Un contratto fra cittadini e comunità
Stuart White
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Un contratto fra cittadini e comunità
Questo saggio appare sul numero 2/2000 della Nuova Serie della
rivista Filosofia e Questioni Pubbliche diretta da Sebastiano
Maffettone, e fa parte di un forum su Workfare e Welfare. Per
ulteriori informazioni potete collegarvi al sito della Luiss
Edizioni o scrivere all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it
Questo articolo è tratto da un articolo più lungo, Social Rights
and the Social Contract: Political Theory and the New Welfare Politics,
“British Journal of Political Sciences”, 2, 2000. Gli estratti
rilevanti da quell’articolo sono qui riprodotti per gentile
concessione della Cambridge University Press
Una delle idee centrali nella discussione contemporanea sulla riforma
del welfare è l’idea di un welfare contrattualista: l’accesso
ai benefici del welfare è parte del contratto fra cittadini e
comunità, ciò che impone ai singoli cittadini, come rovescio della
medaglia, alcune responsabilità che essi sono obbligati a soddisfare.
Lo Stato può legittimamente imporre tali responsabilità, la più
importante delle quali è certamente la responsabilità di lavorare,
come condizione per ricevere i benefici del welfare? Su quale base, se
ve ne è una, si possono giustificare, vincoli lavorativi (work-test)
e misure correlate di welfare contrattualista?
In questa presentazione vorrei tracciare uno schema, prendendo in
esame tre diversi modi in cui si può cercare di giustificare il
welfare contrattualista: 1) un argomento che fa appello al valore
della giustizia distributiva e, più specificamente, a qualche tipo di
principio di reciprocità come elemento della giustizia distributiva;
2) argomenti paternalistici che fanno appello agli interessi degli
assistiti del welfare; e 3) ciò che definirò argomenti moralisti che
fanno appello all’idea che il lavoro sia una virtù e che sia dovere
dello Stato imporre la virtù.
Il contrattualismo è compatibile con un diritto al welfare?
Occorre, tuttavia, in primo luogo considerare un’obiezione al
welfare contrattualista. È stato talvolta sostenuto che il welfare
contrattualista sia incompatibile con l’idea che il welfare
rappresenti il punto focale di un “diritto sociale”. I diritti, si
dice, devono necessariamente possedere la qualità dell’incondizionalità.
Ma, rendere l’erogazione di benefici del welfare condizionali al
fare x o y, come soddisfare alcune forme di vincolo lavorativo, sembra
violare questa qualità necessaria di incondizionalità. Qualcosa del
genere sembra sottostare alla tesi secondo cui l’inclinazione che l’attuale
governo laburista mostra verso il welfare contrattualista rappresenti
una rottura essenziale, e (si sottintende solitamente) criticabile,
con “il concetto di cittadinanza di [T.H.] Marshall basato su un
titolo incondizionato e universale”.
Quali che siano i meriti etici delle attuali politiche di governo,
credo che questa semplice obiezione al welfare contrattualista sia
erronea. Sono pienamente d’accordo sul fatto che abbiamo bisogno di
tener ferma l’idea di welfare come punto focale di un diritto
sociale. Ma è un errore sostenere che contrattualismo e diritti siano
intrinsecamente incompatibili.
La distinzione cruciale qui è la distinzione fra: 1) un diritto a che
certe risorse x ci siano date incondizionatamente; e 2) un
diritto incondizionato di accesso ragionevole a certe risorse
x, dove accesso ragionevole significa, fra l’altro, che le risorse
in questione possano essere acquisite e godute dalle persone
interessate senza sforzi irragionevoli. In questo senso, ovviamente,
una persona può avere accesso ragionevole a qualcosa senza che
necessariamente questa cosa gli sia data. La nozione di diritto
sociale può essere del tutto intellegibilmente intesa nel secondo
modo, oltre che nel primo: come un diritto incondizionato di accesso
ragionevole a una certa risorsa, piuttosto che come diritto a che
questa risorsa sia data incondizionatamente. Questa distinzione è
importante per i nostri scopi perché mentre il welfare
contrattualista sembra incompatibile con un diritto sociale del primo
tipo, non è affatto incompatibile con un diritto sociale del secondo
tipo. Se, per esempio, Smith è perfettamente capace di lavorare,
allora non è così chiaro che, rendendo i benefici del welfare che
potrebbe ricevere condizionali alla ricerca attiva di lavoro, per
dire, si violi necessariamente il suo diritto incondizionato di
accesso ragionevole a un minimo decente di reddito.
Qui mi si potrebbe obiettare che in questo modo modifico il concetto
tradizionale di diritti sociali; che, sotto il manto di una questione
analitica apparentemente innocente, in realtà propongo una revisione
sostantiva fondamentale della nozione di diritti sociali, così come
appare nel lavoro di Marshall e di altri teorici politici nella
tradizione liberal-socialista da cui l’idea di diritti sociali
deriva. Ma non è così. Consideriamo, per esempio, le seguenti parole
prese da Liberalism di L.T. Hobhouse:
La funzione dello Stato è di garantire condizioni attraverso le quali
i cittadini siano messi in grado di ottenere, grazie ai loro sforzi,
tutto ciò che è necessario per una piena efficienza civica. Non è
affare dello Stato dare loro denaro, case, vestiti. È affare dello
Stato aver cura che le condizioni economiche siano tali che un uomo
normale, non debole nella mente o nel corpo o nella volontà, possa,
attraverso un lavoro utile, mantenere, dare una casa, e vestire se
stesso e la sua famiglia. [In questo senso il] “diritto di lavorare”
e il diritto a un “salario sufficiente per vivere” sono tanto
validi quanto lo sono i diritti della persona o i diritti di
proprietà.
In questo passo Hobhouse fa una distinzione implicita fra i due tipi
di diritti sociali che ho individuato sopra e, nella misura in cui è
implicito il diritto a un reddito decente, esprime una chiara
preferenza per un diritto sociale del secondo tipo. La posizione di
Hobhouse non è inusuale, da questo punto di vista, ma pienamente
rappresentativa del modo in cui i Nuovi liberali inglesi e i
socialisti fabiani dei primi anni del secolo hanno concepito i diritti
sociali. Lo stesso vale per T.H. Marshall, che scriveva all’incirca
una generazione più tardi. Non sono affatto sicuro, infatti, che nei
suoi saggi classici sulla cittadinanza sociale si trovi espressa la
visione secondo cui tutti i diritti sociali dovrebbero essere intesi
nel primo dei due sensi visti sopra, piuttosto che nel secondo.
Per concludere, il welfare contrattualista non è intrinsecamente
incompatibile con l’idea di welfare come centro focale di un diritto
sociale.
Primo argomento: il welfare contrattualista è una richiesta della
giustizia distributiva
La semplice compatibilità di contrattualismo e diritti, tuttavia,
non significa di per sé che il contrattualismo sia legittimo. Rimane
ancora da spiegare perché un vincolo lavorativo e misure correlate di
welfare contrattualista siano una buona idea, piuttosto che un’imposizione
arbitraria. Quali considerazioni etiche potrebbero giustificare tali
misure?
Un argomento è che il contrattualismo favorisce l’equità economica
o, nel linguaggio della filosofia politica, la giustizia distributiva.
La giustizia distributiva, sostiene questo argomento, richiede che le
regole della cooperazione economica rispettino un principio di
reciprocità secondo il quale quelli che vogliono condividere il
prodotto sociale, se possono farlo, devono dare in cambio un
contributo produttivo alla comunità. La nostra società può essere
idealmente concepita come un commonwealth, un’associazione
per la fornitura cooperativa delle risorse a cui, come individui e
capifamiglia, attingiamo perseguendo le rispettive visioni della vita
buona. Se la cooperazione economica deve essere equa, allora le regole
che governano la distribuzione del prodotto sociale devono attribuire
un qualche peso all’idea di vantaggio reciproco. Se, avanzando le
proprie pretese sul prodotto sociale, uno beneficia dell’operosità
di altri membri del commonwealth, allora, nella misura in cui
può, date le proprie capacità relative, deve cercare di garantire
che gli altri beneficino allo stesso modo della sua appartenenza. Uno
deve “fare la sua parte” in questo senso. Gli altri cittadini
hanno il diritto di aspettarsi questo. Come ci si può rifiutare di
ottemperare a tale dovere, senza implicitamente assumere che i propri
concittadini esistano per la propria convenienza, e senza dunque
stabilire una relazione aristocratica che contraddice l’ethos
fondamentale dell’eguale cittadinanza? Inoltre, se più ampi
obiettivi egalitari vengono perseguiti senza riguardo a preoccupazioni
di free-riding e di parassitismo, allora è evidente il rischio
che le politiche egalitarie in questione provochino sentimenti di
alienazione e risentimento, minando così il senso di solidarietà
stesso da cui dipende un egalitarismo sostenibile.
Se accettiamo che una qualche versione del principio di reciprocità
debba essere incluso nella nostra concezione pubblica della giustizia,
allora si può difendere il welfare contrattualista come meccanismo
per garantire che gli individui ottemperino ai loro obblighi di
contraccambiare. Qualcosa del genere sottostà alla frase blairiana
sulla “società in cui viene dato qualcosa per qualcosa”.
Questo argomento solleva molte questioni, e io non posso trattarle
tutte qui. C’è però almeno un punto su cui si deve dirigere la
nostra attenzione. Il presunto obbligo individuale di dare il proprio
contributo produttivo alla comunità - l’obbligo presunto che uno/a
ha con il principio di reciprocità - sarà fatto rispettare sullo
sfondo di una qualche forma di distribuzione di risorse e
opportunità. È equo dire che l’individuo ha tale obbligo, e farlo
rispettare, indipendentemente da quale sia questa distribuzione di
sfondo? Per qualunque egalitarista, o anzi per qualunque posizione
appena civile, la risposta deve sicuramente essere no. Asserire
altrimenti, infatti, significa asserire che individui
significativamente svantaggiati, in una società fortemente ineguale,
hanno l’obbligo morale di cooperare al proprio sfruttamento. E
questo è semplicemente implausibile. Pensiamo, forse, per fare l’esempio
più estremo, che gli schiavi abbiano l’obbligo morale di lavorare
in una società schiavista?
Devono essere soddisfatte, dunque, alcune condizioni distributive di
ingresso prima che si possa plausibilmente dire che i cittadini
abbiano, in generale, obblighi di dare un contributo produttivo alla
comunità basati sulla reciprocità, e dunque, prima che possa
considerarsi equo dare a questi obblighi lo statuto di regola generale
all’interno del sistema di welfare. Non ho qui lo spazio per
presentare e difendere un resoconto esaustivo di queste condizioni
di equa reciprocità, come si potrebbero definire. Ma le seguenti
quattro condizioni mi sembrano intuitivamente precondizioni importanti
di un vincolo lavorativo equo. Se queste condizioni (insieme ad altre)
non sono soddisfatte, alcuni cittadini subiranno come risultato
svantaggi significativi e sarà, dunque, iniquo avanzare la pretesa
ideale della reciprocità nei confronti di cittadini così
svantaggiati - o almeno avanzarla nei loro confronti nella stessa
misura dei cittadini non altrettanto svantaggiati.
1) Garanzia di un adeguato livello di reddito per coloro che
soddisfano uno standard minimo di partecipazione produttiva.
Questa potrebbe sembrare una richiesta inutilmente ovvia, non di meno
essa viene sovente violata dalle iniziative di workfare in pratica,
certamente negli Stati Uniti.
2) Opportunità decenti per (e nella) partecipazione produttiva.
È essenziale che i cittadini abbiano opportunità adeguate di
lavorare per ottemperare ai loro obblighi di reciprocità, così che
essi non soffrano la perdita del rispetto di sé che deriva dal non
riuscire a contraccambiare. È altresì importante che essi abbiano
una gamma di scelta adeguata sul tipo di lavoro da fare, dal momento
che è ingiusto lasciare alcune persone a fare lavori così tremendi
da minacciare i loro prospetti complessivi di una vita felice e
soddisfacente.
3) Giusto trattamento del lavoro di cura. Dato che il principio
di reciprocità governa l’accesso e beni servizi prodotti attraverso
la partecipazione all’economia formale, sembra ragionevole vincolare
il contributo produttivo soprattutto al lavoro pagato. Ma occorre
farlo in modo esclusivo? C’è sicuramente qualcosa di buono nell’idea
che il lavoro di cura (cioè il lavoro di chi si prende cura di
genitori infermi o di bambini molto piccoli), che non è remunerato
dal mercato, potrebbe tuttavia fornire servizi produttivi
sufficientemente significativi e benefici per la comunità tali da
giustificarne il riconoscimento pubblico e il mantenimento di chi lo
fa. I nostri obblighi, data la condizione della reciprocità, devono
essere formulati e fatti rispettare avendo considerazione per il
contributo dato dal lavoro di cura.
4) Applicazione a tutti i livelli di uno standard minimo di
partecipazione produttiva. Se continuiamo ad insistere che ciascun
cittadino tenga fede a obblighi basati sulla reciprocità, in cambio
della garanzia di uno standard minimo di vita, allora l’equità
richiede che si applichi la stessa logica a tutti i cittadini. È
patentemente iniquo che io debba dare il mio contributo per
vivere se tu non lo fai.
Val forse la pena riflettere su alcune delle politiche che potrebbero
essere necessarie per soddisfare queste condizioni. La condizione 1)
ci porta sul terreno familiare delle leggi sul salario minimo e dei
generosi in benefici lavorativi per i lavori a bassa paga. La
condizione 2) potrebbe implicare alcune forme di diritto al lavoro, e
dunque l’obbligo dello Stato di agire come “datore di lavoro in
ultima istanza”. Essa indica anche il bisogno di un accesso
universale, a un alto livello, all’istruzione e a capitale liquido.
Si potrebbe notare qui una certa aria di famiglia con le recenti
proposte per garantire a tutti i cittadini che abbiano raggiunto la
maturità dotazioni generose di capitale da usare per scopi formativi
e imprenditoriali - il diritto a un capitale di base. Proposte in
questa stessa vena includono l’idea di Michael White di un sistema
di “crediti flessibili lungo l’arco di vita”; la proposta di
Robert Haveman di un “conto capitale personale universale per i
giovani, […] una cessione di capitale di, diciamo, 20 mila dollari a
tutti i giovani maggiorenni, da usare per investimenti sul capitale
umano a loro scelta; la più recente proposta di Bruce Ackerman e Anne
Alstott di un prestito in quanto stakeholder di circa 80 mila
dollari per ciascun cittadino americano che abbia raggiunto la
maturità, finanziato da eredità e tasse patrimoniali; e, a un
livello più modesto, l’idea di “credito personale per l’istruzione
(Individual Learning Account)” che il governo inglese sta
esplorando in questi giorni. La condizione 3) suggerisce il bisogno di
politiche di impiego a favore della famiglia e di una maggiore
sensibilità circa il modo in cui cerchiamo di integrare i genitori single
nel mondo del lavoro pagato. La condizione 4), infine, solleva
notevoli questioni in merito all’istituto dell’eredità. Chi
eredita grandi quantità di ricchezza può certamente scegliere di
essere un contributore produttivo della sua società. Ma ha a
disposizione l’opzione di non esserlo. Se neghiamo questa opzione ai
meno ricchi, esigendo che si contraccambino i benefici del welfare,
non dobbiamo allora negare questa opzione anche ai ricchi? Alte tasse
di successione e trasferimenti di ricchezza potrebbero essere
necessari per eliminare questa opzione.
Per concludere, credo che le considerazioni sulla giustizia
distributiva, centrate sul principio di reciprocità, forniscano una
giustificazione potenziale del vincolo lavorativo e di misure connesse
per un welfare contrattualista. Ma è possibile che aumenti l’ingiustizia
ponendo obblighi ideali di reciprocità indiscriminati nei confronti
degli assistiti del welfare, quando certe condizioni distributive -
che ho chiamato condizioni di equa reciprocità - non siano
soddisfatte.
Secondo argomento: il welfare contrattualista giustificato in base ad
argomenti paternalistici
Un secondo argomento contro il welfare contrattualista focalizza l’attenzione
meno sull’equità economica e più sui presunti migliori interessi
degli assistiti del welfare. Il punto del vincolo lavorativo e di
altre misure simili, secondo questa visione, non è tanto proteggere i
contribuenti che lavorano duro dallo sfruttamento dei free rider,
ma quello di fare in modo che gli assistiti facciano cose che li
aiutino a vivere meglio. Questo argomento è proposto con enfasi da
scrittori americani come Lawrence Mead che descrive la sua filosofia
di welfare contrattualista come un “nuovo paternalismo”.
Due domande si pongono: 1) possono mai considerazioni paternalistiche
giustificare misure di welfare contrattualista? 2) Possono
considerazioni paternalistiche giustificare misure di welfare
contrattualista anche quando ci siano ingiustizie economiche
significative nella società (la società non soddisfa condizioni di
equa reciprocità come quelle descritte sopra)?
Comincio con l’assumere che l’autonomia individuale sia un valore
importante e che ci sia, di conseguenza, un forte pregiudizio contro
il paternalismo (cioè contro la restrizione ad opera dello Stato
della libertà d’azione individuale in base alla pretesa che lo
Stato sappia meglio quello che loro devono fare in vista dei loro
migliori interessi). Un’assunzione centrale del liberalismo contro
il paternalismo, tuttavia, è che gli individui hanno capacità
adeguate di autogoverno: che essi possano deliberare razionalmente su
quale sia il corso d’azione migliore per loro e abbiano abbastanza
autodisciplina per attenersi al corso scelto. Nel caso di individui
rispetto ai quali questo non sia vero - vale a dire i bambini, e i
deboli di mente - i liberali, seguendo John Stuart Mill, accettano di
solito che il pregiudizio contro il paternalismo non regge.
Se, dunque, abbiamo ragione di credere che un numero sufficiente di
assistiti sia allo stesso modo incapace di autogoverno, potremmo dover
giustificare un loro trattamento paternalistico. Questo è infatti
ciò che Mead sostiene, nei suoi lavori più recenti. Credo che l’argomento
a favore del paternalismo sarebbe particolarmente persuasivo in tali
circostanze, qualora noi potessimo mostrare che il trattamento
proposto non solo faccia avanzare il benessere degli assistiti, ma
anche che sia in grado di edificare le capacità di autogoverno di cui
essi mancano allo stato attuale - che il welfare contrattualista serva
come mezzo per forzare i cittadini poveri a imparare ad essere liberi.
È importante notare, tuttavia, che non è necessario basare il
paternalismo su assunzioni controverse circa la pretesa irrazionalità
e incompetenza dei poveri. Il filosofo Gerald Dworkin sottolinea che
la stragrande maggioranza di noi è vulnerabile a periodi di
irrazionalità e/o debolezza della volontà. Quando questo accade,
possiamo scegliere di fare cose che hanno conseguenze tragiche e
irreversibili per noi. Consapevole di questi due fatti, un cittadino o
una cittadina previdenti, in uno spirito di prudenza ragionevole,
potrebbero razionalmente scegliere di limitare la loro libertà in
certi modi, così da prevenire azioni che portino a conseguenze di
questo genere. Ciò indica un possibile criterio a favore di un
paternalismo giustificato: l’intervento paternalistico è
giustificato se le restrizioni che comporta sono quelle a cui
individualmente acconsentiremmo, in condizioni di riflessione
razionale, per garantirci da debolezza della razionalità individuale
e/o della volontà che potrebbero avere rilevanti conseguenze negative
e irreversibili per il nostro benessere o la nostra libertà . Su
questa base, il paternalismo non riguarda un gruppo di esperti che
dicono a un gruppo di persone presunte incompetenti come condurre la
loro vita; piuttosto, è un meccanismo attraverso cui tutti i
cittadini all’unisono governano se stessi in modo più efficace
(raggiungendo così una più grande autonomia), vincolando
giuridicamente se stessi a fare ciò che, in momenti di riflessione
razionale, ritengono di dover fare, ma rispetto a cui potrebbero
essere negligenti quando verrà il momento. Una legge che richieda
agli automobilisti di indossare le cinture di sicurezza, per esempio,
potrebbe essere difesa in questi termini.
Questa concezione del paternalismo ha ovvie applicazioni nel contesto
del welfare. Sappiamo, per esempio, che l’esperienza della
disoccupazione di lungo termine può essere profondamente debilitante.
Competenze e motivazioni si indeboliscono tanto che un individuo che
non abbia lavorato per un lungo periodo corre il rischio di non
rientrare più. Sapendo ciò, non è affatto assurdo immaginare che un
cittadino ragionevolmente prudente, preoccupato di proteggere se
stesso dagli effetti avversi della disoccupazione di lungo termine,
dia il suo assenso preventivo a un sistema di regole per le
prestazioni welfaristiche vincolate alla ricerca di un lavoro, o all’iscrizione
a corsi di formazione o a programmi di lavoro pubblici, qualora
dovesse patire una disoccupazione che duri più di un breve periodo di
tempo.
Imporre questi vincoli sulle sue azioni future è un modo per
proteggere se stesso e i suoi interessi di lungo termine contro il
deterioramento dello spirito che egli si aspetta dalla disoccupazione.
È così possibile che regole per la titolarità a prestazione di
welfare connesse al lavoro abbiano una giustificazione paternalistica
se e quando possano essere viste come meccanismi razionali di
autoassicurazione di questo tipo.
Tuttavia, anche se alcune misure di welfare contrattualista sono
potenzialmente legittimate sul terreno paternalistico, queste stesse
misure sono ancora giustificabili se nella società sussistono
significative diseguaglianze di opportunità economiche?
Ciò che deve preoccupare è che l’applicazione delle misure
rilevanti in queste circostanze potrebbe esporre i cittadini più
vulnerabili economicamente a danni e oneri iniqui che essi potrebbero
facilmente evitare in un sistema di welfare più permissivo. Un modo
per cercare di affrontare il problema consiste nel chiedersi se i
guadagni per gli assistiti del welfare, ingiustamente svantaggiati
grazie a misure di welfare contrattualista, superino i possibili
costi, in termini di maggiore pressione ad accettare lavori di scarsa
qualità, maggiore esposizione allo sfruttamento e cosi via. Se sì,
allora io credo di poter dire che le misure rilevanti di welfare
contrattualista siano ancora giustificabili su un terreno
paternalistico.
Ma se questo è il nostro criterio di giustificazione, andiamo
immediatamente incontro a un problema. Si tratta del fatto che i
guadagni e le perdite rilevanti possono essere assai inegualmente
distribuite fra la classe di persone svantaggiate e vulnerabili verso
cui siamo in primo luogo solleciti. Quale che sia il sistema di misura
di costi e benefici, non sarà con ogni probabilità un guadagno netto
per alcuni e una perdita netta per altri? È probabile che valutazioni
empiriche della grandezza relativa di questi effetti risultino
estremamente difficoltose, e non vedo modi non controversi per
valutare i rispettivi guadagni e perdite anche quando questi ci
fossero perfettamente noti.
Per concludere, credo che queste considerazioni paternalistiche
aggiungano qualcosa al caso generale del welfare contrattualistico, ma
alla luce di quest’ultimo punto, credo anche che non forniscano una
giustificazione del welfare contrattualista che tenga,
indipendentemente da quanto sia giusta, da un punto di vista
distributivo, la nostra società. In generale, possiamo solo essere
ragionevolmente fiduciosi del fatto che misure paternalisticamente
motivate del welfare contrattualista producano comunque un beneficio
netto per la maggioranza di coloro che ne vengono toccati se la
società ha fatto abbastanza per assicurare a tutti i cittadini
opportunità economiche adeguate e sicurezza contro la vulnerabilità
nel mercato.
Terzo argomento: l’argomento moralista a favore del welfare
contrattualista.
Mi volgo infine a ciò che definisco l’argomento moralista a
favore del welfare contrattualista. Posto in termini molto astratti, l’argomento
è che il lavoro è una virtù e che lo Stato dovrebbe imporre il
lavoro all’interno del sistema di welfare perché è proprio dello
Stato coltivare e, se necessario, imporre comportamenti virtuosi nel
suo interesse.
Ora, si potrebbe pensare che il lavoro sia una virtù, e che in quanto
tale debba essere imposta, per via del legame fra il lavoro e le
richieste del principio di reciprocità che abbiamo discusso
precedentemente. Se così fosse, allora l’argomento moralista, in
questa caso, non sarebbe altro che un modo diverso, meno chiaro, di
articolare l’argomento a favore del welfare contrattualista sulla
base della reciprocità. E, come tale, soggetto a esattamente le
stesse qualificazioni e agli stessi caveat del precedente argomento.
Dall’altro lato, si potrebbe pensare che il lavoro sia una virtù, e
che debba essere imposto, perché l’esperienza del lavoro, anche del
lavoro imposto, è una cosa buona per il benessere degli individui
interessati. In questo caso, l’argomento moralista sarebbe nient’altro
che un modo diverso, meno chiaro, di esporre l’argomento
paternalista a favore del welfare contrattualista. E quindi soggetto
agli stessi limiti di quell’argomento.
O ancora, si potrebbe pensare che il lavoro sia una virtù, e che
debba essere imposto, perché il lavoro, anche se imposto, è una cosa
buona per la comunità nel suo complesso. Cioè, considerando la
versione più semplice di questo argomento, i benefici che derivano,
per la società nel suo insieme, dall’imposizione del lavoro
superano i costi. Questo non è un argomento sull’equità economica
perché l’interesse verte sulla quantità aggregata di benefici
sociali e non sulla distribuzione. E non è nemmeno un argomento
paternalistico - infatti, proprio perché l’imposizione del lavoro
produce un beneficio netto per la società nel suo insieme non è
necessario che produca un beneficio netto per ciascun assistito che
sia soggetto a politiche di imposizione (un punto forse non
sufficientemente apprezzato dagli autori del “nuovo paternalismo”,
come Mead). Questo è, infatti, un chiaro argomento utilitarista che
si appella all’idea secondo cui una politica è giustificata se
porta avanti “la maggiore felicità per il maggior numero”.
Non credo che dovremmo disfarci interamente di questo argomento. Se a)
gli assistiti interessati dalle politiche contrattualiste godono
inizialmente di un livello sufficientemente alto di benessere, b) il
costo in media delle politiche contrattualiste è abbastanza basso, e
c) il guadagno che agli altri verrebbe da queste politiche è molto
alto, allora questo argomento utilitarista mi sembra avere una certa
forza. E credo che sarebbe in special modo forte se, in aggiunta a
(a)-(c), d) coloro che dovrebbero guadagnare dal welfare
contrattualista godono inizialmente di un livello piuttosto basso di
benessere. Tuttavia, io credo che queste siano condizioni piuttosto
severe e non sono affatto sicuro che siano soddisfatte in società
capitaliste contemporanee come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti.
Se, allontanandoci da condizioni così severe, noi valutiamo che l’argomento
sta o cade insieme alla desiderabilità intrinseca di massimizzare l’utilità
sociale aggregata, allora io credo che l’argomento cada. Credo
questo perché non ritengo che sia desiderabile massimizzare l’utilità
aggregata in una società, senza considerare la distribuzione
risultante di vantaggi all’interno di quella società. Per testare
le nostre intuizioni su questo punto, può essere d’aiuto
confrontare due società ipotetiche. Nella società A il 15 per cento
della popolazione non ha un livello nemmeno minimamente decente di
opportunità economiche o di sicurezza e il rimanente 85 per cento
gode di un più che decente livello di opportunità, sicurezza e
benessere. Nella società B ciascuno gode di sicurezza e opportunità
adeguate, ma la maggioranza - l’equivalente dell’85 per cento -
gode di un livello di benessere più basso che nella società A, così
che il benessere aggregato (o la media aritmetica) è più basso nella
società B che nella società A. Io credo che la società B sia
chiaramente migliore, cioè moralmente preferibile, della società A.
Non credo che la maggioranza in queste ipotetiche società abbia
diritto a maggiori reddito e ricchezza, anche in modo sostanzioso, a
spese degli interessi economici fondamentali della minoranza. Cercate
di mettervi con l’immaginazione prima nei panni di un membro della
maggioranza, tenendo conto del fatto che essa sta per perdere dalla
scelta di A rispetto a B; e dopo mettetevi nei panni di un membro
della minoranza, tenendo conto di ciò che ha da perdere dalla scelta
di A rispetto a B. Potete negare che il membro della minoranza avanzi
una richiesta a cui si deve dare ascolto assai più dell’altra?19
Voi potete non condividere le mie intuizioni in questo punto, ma in
tal caso siete costretti a respingere il semplice argomento
utilitarista a favore del welfare contrattualista, perché scegliendo
la società B rispetto ad A avete respinto le premesse utilitariste su
cui è basato.
Siamo infine giunti a ciò che chiamerò l’argomento moralista puro
a favore del welfare contrattualista. Secondo questo argomento il
lavoro dovrebbe essere imposto per se stesso. Il lavoro è moralmente
preferibile al non lavoro in e per se stesso, non per le connessioni
che può avere con l’equità economica, il benessere (well-being)
personale o l’utilità sociale. E lo Stato può e deve imporre forme
di attività, come il lavoro, intrinsecamente virtuose. Esiste qui un’analogia
con l’argomento a favore del restringere la libertà di adulti
consenzienti di impegnarsi in certi tipi di attività sessuale in base
a considerazioni per cui queste forme di comportamento sessuale sono
intrinsecamente sbagliate - “corrotte”- e che è compito dello
Stato restringere e punire comportamenti nel suo interesse. Cosa
farcene di questo tipo di argomento?
Una cittadina che avanzi tali argomenti assume di essere in possesso
di qualche verità sul tipo di vita che è intrinsecamente buono e
rispetto al quale ritiene di avere il diritto di usare l’autorità
politica per incoraggiare altri cittadini, e perfino imporlo, a vivere
secondo la verità che lei ritiene di possedere. Tuttavia, in
condizioni che garantiscano a ciascuno la libertà di cercare e di
esprimersi, gli esseri umani, inevitabilmente e del tutto
ragionevolmente, sono in disaccordo su quale sia la verità in tali
questioni. Persone sincere ed intelligenti, applicando le normali
capacità della ragione umana a questi difficili problemi, arriveranno
e continueranno ad affermare differenti posizioni su molte domande
circa la natura della virtù.
Cos’altro significa avanzare un argomento moralista puro, se non
rivendicare il diritto di sostituirsi al miglior giudizio degli altri
cittadini, su questioni rispetto a cui essi non sono né meno
intelligenti, né meno sinceri, ma a cui accade di essere in
disaccordo su quale sia la verità sulla virtù? Io sono convinto che
chiedere ed esercitare tale autorità significa fare violenza alla
personalità etica dei propri concittadini. Ciò che è reciprocamente
rispettoso, la cosa giusta da farsi, è lasciare che ciascuno/a viva
secondo il proprio miglior giudizio, soggetto alla condizione che
uno/a rispetti la libertà degli altri e il diritto di ciascun
cittadino/a a un trattamento equo (equa reciprocità) nella sfera
economica.
Non sto dicendo, ovviamente, che l’argomento politico dovrebbe
essere libero da considerazioni morali. Piuttosto, sto dicendo che
abbiamo bisogno di rispettare una distinzione fondamentale fra le
domande della nostra moralità personale relativa - fondate forse
nelle nostre particolari credenze religiose, e che ci forniscono le
linee guida comprensive secondo cui vivere - e le domande della
moralità civica, il codice morale condiviso che governa appunto la
nostra relazione in quanto cittadini. L’essenza della moralità
civica consiste nel trovare regole eque di cooperazione fra noi, dato
che, in tutta sincerità e ragionevolezza, non condividiamo la stessa
moralità personale. Considero l’argomento “moralista puro” a
favore del welfare contrattualista privo di ogni valore perché non
rispetta questa distinzione fondamentale fra moralità civica e
personale. Per essere legittimo il welfare contrattualista deve
poggiare su qualcosa di diverso dall’entusiasmo teocratico di alcuni
dei nostri concittadini.
Conclusione: è dunque il welfare contrattualista legittimo?
Ho cercato in questo articolo di individuare diverse linee di
argomentazioni morali che sono spesso confuse nel dibattito
contemporaneo sul welfare contrattualista. E spero con ciò di aver
fornito almeno una struttura utile per discutere la legittimità del
welfare contrattualista, anche se da ultimo siamo in disaccordo su di
essa. Il modo in cui considerare questi meriti, la mia conclusione,
per ripetere un po’ ciò che ho detto sopra, è duplice: primo,
considerazioni di equità economica e paternalismo forniscono una
giustificazione potenziale per misure di welfare contrattualista;
secondo che livelli di opportunità economiche e sicurezza di sfondo,
e altre caratteristiche distributive di sfondo della nostra società,
sono non di meno di importanza cruciale nel definire la legittimità
del welfare contrattualista come viene praticato in particolari
società in tempi particolari, se tale contrattualismo deve essere
difeso sulla base dell’equità economica o del paternalismo. Per
parafrasare T.H. Marshall: se i doveri della cittadinanza economica
vengono continuamente invocati, allora dobbiamo realmente prendere sul
serio i diritti corrispondenti.
(traduzione di I. S.)
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