Rovistando nei depositi della
nostalgia
Italo Moscati
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sognare il mondo
Rovistando nei depositi della
nostalgia
Forse, per parlare di musical sotto il profilo delle sue origini,
bisognerebbe mettere il mondo sotto sopra. Questo paradosso mi è
stato suggerito da un film abbastanza recente che ha circolato anche
in Italia senza troppa fortuna. Si tratta di Topsy Turvy, che
nella traduzione significa appunto “sottosopra”, diretto da Mike
Leigh. Chi lo conosce, sa che si tratta della elegante e minuziosa
ricostruzione dell’epoca londinese di William Gilbert e Arthur
Sullivan, autori di operette famose che entrano nel patrimonio
genetico del musical come viene riconosciuto dalle più autorevoli
storie del cinema.
E’ proprio dai contenuti di queste storie scritte a partire da
quando il cinema aveva compiuto mezzo secolo di vita nel Novecento,
che scaturisce un mio personale , e spero comunque non solitario,
bisogno di mettere sottosopra il mondo di cui dicevo, il mondo del
musical beninteso, con un’avvertenza preliminare, che è questa:
sono convinto che non si possa parlare di questo affascinante genere
cinematografico senza tenere conto, indicandole semplicemente, le
vicende di un secolo che volta è stato chiamato “breve”, “sterminato”,
“innominabile” e addirittura percorso unicamente “da idee
assassine”.
Ovvero, mi sono convinto, studiando il Novecento, che il giudizio
generale sul secolo appena trascorso abbia doverosamente visitato
fondamentali aspetti militari, politici, ideologici (dalle guerre alle
rivoluzioni, dal comunismo al nazismo e al fascismo, dalle
responsabilità dei potenti alle domande d’emancipazione dei
diseredati) lasciando però ampie zone d’ombra. Una di queste zone
credo che sia costituita dal cinema e dallo spettacolo d’intrattenimento,
e quindi anche e soprattutto dal cinema leggero, musicale, figlio di
un dio minore.
Le storie del cinema che ho consultato e che sono, ripeto, tra le più
tradizionali e autorevoli, liquidano il musical con poche battute e
non si pongono il problema di raccontarne e di approfondirne le
origini. Questa rilettura ha confermato una mia vecchia idea, e cioè
che gli storici del cinema di un passato neanche troppo remoto hanno
generalmente considerato l’intrattenimento come un qualcosa di
secondario, come un soffice materasso quasi invisibile schiacciato dal
corpo massiccio costituito dai film capolavoro - non c’è bisogno,
credo, di citare qualche titolo - e dai loro autori.
Se può accadere che la tendenza venga corretta, l’eccezione
riguarda il divismo e i suoi indimenticabili dei - anche in questo
caso le citazioni sono inutili - per una ragione che a me pare
evidente, e cioè che il divismo costituisce per la maggioranza degli
storici la faccia sacrificale della gloria del grande schermo, e cioè
la conferma del film capolavoro sotto un’altra luce.
Un esempio adesso lo debbo fare. Si sarebbe mai parlato così tanto
della leggendaria Marylin Monroe se la splendida bionda, come altri
attori famosi, non fosse diventata il simbolo dell’altra faccia,
quella maledetta, di Hollywood? se, nella ancora misteriosa fine di
Marylin, gli storici di cui parlo non vedessero il volto diabolico
della cosiddetta macchina dei sogni, il volto dell’industria e dell’
inganno?
Insomma, lo sappiamo: quando un divo muore tragicamente gode di una
particolare e tenace garanzia d’immortalità da parte di chi scrive
la storia del cinema, mentre se come Fred Astaire continua a lungo a
far suonare il tip tap sulla pista della nostra immaginazione il mito
rimane ma sembra perdere di solennità, sembra uscire dalla leggenda
ed entrare negli archivi di un’ ammirazione più ovvia e
addomesticata.
Ma si tratta davvero di archivi, di magazzini per scorie preziose, di
polverosi depositi della nostalgia? E -comunque sia - cosa nascondono
questi ripostigli dove si agitano ancora, pieni di energia, gli
intelligenti piedi di Fred Astaire, Gene Kelly, Judy Garland, Mickey
Rooney e di tanti altri sconosciuti di un’ eterna “chorus lane”,
le visioni coreografiche di Busby Berkley ,le parole e le note di
Rodgers e Hammerstein II, la fantasiosa razionalità di Vincente
Minnelli?
Ricordando il film di Leigh, Topsy Turvy, e la Londra
vittoriana della coppia Gilbert e Sullivan, ho detto che le loro
operette fanno parte delle radici del musical, un genere che le storie
e le enciclopedie dello spettacolo corredano di una lunga serie di
appendici qualificative per cui si tratta di muoversi in un complesso
labirinto tra musical comedy, musical play, musical fantasy, musical
romance, musical show, musical review, tutte definizioni che
esplicitano caratteristiche e parentele, e rimandano ad un sincretismo
di ascendenze confluite in un gran ballo scandito da forme impetuose e
poi svanite come il burlesque, la ballad-opera, l’opera comique, la
Savoy opera, l’ operetta e la rivista. Forme che sono l’eco
lontana di voci che arrivano ai giorni nostri, e portano a Show
Boat, a West Side Story o a Grease, in un
tripudio di trasfusioni invisibili che hanno fatto e continuano a fare
piccoli e grandi miracoli creativi ,sul filo del rasoio di un ritmo
,anzi del ritmo inteso come entusiasmante modello agonistico per l’uomo
che in tenta di afferrare il tempo e i suoi movimenti.
Pur avendo tutte le carte in regola rispetto allo sviluppo e agli
intrecci dello spettacolo, la vicenda del musical, quello che
conosciamo e ci insegue dall’inizio del cinema sonoro, può essere
per diversi aspetti ricostruita secondo influenze a catena all’interno
della cultura europea; ma ciò forse non basta a spiegare un’avventura
che ancora continua grazie al sempre attento interesse , diventato
ormai vero e proprio culto, verso quei film- da Quarantaduesima
strada a Un americano a Parigi, per citarne due
esemplari - che hanno trovato un grande presente e un grande avvenire
nei nuovi modi della circolazione dei film, dalle videocassette e al
modernissimo dvd .
Com’è noto, la cultura europea sbarcò nel nuovo continente con l’intero
suo corredo massicciamente stratificato e per anni e anni l’emigrazione
rimase a lungo costante in questo senso. Gran parte del cinema, e
quindi anche del musical, devono molto a questo trasferimento
imponente e inarrestabile, in un processo di fusione che è stato
intenso soprattutto a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. In
modo particolare la musica, specchio dei desideri che spesso non
trovano le parole adatte per svelarsi, viaggiava con le parole delle
canzoni degli emigranti di vario ceto (fra di essi c’erano anche gli
artisti) più velocemente dei mezzi di trasporto allora disponibili. E
in un volgere di tempo abbastanza rapido i biglietti di andata non
diventavano anche ritorno, accelerando scambi, cambiamenti,
ibridazioni.
Ecco un punto importante. A mano a mano che i bastimenti andavano e
venivano, e nascevano quelle canzoni mentre sugli oceano affioravano
le potenti onde di nuovi ritmi, era l’America a rovesciare le cose,
a far proprie forme europee e a restituire qualcosa di assolutamente
inedito in quanto assunto e trasformato.
La situazione ad un certo punto cambiò radicalmente le prospettive.
Se in Europa l’operetta e le altre forme di musica cosiddetta
leggera, erano nate all’interno del grande tronco della musica
colta, negli Stati Uniti, in assenza di un solido patrimonio di musica
classica, furono il folclore e quindi il jazz a gettare le basi per
una realtà indipendente, con una propria originale evoluzione. Si
assisteva all’affermazione di una tendenza opposta, con la
cosiddetta musica colta a sua volta ispirata, per più di un elemento,
al patrimonio della musica popolare. Per testimoniare concretamente un
rovesciamento che diventerà sempre più significativo, uno studioso
come Carlo Donà fa il nome di George Gershwin, l’autore di tante
canzoni e di tante opere tra cui il mio amatissimo ”Americano a
Parigi”, protagonista di un fenomeno impensabile in Europa, e cioè
di rappresentare con il suo lavoro la rivoluzionaria scelta compiuta
da un musicista che ,partito da posizioni “leggere”, prese ad
affrontare con fortuna la composizione sinfonica e l’opera, ambiti
decisamente “seri”.
Il rovesciamento e le conseguenze che determinò, agirono in pochi
decenni. Si passò dai “mistrel shows”, spettacoli che attingevano
al folclore, spettacoli misti di canti, danze, parodie e sketch comici
(qui gli attori , prevalentemente bianchi, si tingevano il volto di
nero) alla rivista così come l’America l’ha successivamente
esportata da noi, in Europa, realizzata secondo un equilibrato
dosaggio di ballerine attraenti, canzoni di successo, scenografie
sfarzose, spazi comici.
Dalla rivista al musical il salto fu rapido, con l’aggiunta rispetto
allo schema della rivista di una più complessa struttura
drammaturgica e musicale. Ma l’analogia con l’operetta, che si
ritrova ancora un po’ dovunque in saggi e storie del musical anche
cinematografico , sempre secondo Donà, sembra esagerata. Il musical
non deve rivendicare nulla alla musica colta europea, ha preso vita,
ha vissuto e vive di un’esistenza autonoma come un po’ tutta la
musica popolare nordamericana.
C’è una data, il 1865, fissata come inizio del genere. Era l’anno
in cui venne rappresentato sulle scene di New York The Black Crook
con musiche firmate da Charles M. Barras, un musical di cinque ore e
mezzo di durata che ebbe un successo clamoroso e repliche per oltre
due anni.
Trent’anni dopo, nel 1895, quando il cinema cominciò il suo
irresistibile cammino cinema, il musical teatrale aveva raggiunto in
America una tale solidità da costituire uno dei capitoli più
significativi della cultura di quella attivissima e inventiva parte
del mondo. Era un serbatoio di energie che però con poteva ancora
esplodere. Era un fuoco che ardeva sotto un altro fuoco, quello delle
immagini del cinema muto, di un cinema che stava facendo di un
handicap - la mancanza appunto delle sonorità - una straordinaria
fonte di emozioni e di ricerche stilistiche. La tecnica limitata del
muto spingeva i registi a forzare la semplice illustrazione delle cose
e delle persone e a farne un’arte capace di diventare totale, come
reclamavano i primi teorici dell’espressività in pellicola.
Se l’illusione di diventare arte totale, si sarebbe molto
ridimensionata rispetto agli entusiasmi del debutti tremolanti dei
Lumiere, dei loro seguaci e degli imitatori, è interessante
soffermarsi un momento sui tentativi di dare alle immagini mute il
contributo se non della parola (che restava comunque nelle scritte tra
una scena e l’altra) della musica come accompagnamento autonomo
eseguito ai piedi dello schermo e come campo di esperienze per
musicisti attratti dai ritrovati della tecnica.
All’argomento, al rapporto tra cinema e musica, dedica un suo studio
Gianni Rondolino che è rilevante per i documenti e le riflessioni che
propone soprattutto per quanto riguarda il muto. Qui l’handicap
poteva essere superato con la collaborazione di musicisti che non si
lasciavano strumentalizzare da un curioso compito affidato alla
musica, quello di coprire il fastidioso rumore dei rozzi proiettori
primitivi, e si lasciavano invece tentare da un nuovo campo di
esperiementi da realizzare.
Il rapporto riveste una notevole importanza anche per quanto andiamo
dicendo sulle origini del musical cinematografico, sul quasi musical
che si stava preparando nel buio dei laboratori degli alchimisti della
celluloide. Tra i numerosi nomi illustri, Rondolino ricorda Ildebrando
Pizzetti che nel 1911 accettò, su richiesta di Gabriele D’Annunzio,
di scrivere una partitura per Cabiria di Giovanni Pastrone; o
Pietro Mascagni che scrisse nel 1915 una partitura per il film Rapsodia
satanica di Nino Oxilia, commediografo autore di Addio
giovinezza, interpretato da Lyda Borelli; mentre, in America, per
la “prima” proprio di Cabiria il commento musicale passò
dalle mani di Pizzetti a quelle di Joseph Carl Breil, il quale poi
venne ingaggiato per il commento di Nascita di una nazione del
grande David Wark Griffith.
L’elenco dei compositori che si misero al lavoro è lunghissimo e
annovera appunto altri nomi illustri sia in Europa che negli Stati
Uniti, ma l’elenco non può ovviamente comprendete gli illustri
sconosciuti, i musicisti anonimi che capirono molto presto la
possibilità di tramutare le possibilità che si offrivano loro per
dare ragione a quanto osservava in un articolo del 1922 lo scrittore
Joseph Roth- quello della Cripta dei capuccini, della Leggenda
del santo bevitore e di altri bellissimi romanzi - affermando che
senza la musica il cinema era spaventosamente vuoto.
Tra gli anonimi c’erano tutti coloro che preparavano la maturazione
delle nuove soluzioni tecniche ,estetiche, tematiche che portarono ai
primi musical dello schermo e alla colonna sonora, la vera innovazione
musical del Novecento. In prima fila erano gli orchestratori e gli
arrangiatori che rivaleggiavano con gli esperti della fotografia e
degli altri collaboratori del film per mettersi al servizio del
regista e dello spettacolo allo scopo di portare il linguaggio
cinematografico alla completezza a cui ci siamo ormai abituati e di
cui oggi nessun film può fare a meno. Tra questi personaggi saliti
alla ribalta da sotto il lenzuolo bianco, dove un pianoforte o un’orchestra
teneva il passo con lo svolgimento delle immagini, un nome viene
particolarmente menzionato. E’ quello di Max Steiner, un musicista
nato a Vienna ma educato a New York, che aprì la strada ad una
definitiva integrazione della musica con l’azione scandita dal
fluire dei fotogrammi.
Da Vienna a New York, dunque, la musica volava attraverso Steiner e
altri come lui che consentivano il successo di nuove sensazioni
attraverso un viaggio nello spazio geografico che divenne anche un
viaggio della fantasia e nella creatività. Era un viaggio simbolo di
tutta la immensa tradizione europea riversata nel ribollente crogiolo
americano in cui le voci delle piantagioni di cotone s’infilavano,
suggerendolo e anzi stimolandolo, nel folclore country e nel più
maturo, modernissimo spazio del jazz e dei suoi derivati su su fino al
rock and roll.
Era, per parafrasare il titolo del film di Griffith, la nascita di una
sorprendente nazione del suono e delle emozioni, con caratteri sempre
più avvolgenti e facilmente assimilabili. Era l’alba e poi il
radioso mattino di un cinema che tendeva ad eliminare i contrasti,
tanto sul piano dei contenuti quanto su quello delle forme. Un cinema,
commenta Rondolino, che si presentava esplicitamente “edulcorato”,
cioè reso accattivante e suggestivo, che abbisognava di una musica
altrettanto “edulcorata”, quella che appunto era garantita da un
diverso modo di pensare e di scrivere la musica, per arrivare al
musical, con la conseguenza che il cinema che copia sempre più il
musical anche quando sembra negarlo, come prova il maggior peso, direi
l’essenziale quantità e qualità delle colonne sonore che
contribuiscono a dare impatto, forza, capacità di seduzione al cinema
che vediamo oggi.
Qualche riferimento storico può aiutare a capire meglio quando stava
accadendo durante la stagione fertilissima di “almost musical”,
ovvero del musical che stava per venire alle luce e godere di un
avvenire splendente quanto quello illuminato da un altro sole, il sol
dell’avvenire delle rivoluzioni e del socialismo.
Faccio un solo nome, quello dello storico George Mosse . Mosse ,nel
suo ben noto e apprezzato libro intitolato La nazionalizzazione
delle masse apparso nel 1974, ci racconta come dietro il sipario
strappato delle vicende politico-militari si potevano ormai vedere
nettamente le trame delle ideologie interpretate in senso totalitario,
e come queste trame trovarono nel passaggio dei due secoli alle nostre
spalle un terreno adatto nella ricerca di risposte ai propri bisogni
da parte delle masse popolari. Pongo la mia sottolineatura in forma di
domanda: l’irruzione delle masse alla ribalta delle storia, con le
canalizzazioni autoritarie a cui abbiamo assistito con il comunismo,
il fascismo e il nazismo, non ebbe anche un volto segreto, quello poi
individuato, recepito e sfruttato dalle stesse ideologie totalitarie?
Alla domanda, io rispondo così. Credo proprio che il tempo di “almost
musical” sia proprio quello in cui si decideva una spartizione
decisiva. I poteri totalitari capirono, sempre più in fretta, che non
ci sarebbe stato dominio senza una cultura d’intrattenimento in
grado di ammaliare le masse, persuadendole e consolandole. Ma se il
disegno si verificò in modi diversi e puntuali, come dimostrano le
vicende della musica e di altri mezzi d’emozione e di comunicazione
a largo spettro di diffusione, è pure vero che sì questo processo
annetteva a sé il consenso, organizzandone gli strumenti adatti, e
tuttavia ad esso sfuggiva qualcosa di notevole che soltanto oggi
possiamo distinguere.
Il processo volto a ottenere un consenso assoluto tesseva a maglie
larghe, spazi in cui erano suggeriti orizzonti e desideri, e lasciava
inavvertitamente aperte ampie zone franche di richieste più esigenti
e complesse . Non si producevano vere e proprie reazioni di
contrapposizione, ma si rendevano possibili fratture e buchi, spesso
impercettibili o camuffati, in quelle aree dei comportamenti di massa
insofferenti, riluttanti a farsi inquadrare nei ranghi dello
sterminato esercito degli spettatori conformisti.
Il musical, anche quando era “almost musical”, aveva in sé la
potenzialità di sprigionare liberare energie liberatorie anche se
portava mille e una maschera. Intendo il musical rilanciato e
reinventato dal cinema, in quanto spettacolo assai diverso da quello
del passato, forma d’intrattenimento, d’arte e quindi di cultura
sottratta alla tradizione e rilanciata con regole e finalità nuove. E’,
come scrive Michael Wood in suo saggio , il cinema, una novità
pressochè assoluta, apparsa sulla scena del mondo dove irrompono le
masse , presentandosi come “un universo indipendente, che si crea e
si perpetua in piena autonomia, una zona autorizzata di irrealtà,
affezionatamente frequentata da tutti noi, l’unico luogo al mondo
“ dove si può fingere di perdere la memoria.
Wood scrive anche che “il divertimento non è, come spesso pensiamo,
una vera e propria fuga dai nostri problemi, e neanche un mezzo per
dimenticarli completamente, ma piuttosto un loro riordinamento in
forme che li ammorbidiscono e li relegano ai margini della nostra
attenzione”; e osserva ancora a proposito dell’industria del
divertimento: “Il mondo della morte, della guerra, della minaccia e
della catastrofe esiste realmente, e viene anche menzionato, ma è
reso subito irrilevante dalla trama o dal divo o dalla musica”.
Quindi, aggiungo io, se questo mondo terribile è reso irrilevante
dallo schermo, può accadere che lo si possa guardarle senza farsi
schiacciare.
Mi avvio alla conclusione, sapendo bene che la realtà che abbiamo
voluto circoscrivere sotto il titolo Almost Musical è
sfuggente e soprattutto si afferra a pochi nomi. Il fatto è che il
musical, nelle sue fasi embrionali, è un bianco cimitero sonoro di
grandi senza nome , è un luogo dove si sono celebrati i gioiosi
funerali del jazz nero e dove si sono guadagnati un pizzico di
esistenza i creatori di quei preziosi serbatoi di canzoni a cui hanno
attinto i grandi compositori di questo genere specialissimo. Anzi,
come osserva Gianfranco Vinay, è il posto dove si compongono le
febbri della canzone e della danza sincopata, dove si scatena a uso
del pubblico la catarsi del movimento, dell’eccitazione accumulata.
I piedi di Fred Astaire battono per tutti e per la carica nervosa di
tutti.
Quando li rivediamo, i capolavori del musical, essi ripetono la
lezione di sempre che non sappiamo o vogliamo ricordare. I meccanismi
del musical (ripetitività, parodia, predominio della componente
ritmica, memorabilità tematica) sono gli stessi su cui, conclude
Vinay, si basano le tendenze che, con termine semplicisticamente
generico, sono etichettate come “post-moderne”. Sono i meccanismi
che vengono prodotti dalla stessa civiltà che ha fatto nascere il
musical. Ma la differenza fondamentale è che nel musical, anche
quello più “impegnato” e “serio”, l’ironia è sempre sullo
sfondo. E l’ironia non è qualcosa che si impara, è qualcosa che si
vive. E’ una presa di distanza che presuppone un’assimilazione
integrale dei linguaggi che circolano dentro una società, anche se
non sappiamo sempre da sono venuti.
Finisco con una citazione di The sound of Music, un film del
1965 che ho rivisto in cassetta di recente, diretto da Robert Wise, il
regista che aveva fatto solo quattro anni prima West Side Story,
un’opera ben più riuscita ed efficace, uno degli ultimi capolavori
del musical.
The sound of Music, che con poca grazia in Italia è stato
ribattezzato Tutti insieme appassionatamente, è tratto
da un romanzo ed è a suo modo una pellicola impegnata nel senso che
infila una polemica antinazista in una famiglia austriaca composta da
un padre vedovo e da sette figli che vengono affidati ad una
governante interpretata da Julie Andrews. Perché riparlarne,
trascurando il suo modesto valore?
La ragione è una sola. Il copione di Rodgers e Hammerstein II, la
regia di Wise, gli attori giocano con la storia del musical. C’è
sullo sfondo l’operetta viennese con la sua eleganza, c’è la
commedia in cui la musica entra ed esce dall’azione, c’è la
malizia della colonna sonora spinta verso il gusto attualizzato, ci
sono canzoni che lasciano il segno per orecchiabilità e per simpatia,
c’è la perfetta confezione americana (cinque Oscar) che raccoglie e
inghiotte, ruminando il misterioso serbatoio di repertorio e di
talenti di cui si è detto; e c’è infine il coraggio dell’ingenuità.
Un sincretismo prepotente sotto un velo di grazia musicale.
La fuga dai nazisti coperta dalla canzone So Long Farewell,
ovvero un Un lungo arrivederci, riassume tutta la
robusta e irresistibile retorica che si è formata con il musical. La
morale è chiara. Vada come vada, anche nel musical come in Via col
vento domani è comunque un altro giorno. Una bella canzone, un
bel numero di tip tap, una volta che ci hanno preso e conquistato,
continueranno a batterci nelle tempie. Il suono della musica e il
picchiettare dei tacchetti non pretendono più di coprire il
fastidioso rumore dei vecchi proiettori ma , quando ci raggiungono dal
ieri o dall’altro ieri, ci promettono per un po’ di coprire il
frastuono delle nostre giornate che viene dalla strada, dall’ufficio
e dal magma dei programmi tv. Ecco perché cerchiamo ancora i piccoli
grandi musical.
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