è uno strumento di comunicazione ma, allo
stesso tempo, è uno strumento di dominazione che suppone la
comunicazione. Dunque, non si può dire "è un bene, è un
male." Usciamo dalle dicotomie ordinarie.
A proposito del ruolo dello stato, inoltre, sulla scia di Weber
sottoscrivo in pieno l'idea che lo stato detiene il monopolio della
violenza legittima; ma io aggiungo che lo stato ha anche il monopolio
della violenza simbolica legittima. Lo stato, cioé, è un grande
produttore di codici comuni.
Professor Bourdieu, Lei pensa che le società o le culture che
hanno un forte senso dello stato siano più violente, simbolicamente,
delle società che ne hanno uno minore?
Io credo che l'importante sia riconoscere che lo stato è una realtà
profondamente ambigua proprio dal punto di vista del problema che
stiamo ponendo. Insomma, lo stato impone delle categorie di percezione
comuni all' insieme degli agenti di una società. Può essere il
Pantheon dei filosofi di cui ho parlato all'inizio, possono essere le
strutture dell'ortografia per le quali un certo numero di
intellettuali francesi oggi si battono come se fosse in gioco il
destino dell'umanità, possono essere le strutture della grammatica,
può essere qualsiasi tipo di cosa. Ebbene, lo stato attraverso la
potenza della scuola pubblica, può imporre tutte queste cose alla
totalità di una popolazione.
Ogni ragazzino o ragazzina di Francia conosce un certo numero di cose
in materia di cultura. Allora questa universalità storica,
all'interno dei limiti di una nazione, è estremamente importante
perché essa fonda un consenso, dei riflessi comuni. Allo stesso
tempo, essa è parzialmente fittizia, poiché il fatto che nessuno è
autorizzato ad ignorare la legge vuol dire che chiunque la ignori
sarà punito; ma non siamo mai sicuri che tutti coloro che vengono
puniti la conoscessero, perché non siamo sicuri di aver dato a tutti
l'accesso a quella conoscenza. Forse è utile ricorrere a un esempio
giuridico. Oggi sappiamo molto bene che nei processi legali
l'ineguaglianza sociale si manifesta fondamentalmente nel fatto che
gli agenti sociali più svantaggiati culturalmente non sanno
costituire il loro caso come caso giuridico.
Non sanno fare quel lavoro linguistico-politico richiesto dal sistema
giuridico. Il sistema giudiziario richiede che un querelante sappia
costituire un contenzioso tra vicini, che sappia costruire un caso
suscettibile di essere raccontato, in modo calmo, in forma di querela,
o di denuncia, di fronte ad un tribunale. Occorre fare un lavoro di
conversione. Un altro esempio: nelle inchieste per sondaggio, si
chiede alla gente "Lei pensa che il governo Rocard sia stato
migliore o peggiore del governo Mauroy? Lei pensa che Berlusconi
porterà verso un regime neo-liberale o al contrario verso un regime
neo-fascista?". Questo tipo di domande possono essere oggetto di
risposte solo per soggetti sociali che conoscono la legge politica; e
cioé, si suppone che occorra porre i problemi politici in termini
politici, che si possano porre questo tipo di domande; in apparenza
"si suppone che nessuno ignori la legge", e che qualsiasi
persona interrogata in occasione di una elezione o in occasione di un
sondaggio abbia gli strumenti per rispondere ad una domanda di quel
tipo; invece, di fatto questi strumenti sono ripartiti in modo molto
diseguale.
E questo lo si vede, per esempio, da chi si rifiuta di rispondere, da
chi risponde "Non so" a domande del tipo di quelle che ho
posto poco prima. Si sa già da prima che la percentuale delle donne
che diranno "Non so, non posso rispondere" sarà molto più
elevata della percentuale degli uomini. Si sa già che la percentuale
delle persone che risponderanno crescerà in proporzione con
l'elevarsi nella gerarchia sociale, crescerà in proporzione con
l'elevarsi nella gerarchia del livello di istruzione. A fortiori, se
si interroga la gente, si vedrà che la parte delle persone dotate
degli strumenti che permettono loro di porre i problemi politici nei
termini in cui sono loro posti dagli intervistatori, la quota, cioé,
delle persone capaci di effettuare questo lavoro di trasformazione
cresce in modo molto forte man mano che cresce l'accesso
all'istruzione e al linguaggio che si impara a scuola.
Gli stessi partiti politici, in forme diverse, sono degli strumenti di
esercizio della violenza simbolica, anche i partiti cosiddetti
populisti. Il populismo, anzi, è particolarmente interessante,
perché esso ha due modi di sfruttare la dominazione simbolica, ovvero
gli effetti della dominazione simbolica. Si possono sfruttare questi
effetti in modo innocente, come fanno i partiti comunisti, o
socialisti, tradizionali; questi partiti richiedono che il loro
portavoce si esprima nella lingua standard, in conformità alle norme
linguistiche ufficiali, che parli politicamente di politica, gli
chiedono, cioé, di "parlare politicamente" al posto di
coloro che non hanno gli strumenti per parlare politicamente della
politica, contrariamente a quel che ho detto poco fa. E certo questi
portavoce esercitano una violenza proprio in quanto danno voce alla
gente, quindi non si sa se usano le parole che pronuncerebbero quelle
persone comuni se avessero la parola. In altri termini, nel migliore
dei casi il delegato, chi si presenta come porta-parola della gente
che non ha la parola, commette una usurpazione più o meno importante,
approfittando del silenzio provocato dalla violenza simbolica sulla
classe dominata. Si può parlare al posto di, sostituirsi a,
sostituirsi al discorso di altri. La soluzione populista, invece, è
terribilmente viziosa, perché consiste nel mimare la parola popolare,
e dunque a dare una soddisfazione - ma una soddisfazione a mio parere
del tutto illusoria - alla parola popolare.
Lei ritiene che le iniziative e le soddisfazioni che i partiti
politici possano portare alla parola e alla causa popolare siano
soltanto illusorie?
Sì, siamo di fronte a soddisfazioni illusorie, perché non poggiano
su un ascolto reale della parola popolare, oppure poggia su un ascolto
superficiale. Per esempio, si sa molto bene che, oggi, tutti i libri
che si occupano del variegato tema della miseria del mondo vertono su
questo: che al giorno d'oggi ci sono delle miserie sociali molto
profonde. In una società come la Francia - ma credo nella maggior
parte delle società europee - esiste una miseria sociale che è
legata, per esempio, alla coabitazione, nei quartieri multietnici e
nelle scuole, tra persone che hanno visioni del mondo, abitudini molto
diverse tra loro. E queste sofferenze non si accompagnano
necessariamente ad un discorso costituito, esse si esprimono con
collere, violenze, razzismo, espressioni brutali, impulsi
padroneggiati male.
Allora, nella visione democratica tradizionale, ci sono dei portavoce
che vogliono il bene del popolo, ma che vogliono la felicità del
popolo buon mercato. Costoro possono dire "bisogna assolutamente
sradicare il razzismo da quella gente", e fanno una sorta di
predicazione che non giunge mai alla comprensione delle cause reali:
"che cosa è il razzismo, che cosa esso vuol dire?". D'altro
canto, si possono sfruttare molto bene quelle pulsioni in un
linguaggio che dia un'espressione in apparenza giustificata, in un
linguaggio che sfrutti quelle sofferenze senza darsi minimamente i
mezzi per investire le cause. Ma allora che cosa bisogna fare? I
filosofi fanno sempre delle analogie con Socrate, ma per una volta
sarà un sociologo a servirsi della analogia socratica. Infatti, penso
che occorra una funzione tipicamente socratica - ed è quel che
abbiamo cercato di fare in questo libro, Le miserie del mondo.
Penso che nel mondo sociale, sotto l'effetto della violenza simbolica,
molte persone sono spossessate di ogni mezzo di espressione. E' così:
sono spossessati degli strumenti simbolici di espressione delle
proprie esperienze, delle proprie sofferenze; e uno dei grandi
problemi oggi è quello di restituire loro questi strumenti di
espressione. Allora, su scala globale è molto difficile. Sulla scala
di una relazione di scambio, di dialogo, tra un sociologo o un
ricercatore da una parte e una persona comune dall'altra, si può fare
un lavoro di tipo socratico, vale a dire dare alla persona spossessata
la possibilità di esprimersi. E' il postulato di Socrate. Infatti,
Lachete sa molto bene che cosa sia il coraggio, ma non ha gli
strumenti per dirlo. Eutifrone sa molto bene che cosa sia la pietà
religiosa, ma non ha gli strumenti per dirlo. Bisogna quindi aiutarli
a partorire dalla loro sofferenza e, se è possibile, dalle strutture
sociali che sono al principio della sua sofferenza, delle costrizioni,
delle tensioni, delle violenze, e bisogna assisterlo con una specie di
intervento ad un tempo coercitivo e liberatorio. E questa, ovviamente,
è una funzione che i politici oggi non assolvono affatto, e nemmeno i
demagoghi che sfruttano i discorsi apparenti, di destra o di sinistra
che siano
Coerentemente col suo pensiero, possiamo dire che in tutte le
culture si esercitano forme di violenza simbolica e che quindi,
direbbe qualcuno, tutte le culture sono fondamentalmente fasciste. Lei
ora propone una specie di metodo socratico. Professor Bourdieu, è
dunque possibile sognare una società dedita alla maieutica socratica,
dove la violenza simbolica sia assente?
In verità non mi piace molto l'affermazione per cui tutte le culture
sarebbero fasciste. Rispetto molto la provocazione, che svolge delle
funzioni estetiche, politiche, importanti, che riescono a svegliarci.
Ma in certi casi l'eccesso di provocazione è pericoloso perché
derealizza e credo che dire delle cose così eccessive sia proprio una
maniera di occultare quel che chiamo la violenza simbolica. Il lavoro
di tutta la mia vita è consistito nel prendere sul serio le forme
dolci, impercettibili, insensibili di violenza, di andare a cercare la
violenza là dove nessuno si aspetterebbe di vederla, nel rapporto
pedagogico, dove essa è. La mia idea di fondo è che scovando la
violenza simbolica, rendendola visibile, manifestandola, si può
mettere in moto la ricerca dei mezzi per combatterla.
Allora, per esempio, perché la violenza pedagogica, con la quale
abbiamo iniziato, è particolarmente perversa? La violenza pedagogica
consiste nell'imporre dei saperi, delle conoscenze che si pensano
universali; l'esempio più tipico è quello della matematica. Ma tutte
le culture si pretendono universali. Ogni professore che insegna
filosofia oppure letteratura in Francia, in Italia, negli Stati Uniti,
ecc., ha l'impressione di dare l'occasione ai suoi ascoltatori di
avere accesso all'universale. Di fatto, penso che questa violenza
attraverso l'universale sia particolarmente perversa e che sia
importante dire alla gente che questo preteso universale ha in realtà
una genealogia, ha avuto una genesi, cosa che non gli toglie nulla
della sua importanza: solo cosÏ possiamo guardare ad esso da una
posizione libera. Persino la matematica non è caduta dal cielo,
dentro la nostra coscienza: essa è il prodotto di una storia, il
prodotto della storia di un universo particolare.
Per questo credo che, tra gli strumenti di liberazione dalla violenza
simbolica, certi strumenti specifici degli intellettuali, e penso in
particolare alla genealogia di Michel Foucault, siano molto utili.
Relativamente a Foucault, penso che la sua storia sociale dei
concetti, la storia sociale delle nozioni universali, vissute come
universali sia estremamente importante, non per relativizzare questi
concetti, e quindi il concetto stesso di violenza simbolica, ma per
mostrare come si sono sviluppate le condizioni sociali di possibilità
di queste nozioni.
Per concludere, vorrei sottolineare che si può certo imporre
l'universale universalmente, si può dire "tutti i francesi
devono sapere questo o quello", oppure "tutti i cittadini
del mondo devono rispettare i diritti dell'uomo" ma solo a
condizione di universalizzare le condizioni di accesso all'universale.
Insomma, se da una parte si dice che "nessuno è autorizzato ad
ignorare la legge" e, dall'altra, si da solo ad una piccolissima
parte l'accesso alla conoscenza della legge, l'universale diviene uno
strumento di oppressione particolarmente perverso. In fondo, la forma
per eccellenza della violenza simbolica - è terribile dirlo- è
proprio un certo uso dei diritti dell'uomo.
(Traduzione di Sergio Benvenuto)
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