Rent
José Luis Sànchez-Martìn
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Nei giorni scorsi abbiamo seguito a Roma due spettacoli un po’
diversi da quelli di cui solitamente riferiamo in questa pagina, che
in genere appartengono al teatro che vanta le etichette, non sempre
meritate, di “sperimentale”, “d’avanguardia” o “di ricerca”.
Sono molto diversi anche tra di loro, visto che si rivolgono a modelli
produttivi quasi agli antipodi, attingendo anche a un bagaglio
culturale e di tradizioni nate e radicate in luoghi e tempi
completamente differenti. Si tratta della versione italiana del
musical newyorkese Rent e dello spettacolo comico del duo
siciliano “Ficarra & Picone” (vedi alla sezione
"Teatro").

Rent è in scena al Teatro Ambra Jovinelli di Roma, vecchia
gloria del Varietà e della Rivista italiani dove debuttarono tra gli
altri Petrolini e Totò. Chiuso per anni dopo la triste decadenza nel
cinema pornografico e lo spogliarello e recentemente restaurato, l’Ambra
Jovinelli è stato riaperto con un seguito di polemiche, visto che
secondo alcuni sembrerebbe che sia rimasto poco del teatro originale e
soprattutto perché, con questo “particolare” restauro, sono state
ricavate all’interno del teatro un’agenzia di banca e la
succursale di un noto grande magazzino.
Come abbiamo già detto, Rent è la versione italiana di un
musical americano di grande successo in patria, con un nutrito gruppo
di giovani cantanti-attori, impegnati ed efficaci, in particolare gli
intensi e coinvolgenti Michel Altieri, Karima Machehor e il cubano
Laronte, accompagnati dal vivo da una banda rock di grande
professionalità. E’ la storia di alcuni amici, tutti più o meno
artisti, che cercano di aprirsi uno spazio professionale e umano nella
spietata New York e devono fare i conti sia con la minaccia e le
conseguenze dell’aids e della droga, sia con l’imminente sfratto
dall’appartamento-rifugio al quale tutti fanno o hanno fatto capo.
Tra le difficoltà nascono e finiscono storie d’amore, muoiono o
sopravvivono le vittime delle malattie, si fanno o si rifiutano
compromessi con il denaro.

Interessante sulla carta, questa versione italiana, pubblicizzata come
fedele all’originale, è un’operazione superficialmente
commerciale che cerca di spacciare apparente trasgressione e giovanile
impegno a buon mercato, risultando più un noioso concertino pop che
sembra un lunghissimo carosello, piuttosto che la cruda e amara
riflessione esistenziale sul nostro tempo che il programma di sala
propone.
Certo il sorprendente campionario di luoghi comuni delle situazioni,
dei personaggi e delle musiche appartengono di già al molto
sopravvalutato copione americano, che la produzione italiana si è
limitata ad assecondare fino in fondo. Ma la cosa più importante che
ai nostri occhi risalta in modo eclatante è l’inadeguatezza a
rapportarsi con un modello teatrale, una storia e dei personaggi nati
altrove, in un altro contesto culturale e sociale, un mondo che ci ha
colonizzato talmente in profondo da non riconoscerlo più come altrui.
Dalle movenze al modo di cantare, dalla gestualità alla pronuncia
dell’italiano, dai riferimenti e forse fino alla loro inesistenza,
nell’agire di questi attori tutto ci parla della mancanza di un’identità
culturale e teatrale che possa appropriarsi di una storia di altri,
senza questa vuota, povera e insignificante identificazione.
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