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Gli obblighi dell'assistenza



Amy Gutmann e Dennis Thompson



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Questo saggio appare sul numero 2/2000 della Nuova Serie della rivista Filosofia e Questioni Pubbliche diretta da Sebastiano Maffettone, e fa parte di un forum su Workfare e Welfare. Per ulteriori informazioni potete collegarvi al sito della Luiss Edizioni  o scrivere all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it 

Nella teoria della democrazia deliberativa la libertà ha priorità sull’opportunità; tuttavia, nelle deliberazioni reali sulle politiche pubbliche, l’opportunità viene spesso prima. Una delle ragioni di ciò dipende dal fatto che in molte dispute politiche si assume che le libertà fondamentali dei cittadini siano ormai garantite, mentre la sfida principale consiste nel garantire le loro opportunità. Ma un’altra ragione concerne la natura delle opportunità stesse. Tale disputa è così rilevante nell’agenda pubblica perché abbraccia un insieme assai ampio di beni. Essi includono ciò che chiamiamo opportunità sia fondamentali sia eque, la cui distribuzione è governata da due principi differenti. Il tema di questo intervento è il principio delle opportunità fondamentali, che fornisce un criterio per distribuire cure mediche, istruzione, sicurezza e - gli oggetti principali di questo articolo - reddito e lavoro. Tutti questi beni sono fondamentali perché i cittadini ne hanno bisogno per vivere una vita decente e per godere di altre opportunità non fondamentali. (I beni che non sono fondamentali in questo senso, come un lavoro altamente qualificato e altri beni socialmente apprezzati, verso cui solo alcuni cittadini possono avanzare pretese legittime, sono materia del principio di equa opportunità e l’oggetto di un altro lavoro).

Nella democrazia deliberativa, il principio delle opportunità fondamentali assicura ai cittadini un livello adeguato di beni in vista delle opportunità fondamentali. Nel caso del reddito minimo (basic income), un livello adeguato è quello necessario per vivere una vita decente, secondo gli standard correnti della società in questione. Quali politiche questo principio richieda deve essere in parte lasciato alla deliberazione democratica, ma la gamma di politiche accettabili non è illimitata. Come abbiamo indicato altrove, le opportunità fondamentali non dovrebbero essere distribuite semplicemente in base ai bisogni. Il problema principale di questo criterio, infatti, è che i bisogni sono onnivori. Più in positivo, le opportunità fondamentali dovrebbero essere distribuite secondo criteri che soddisfino lo scopo fondamentale del principio di opportunità. Le politiche distributive per questi beni dovrebbero mitigare gli effetti che una distribuzione moralmente arbitraria dei talenti e delle abilità naturali produce sulle opportunità fondamentali. Il punto essenziale è che ai cittadini non dovrebbero essere negate opportunità fondamentali in base a fattori dei quali non sono responsabili.

Sebbene la questione di ciò che dovrebbe contare come livello adeguato di beni in vista di opportunità fondamentali sia importante, l’elemento più controverso nel dibattito contemporaneo riguarda che cosa dovrebbe contare come ragione adeguata per negare ai cittadini tali beni, in qualunque misura vengano forniti. Specificamente, è giustificabile negare ai cittadini un bene in vista di opportunità fondamentali in base al loro essere responsabili di procurarselo da soli. Nel caso della distribuzione delle cure mediche, si può assumere che la mancanza di accesso alle opportunità fondamentali non sia sotto il controllo dei cittadini bisognosi. Anche nel caso delle cure mediche, tuttavia, questa assunzione è discutibile (specialmente per malattie legate al fumo o alla dieta). Nel caso di molti altri beni in vista di opportunità, questa diventa una questione centrale. Occorre quindi considerare quali obblighi il principio delle opportunità fondamentali possa imporre ai cittadini, come condizione per ricevere beni in vista di opportunità fondamentali.

Tale questione è al centro delle controversie contemporanee sulla riforma del welfare negli Stati Uniti. Il dibattito è complesso, ma per i nostri scopi la disputa generalmente presentata come «welfare contro workfare» pone le questioni essenziali. In questa disputa, «welfare» si riferisce tipicamente alla erogazione di reddito di sostegno ai cittadini, indipendentemente dalla loro volontà di lavorare. Con «workfare» si intende l’erogazione di sostegno ai cittadini abili, a condizione che acconsentano ad accettare lavoro o formazione.

L’idea di un vincolo di lavoro ha figurato a lungo nella discussione sul welfare. Alexis de Tocqueville, il teorico sociale che per primo ha esplicitamente anticipato le obiezioni contemporanee al welfare pubblico, si chiedeva: «Perché la condizione del lavoro non dovrebbe essere imposta all’indigente che, pur fisicamente abile, si rivolge alla compassione dei pubblici poteri?». L’assunto implicito era che rendere il lavoro «il prezzo del soccorso» rispondesse a una delle sue preoccupazioni principali per il welfare pubblico - il fatto che esso incoraggiasse la «passione naturale per l’ozio». Tuttavia, respinse con fermezza ogni vincolo di lavoro perché dubitava che ci sarebbe stato abbastanza lavoro da fare e credeva che, se anche ve ne fosse stato a sufficienza, nessun governo avrebbe potuto realmente dare un lavoro produttivo a ciascun cittadino disoccupato. Alcuni critici contemporanei del welfare sembrano pronti a seguire Tocqueville nella richiesta di una sua completa abolizione. Ma altri, non più favorevoli di lui alla compassione pubblica, credono che i governi moderni possano incrementare con successo la richiesta di lavoro.

In queste pagine, esploreremo le questioni che il workfare solleva esaminando la controversia sulla riforma del welfare nello Stato del Wisconsin della metà gli anni Novanta. Punto centrale è il dibattito sul «Work-Not-Welfare» Act, sponsorizzato dal governatore repubblicano Tommy Thompson e divenuto legge nel dicembre 1993, con schiacciante sostegno da parte di entrambi i partiti. Il decreto stabilisce un programma pilota di workfare con lo scopo di giungere progressivamente all’eliminazione del principale programma federale di welfare, lo Aid to Families with Dependent Children (AFDC).

Secondo la legge del Wisconsin, in alcune province stabilite, nessun cittadino può ricevere i benefici dello AFDC, per sé o per persone a carico, a meno che non soddisfi le richieste di lavoro stabilite dallo Stato. A eccezione degli inabili al lavoro per malattia, età avanzata o maternità, tutti i cittadini al di sopra dei sedici anni devono avere un lavoro a tempo pieno. Se non riescono a trovare da soli un lavoro nel settore privato, devono accettare un lavoro nel settore pubblico o privato, o iscriversi a un programma di formazione. In cambio, lo Stato eroga un assegno suppletivo a ciascun partecipante il cui stipendio sia al di sotto della prestazione ordinaria dello AFDC. Lo Stato paga anche per l’allevamento a tempo pieno dei bambini, il trasporto per il lavoro e l’assistenza per il collocamento. Sebbene lo Stato fornisca lavoro nel servizio pubblico, se non è disponibile nessun lavoro nel settore privato, questa garanzia sparisce dopo due anni, senza alcun ripristino dei pagamenti dello AFDC. Questa clausola - nota come «due anni e sei fuori» - è volta a determinare l’abolizione dell’intero programma AFDC in Wisconsin, a partire dal primo gennaio 1999.

Dopo l’approvazione del Work-Not-Welfare, il governatore e molti legislatori fecero pressione anche per un «family cap», che (seguendo l’esempio del New Jersey) avrebbe tolto ai percettori di AFDC che avevano un figlio mentre erano coperti dal welfare i pagamenti addizionali che prima, invece, avrebbero ricevuto. Sebbene il Wisconsin non applicò immediatamente il «family cap» statale, il Dipartimento per la salute e i servizi umani concesse allo Stato una deroga rispetto ai requisiti federali che gli avrebbe consentito di farlo. Come parte del programma pilota, lo Stato ha applicato il «family cap» in due province nel 1995. E ha fatto partire anche il cosiddetto programma Bridefare in quattro province, che hanno tagliato metà dei normali benefici per i neonati di adolescenti non sposate.

Il Work-Not-Welfare Act, insieme al «family cap», ha reso il reddito di base (basic income) condizionale a due obblighi dei cittadini - l’obbligo di lavorare e l’obbligo di non avere altri figli mentre si è coperti dal welfare. Questi obblighi del welfare sono moralmente giustificabili in democrazia? Molti egalitari sostengono che non lo siano. Quando il governo nega ad alcuni genitori un reddito adeguato priva anche i loro figli di beni in vista di opportunità fondamentali. Questa sembra essere una chiara violazione del principio delle opportunità: questi bambini soffrono senza alcuna colpa. Essi non sono responsabili né dei loro bisogni né delle loro incapacità di soddisfarli. I sostenitori del piano del Wisconsin, tuttavia, considerano giustificati tali obblighi. Alcuni basano i loro argomenti su una visione libertaria secondo la quale nessun cittadino dovrebbe dipendere dal governo per il reddito di sostegno. Il principio delle opportunità fondamentali, secondo questa visione, non richiede, e potrebbe anzi proibire, che il governo provveda a quei cittadini che sono capaci di provvedere a se stessi. Inoltre, offrendo welfare senza condizioni, è probabile che il governo perpetui il ciclo di dipendenza che minaccia la libertà dei cittadini ora e in futuro.

Il principio delle opportunità fondamentali sembra essere preso in un vicolo cieco: secondo un’interpretazione sembra giustificare, e secondo un’altra condannare, politiche di welfare come quelle adottate dal Wisconsin. C’è un’interpretazione di questo principio che sfugga a tale vicolo cieco e prescriva una politica che possa essere giustificata da una prospettiva di reciprocità? Per rispondere a questa domanda, guardiamo più da vicino alle due interpretazioni più comuni, e alle loro implicazioni, sulla riforma del welfare negli Stati Uniti.

Esamineremo, in primo luogo, la visione egalitaria secondo cui i cittadini hanno titolo a un reddito di sostegno adeguato, indipendentemente dalla loro volontà di lavorare. Quindi, ci volgeremo all’interpretazione libertaria delle opportunità che lega il reddito di sostegno al lavoro. Nella terza parte, difenderemo quello che chiamiamo un workfare equo, una politica di diritto al reddito che incorpori ed estenda la base comune fra le posizioni egalitaria e libertaria. Il workfare equo, infatti, risponde sia alle preoccupazioni egalitarie, secondo cui un workfare incondizionato sarebbe ingiusto verso alcuni individui, specialmente bambini, sia al timore libertario che il welfare renderebbe i cittadini dipendenti dal governo e quindi meno liberi. Ma è basato su un valore di mutua dipendenza, implicato dalla reciprocità, piuttosto che sul valore dell’indipendenza o dell’autosufficienza, che i libertari sottolineano. Gli obblighi del welfare dovrebbero essere reciproci; i cittadini che hanno bisogno di reddito di sostegno sono obbligati a lavorare, ma solo se i loro concittadini tengono fede all’obbligo di attuare politiche pubbliche che forniscano adeguata occupazione e sostegno ai bambini. Nell’ultimo paragrafo considereremo se il workfare equo sia compatibile con le condizioni di cittadinanza in una democrazia deliberativa. Un certo margine di reddito di sostegno di base è necessario per consentire ai cittadini di partecipare alla politica e, più in generale, per rendere effettivo l’uso delle loro libertà politiche. Tuttavia, le riforme del welfare quali il workfare equo sono di solito creazione di leader politici e funzionari che le avviano e le realizzano senza la partecipazione dei beneficiari. Le opportunità fondamentali del welfare sono erogate a spese dell’opportunità fondamentale della cittadinanza. Noi mettiamo in discussione questo modello dall’alto al basso della riforma del welfare e difendiamo la partecipazione dei cittadini poveri alle riforme che hanno lo scopo di renderli autonomi.

Welfare senza obblighi

Gwendolyn Moore è cresciuta col welfare, ed è diventata parlamentare. Nel 1994 era quasi sola sui banchi del Senato del Wisconsin a incalzare i suoi colleghi perché si opponessero al progetto di legge Work-Not-Welfare. Una dei soli quattro membri che hanno votato contro il progetto, a sostenere che lo Stato non dovesse mettere fine al welfare senza garantire che i bisogni fondamentali dei cittadini poveri fossero soddisfatti. Il Work-Not-Welfare, diceva, creerebbe semplicemente «insulsi e malpagati lavori di workfare». Prima che i governi siano giustificati nel por fine al welfare, dovrebbero realizzare cure mediche universali, maternità per tutti, servizi di collocamento, trasporti pubblici, un salario minimo più alto, una migliore assicurazione di disoccupazione e più educazione sessuale. Lo scopo primario del welfare, credeva Moore, dovrebbe essere non quello di mettere i cittadini al lavoro, ma quello di metter fine alla povertà. Il lavoro è solo un mezzo per questo fine. Il fine egalitario di fornire opportunità fondamentali a tutti i cittadini dovrebbe avere priorità, sosteneva, sull’imposizione dell’obbligo ai cittadini di contribuire al loro benessere. E si opponeva anche al «family cap» che, sosteneva, avrebbe solo punito i bambini ed era specchio dell’interesse pruriginoso del pubblico per la vita sessuale dei poveri.

In tempi di austerità fiscale, i politici egalitari come Moore che incitano il governo a spendere di più per i poveri possono essere «praticamente paria fra i legislatori». Ma alcuni filosofi egalitari continuano a far pressione per espandere il welfare anche al di là di ciò che Moore proponeva. Essi difendono un reddito di sostegno universale al livello più alto, senza alcun obbligo di lavorare. Ciascun cittadino rivendica per sé un livello di sostegno che gli garantisca eguali libertà fondamentali (rendendo effettiva ciò che questi filosofi chiamano «eguale libertà»). Senza il reddito e altri beni che rendano i cittadini capaci di scegliere i loro piani di vita, ad essi verrebbero negate le opportunità fondamentali di cui altri cittadini godono.

Data questa versione forte del principio, il livello di sostegno dovrebbe essere più alto di quello a cui il Wisconsin o altri Stati adesso tendono. Il problema con «il welfare come lo conosciamo» non è che i governi applichino politiche redistributive nei confronti di cittadini immeritevoli, come alcuni critici pretendono, ma il contrario. Le attuali politiche di welfare, secondo questa visione egualitaria, danno troppo poco ai cittadini che avanzano pretese legittime per un maggior sostegno. Con il presente sistema, né un genitore solo né una coppia con due figli piccoli può sbarcare il lunario con un lavoro a tempo pieno al salario minimo. Non solo questa interpretazione forte del principio di opportunità implica un alto livello di reddito di sostegno, ma inoltre dà poco o nessun peso all’obbligo di lavorare. Anzi, secondo questa visione, un vincolo lavorativo viola in realtà le opportunità fondamentali in due modi. Primo, nelle economie con meno della piena occupazione delle moderne democrazie, più cittadini vogliono lavorare di quanti trovino lavoro. Imporre un vincolo lavorativo in queste condizioni negherebbe ai cittadini opportunità fondamentali per cause non sotto il loro controllo.

Un secondo argomento, che alcuni egalitari usano contro il vincolo lavorativo, va oltre. Esso respinge l’idea che i cittadini abbiano alcun obbligo di provvedere al loro benessere. I cittadini rivendicano il reddito di base (basic income) per perseguire i loro piani di vita e per godere eguale libertà effettiva, nella misura in cui non danneggino altri. Negare a coloro che preferiscono non lavorare il sostegno di cui hanno bisogno li costringe a seguire un diverso stile di vita, rispetto a quello che altrimenti avrebbe scelto. Come Philippe Van Parijs vividamente conclude, anche i cittadini che se ne starebbero tutto giorno a far surf a Malibu hanno titolo al welfare.

Ma, rifiutandosi di lavorare, i surfisti non stanno danneggiando gli altri, non ottemperando agli obblighi che hanno verso i loro concittadini? No, dicono gli egalitari. Fintanto che c’è disoccupazione, i cittadini che non lavorano beneficiano chi vuole lavorare; quelli che scelgono l’ozio lasciano di fatto più lavori - una risorsa sociale scarsa e apprezzata - per quelli che sceglierebbero di lavorare. Avere un lavoro decente dà ai cittadini la possibilità di ottenere un impiego di maggior riguardo, reputazione sociale e autostima. Ai cittadini pertanto non dovrebbe esser richiesto di lavorare, ma gli dovrebbero essere offerti buoni lavori se li vogliono. Alcuni riformatori sostengono che il governo potrebbe incoraggiare il settore privato a creare più buoni lavori, mettendo le persone in condizione di non accettare lavori malpagati. Che tale strategia abbia successo o meno, gli egalitari insistono ancora che il governo deve fornire, senza imposizioni o marchi di infamia, il reddito necessario per garantire le opportunità fondamentali.

Gli egalitari, in particolare, si oppongono a che si richieda ai genitori di prendere un lavoro fuori casa, come condizione adeguata per un reddito di sostegno. Le donne sole che stanno a casa per allevare i loro figli stanno già lavorando, anche se nessuno paga loro alcun salario. Il governo non dovrebbe impedire alla donne - o agli uomini - di scegliere una carriera di genitori o di casalinghe. L’implicazione per le politiche di welfare è che i genitori dovrebbero ricevere un assegno di maternità sufficiente a permettersi di fare i genitori a tempo pieno o di accettare un diverso lavoro a tempo pieno pagando qualcun altro che si prenda cura dei loro figli.

Un welfare che fornisca reddito di sostegno incondizionato in questo modo è benevolente, ma potrebbe non essere giusto. In una democrazia deliberativa i cittadini devono chiedersi: il reddito di sostegno senza alcun obbligo di lavorare fuori casa è richiesto dalla reciprocità? La stessa senatrice Moore non ha difeso tale incondizionata forma di welfare. Moore si opponeva non al vincolo lavorativo in sé, ma alla priorità assegnatagli rispetto ad altri fini egalitari. Sarebbe stata presumibilmente in disaccordo con chi considera che i cittadini non possano assicurarsi opportunità fondamentali senza avere un lavoro fuori casa. Ma il suo disaccordo con gli altri senatori era soprattutto rivolto a se i cittadini poveri sarebbero davvero riusciti a trovare lavori decenti qualora avessero provato a farlo, e se il vincolo lavorativo creasse un incentivo a cercare tali lavori. Questa disputa potrebbe aver luogo anche fra coloro che accettano un’interpretazione del principio di opportunità che impone l’obbligo ai cittadini di provvedere al loro benessere se sono in grado di farlo.

Tuttavia, non è così semplice riconciliare l’interpretazione più forte del principio delle opportunità con la reciprocità. Chiedere reddito ma rifiutarsi di lavorare significa avanzare una pretesa verso i propri concittadini che essi potrebbero ragionevolmente respingere. Prima di tutto, la premessa che sottostà al principio delle opportunità - che ai cittadini non dovrebbero essere negati bisogni fondamentali a causa di fattori su cui non hanno alcun controllo - suggerisce prontamente un corollario: che ai cittadini può essere negata fornitura pubblica per bisogni fondamentali, se essi possono garantirsela da sé. Il corollario è solo un modo per dire che il principio delle opportunità, se prende sul serio le responsabilità individuali, non offre alcuna ragione per giustificare una qualche erogazione ai cittadini che non provvedano per se stessi.

Questo corollario si volge in una pretesa ancora più forte - ai cittadini che possono farlo ma si rifiutano di lavorare non solo si può, ma si deve, rifiutare qualunque prestazione welfaristica - alla luce di una ragione ulteriore per opporsi al reddito di sostegno incondizionato da una prospettiva di reciprocità. I cittadini che declinano di lavorare si stanno di fatto rifiutando di partecipare a uno schema di equa cooperazione sociale, necessario a sostenere qualunque politica adeguata di reddito di sostegno. La capacità della società di garantire un basic income ai cittadini bisognosi dipende dalla produttività economica e la produttività economica dipende, a sua volta, dalla volontà dei cittadini di lavorare. Anche se alcuni cittadini hanno lavori migliori perché i surfisti di Malibu non li prendono, è probabile che altri cittadini ricevano minor sostegno di quanto ne avrebbero con politiche basate su vincoli lavorativi, e probabilmente meno di quanto hanno bisogno per garantirsi opportunità fondamentali. Il governo democratico quindi non può essere neutrale fra gli stili di vita che contribuiscono alla produttività economica e quelli che non contribuiscono.

Questa preferenza per la vita produttiva non significa che i cittadini sono obbligati a scegliere la vita che produce il maggior valore economico per una società. Ma se scelgono di spendere la loro vita facendo surf a Malibu, non possono ragionevolmente aspettarsi che i loro concittadini li mantengano. Né possono aspettarsi di ricevere il rispetto che i cittadini si devono l’uno l’altro in quanto socialmente e politicamente eguali. Gli egalitari dovrebbero essere i primi a riconoscere l’importanza dell’aspettarsi che tutti i cittadini accettino almeno un obbligo minimale di contribuire alla società. Anzi, alcuni egalitari insistono su tale obbligo, basandolo su valori di eguale sollecitudine e rispetto.

Si noti che questo obbligo si applica non solo ai cittadini in fondo alla scala economica ma anche a quelli in cima. Chi sceglie di vivere della ricchezza ereditata, senza contribuire col suo lavoro alla società, non può meritare più rispetto da parte dei suoi concittadini dei surfisti di Malibu. Il ricco pigro, è vero, non chiede welfare (anche se spesso chiedono benefici che non hanno fatto niente per guadagnarsi). Se scelgono di sottrarsi a uno schema di cooperazione sociale, gli si può correttamente negare l’eguale rispetto dei cittadini motivati a sostenere la cooperazione sociale. Considerazioni di questo genere potrebbero anche costituire la base per imporre più alte tasse di successione. Se gli egalitari riconoscessero la svolta egalitaria che l’obbligo di lavorare può imprimere, sarebbero meno inclini a negarne la legittimità.

Alcuni egalitari offrono tuttavia un diverso argomento per il welfare incondizionato che potrebbe sembrare accettabile da una prospettiva di reciprocità; esso parte dall’assunzione, condivisa da molti filosofi liberali tradizionali, inclusi John Locke e John Stuart Mill, secondo cui un’eredità comune non guadagnata, esterna alla società (come le sue risorse naturali), non è stata creata dal lavoro di nessuno. Da questa premessa Van Parijs muove per sostenere che questa eredità comune dovrebbe essere divisa egualmente fra tutti i cittadini egualmente dotati, che lavorino o meno. Se le risorse naturali fossero la sola risorsa esterna non guadagnata, il valore economico da dividere non genererebbe un reddito universale significativo per ciascun cittadino. Ma le risorse naturali non sono la sola, e nemmeno la più apprezzabile, risorsa esterna non guadagnata. Ci sono anche le assai più sostanziose «rendite» economiche, non guadagnate, che la maggior parte dei cittadini che lavorano, in un’economia con disoccupazione involontaria e competizione imperfetta, accumulano. In queste condizioni, lavoratori e datori di lavoro sono remunerati con rendite economiche considerevoli - reddito che deriva non dalla volontà di lavorare, ma da un potere di contrattazione ineguale di lavoratori egualmente dotati in condizioni di interdipendenza economica. «Anche in assenza di un’organizzazione collettiva - chiarisce Van Parijs - i lavoratori possono pretendere un salario che superi significativamente il livello di mercato a causa del potere di contrattazione che essi traggono dall’esistenza di costi di licenziamento, formazione e sciopero». (I mercati si svuotano ovunque non vi sia più nessun disoccupato che farebbe il lavoro di qualcun altro al salario medio o sotto.) La disoccupazione involontaria aumenta il livello di rendita economica, lasciando un surplus da redistribuire fra i disoccupati.

Ma perché le rendite economiche non guadagnate dovrebbero essere redistribuite incondizionatamente a tutti i cittadini che non hanno reddito adeguato piuttosto che solo a quelli che vogliono ma non possono lavorare? Van Parijs stesso riconosce la difficoltà: «Non si dovrebbe invece restringere i benefici di rendita distribuendoli ai disoccupati involontari?». La sua risposta diretta si appella a un’assunzione che abbiamo già mostrato non si possa sostenere. Respingere le pretese dei surfisti di Malibu violerebbe «il divieto liberale sulla discriminazione fra concezioni della vita buona». Ma né lo Stato liberale né nessuna prospettiva di reciprocità può restare neutrale fra quelle concezioni della vita buona che includono lavoro produttivo e quelle che non lo includono.

L’altra linea di replica di Van Parijs non ha maggior successo. In una variante della sua pretesa generale, secondo cui avere un lavoro equivale ad appropriarsi di una risorsa scarsa, egli sostiene che «quelli che [...] cedono la loro parte di quella risorsa, e quindi ne lasciano di più per gli altri, non dovrebbero per questo essere privati di una quota equa del valore della risorsa. Ciò che vale per la scarsità della terra vale altrettanto per la scarsità del lavoro». L’analogia fra la scarsità della terra e la scarsità del lavoro induce in equivoco. Il lavoro di un individuo contribuisce al prodotto sociale che fornisce reddito di sostegno in un modo che il mero possesso di terra non fa. Anche in una economia che soffra di massiccia disoccupazione, il lavoro è una risorsa espandibile in un modo in cui non lo è la terra, e la sua espansione desiderabile per ragioni diverse dal soddisfare il «gusto costoso» delle persone per il lavoro. Espandere il lavoro produttivo aiuta i governi democratici a fornire migliori cure mediche, istruzione e altri bisogni, e così a soddisfare meglio le domande del principio delle opportunità. Una democrazia deliberativa può ragionevolmente respingere le pretese di quelli a cui «piace» il surf, accettando le pretese di quelli a cui «piace» il lavoro.

Fin qui abbiamo mostrato come l’interpretazione forte delle opportunità fondamentali, che darebbe un reddito di sostegno incondizionato senza alcun obbligo di lavorare, non sia compatibile con la reciprocità. L’interpretazione in qualche modo più debole, suggerita dalla senatrice Moore, che imporrebbe alcuni vincoli lavorativi, sarebbe invece compatibile in linea di principio, ma avanza richieste formidabili al governo. Le condizioni che per lei devono essere soddisfatte, prima che un vincolo lavorativo sia giustificato, sono così esigenti che è improbabile vengano soddisfatte nel futuro prevedibile. In pratica, la sua posizione porta dunque al reddito di sostegno incondizionato - il welfare come lo conosciamo - e a un livello ancora più alto.

Tuttavia, a dispetto della sua sconfitta politica nella legislazione del Wisconsin, Moore mantiene una posizione morale salda, a meno che non vi siano altre ragioni morali, che ancora non abbiamo preso in esame, per imporre un obbligo incondizionato di lavorare, o che ci siano altre condizioni, meno esigenti, che giustificherebbero l’imposizione di un obbligo di lavorare in cambio di reddito di sostegno. Nel prossimo paragrafo, considereremo e respingeremo le pretese di coloro che difendono un obbligo incondizionato di lavorare. Quindi, proporremo alcune condizioni giustificabili quanto quelle di Moore, ma più specificamente focalizzate sull’erogazione di occupazione.

Lavoro senza welfare

Come la senatrice Moore, il rappresentante di Stato del Wisconsin Antonio Riley, Jr., è stato assistito dal welfare. E come Moore, Riley è un Democratico che rappresenta uno dei distretti urbani più poveri dello Stato. Ma, a differenza di Moore, Riley ha votato a favore del progetto di legge Work-Not-Welfare. È persino andato oltre il piano originario del governatore Thompson, proponendo un emendamento che poneva fine a tutti i pagamenti dello AFDC alla mezzanotte del 31 dicembre 1998. Il sistema di welfare ha fallito, ha sostenuto Riley, perché dice ai poveri che è «una decisione economica più vantaggiosa [...] scegliere il welfare rispetto al lavoro». Per difendere il Work-Not-Welfare, chiedeva Riley, «non è meglio pagare la gente per lavorare e dargli l’occasione di trasmettere l’esempio e la dignità del lavoro ai loro figli, piuttosto che pagarli per starsene a casa? Non ci sono due vie per far questo».

Ci sono, tuttavia, almeno due modi di difendere il lavoro senza welfare, uno più radicale e uno più moderato. Riley ha preso la via moderata. Entrambi i modi trattano il lavoro come un aspetto essenziale dell’autosufficienza o dell’indipendenza: esso è un bene che fornisce ai cittadini la capacità di esercitare la libertà, di vivere le loro vite liberi da interferenze e dalla dipendenza dallo Stato e dai loro concittadini. Sotto questo aspetto, entrambi i modi sono coerenti con una prospettiva libertaria. Ma la versione moderata di Riley metterebbe fine al welfare solo se il lavoro fosse disponibile, mentre la versione più radicale porrebbe fine al welfare indipendentemente dalla disponibilità di lavoro. «Se lo Stato enfatizzerà il valore del lavoro - insisteva Riley - è meglio essere sicuri che il lavoro sia disponibile». Egli sosteneva che la regola «due anni e sei fuori» è giustificata solo se ci sono lavori da accettare, nel settore pubblico o in quello privato. E incalzava quindi il governo a fornire «lavori socialmente utili come parte della formula, se tutte le altre avessero fallito».

La visione più radicale è stata implicitamente sposata da alcuni membri della legislatura che ha favorito il workfare incondizionato. Essi si sono opposti alla creazione di lavori socialmente utili perché pensavano che tale politica avrebbe incoraggiato la dipendenza permanente dal governo. Il workfare, giustamente inteso, dovrebbe rendere i cittadini indipendenti dal governo. Questi rappresentanti erano pronti a imporre la regola «due anni e sei fuori», senza alcuna rete di sicurezza (eccetto che per i disabili), per dare il messaggio che i cittadini non possono dipendere dal governo per il loro sostentamento. Nessuno dei legislatori ha presentato un argomento a sostegno di questa visione, ma il teorico politico Charles Murray ne offre uno che serve ai loro scopi.

Murray basa la sua difesa del workfare incondizionato su un’interpretazione meritocratica dell’eguale opportunità. Le politiche sociali, dice, dovrebbero «far in modo che si abbia tanto quanto ci si merita, un ideale certo non nuovo nel pensiero americano». Murray crede che «alcune persone sono migliori di altre», e che «esse meritino maggiore riguardo dalla società». Egli sostiene che «una delle funzioni principali delle politiche sociali sia garantire» che queste persone «migliori» «abbiano l’opportunità di ottenere tale riguardo. Il governo non può identificare quelli che valgono, ma può proteggere una società in cui quelli che valgono possano identificare se stessi». «Quelli che valgono» possono identificare se stessi, secondo questa visione, solo se il governo non garantisce un lavoro a ogni cittadino che voglia lavorare. Il merito, nel dominio del reddito, è misurato da ciò che un cittadino può guadagnare nel mercato, senza alcuna garanzia da parte del governo. Questo incoraggia autentica autosufficienza e promuove la libertà fondamentale, mettendo i cittadini più meritevoli in condizione di fare l’uso più efficace delle loro opportunità.

La sua visione, crede Murray, non mostra «nessuna mancanza di compassione», e in realtà esprime «una presunzione di rispetto». Spiega: «Le persone - tutte le persone, bianchi o neri, ricchi o poveri - possono essere diversamente responsabili di ciò che è accaduto loro in passato, ma tutte sono egualmente responsabili di ciò che fanno dopo». Il welfare e il lavoro garantito riducono la possibilità che i cittadini facciano uso delle opportunità per mostrare che possono assumersi la responsabilità di ciò che fanno dopo. Il workfare incondizionato dice ai cittadini che essi stessi hanno la capacità di controllare le proprie vite.

Di primo acchito, potrebbe sembrare strano che i libertari difendano una politica che richieda ai cittadini di lavorare. Dopo tutto, sono i libertari quelli che più strenuamente si oppongono a qualunque cosa assomigli al «lavoro forzato», che secondo alcuni include anche la tassazione. Un vincolo lavorativo non equivale a lavoro forzato? La posizione libertaria non è vulnerabile a questa obiezione. La libertà di non lavorare non dà titolo a un reddito adeguato. Proprio come la libertà di non essere socievoli non dà titolo all’amicizia, così la libertà di non lavorare non garantisce una regolare busta paga. Sebbene il reddito di sostegno (a differenza dell’amicizia) sia un’opportunità fondamentale, ai cittadini che volontariamente rinunciano all’occupazione non viene negata un’opportunità fondamentale da nessuno se non da se stessi. Il loro reddito inadeguato è conseguenza delle loro scelte, non una violazione della loro libertà.

L’argomento libertario fallisce, tuttavia, perché non offre un’interpretazione adeguata della responsabilità individuale. Contrariamente alla pretesa di Murray, la sua interpretazione meritocratica delle eguali opportunità non prende sul serio la responsabilità individuale in nessuna forma compatibile con la reciprocità fra i cittadini. Supponiamo che un cittadino riesca a trovare un lavoro pagato, ma che un altro, che cerca altrettanto duramente, non vi riesca. Se trattassimo ciascuno come egualmente responsabile, allora dovremmo concludere che il secondo non sia né più biasimevole né meno meritorio del primo. Prendere la responsabilità sul serio implica la conclusione esattamente opposta rispetto a quello che i libertari asseriscono. Qualunque principio accettabile di opportunità deve riconoscere che la differenza fra successi e fallimenti di cittadini egualmente responsabili può essere dovuta al caso, alla cattiva sorte o all’ingiustizia.

Seguendo Tocqueville, alcuni critici contemporanei possono essere inclini a negare che noi possiamo separare «una sventura immeritata dalle disgrazie prodotte dal vizio». Ma il principio di responsabilità non deve essere applicato così precisamente né così singolarmente. Non viene applicato così nel caso dell’intervento governativo per i danni provocati da disastri naturali come terremoti, inondazioni, uragani, anche se alcuni cittadini prendono maggiori precauzioni e sono meglio assicurati di altri. Alcuni dei fattori principali che riguardano la probabilità di trovare un lavoro - in particolare, le condizioni generali dell’economia - sono come i disastri naturali. Essi, insieme alle loro conseguenze, non sono sotto il controllo dei singoli individui e rispondono, se rispondono, solo alle azioni collettive di cittadini e governi. Ciò che Murray chiama «triage dell’autoselezione» può avere qualche base in natura, non ne ha alcuna in una società giusta.

Riconoscere che chi ha successo può non essere più responsabile o più meritevole di chi fallisce è compatibile con l’idea che alcuni meritino quello che ricevono mentre altri no. Ma non è compatibile con la pretesa libertaria secondo cui lasciando che i cittadini facciano le loro scelte, non importa quali siano le loro opzioni, e ne sopportino le conseguenze, non importa quali siano i danni, un governo democratico mostri rispetto per la responsabilità individuale. Il rispetto autentico per la responsabilità individuale richiede politiche pubbliche che cerchino di realizzare le condizioni in cui i cittadini possano avere controllo della propria vita e una responsabilità sociale o di governo nel sostenere quelle condizioni. Quando il governo viene meno alla sua responsabilità, i cittadini con minor controllo sulle forze che condizionano la loro vita non devono patirne le conseguenze.

Questa è la ragione per cui i difensori del workfare incondizionato sbagliano quando dicono che «l’occupazione deve diventare un dovere, fatto rispettare dall’autorità pubblica [...] indipendentemente da come interpretiamo il fenomeno misterioso del non lavoro, o del lavoro irregolare, fra le molte persone a basso reddito». Dalla prospettiva del principio delle opportunità, se tale dovere sia mai giustificato dipende in modo determinante da come interpretiamo questo «fenomeno misterioso». Se i cittadini non lavorano perché lavori decenti non sono disponibili difficilmente si può rimproverarli di non ottemperare a quel dovere. Gli adulti abili al lavoro che si aspettano un reddito adeguato (o hanno bisogno di un reddito adeguato per mantenere la famiglia) hanno il dovere di lavorare solo a condizione che un lavoro pagato sia disponibile.

Alcuni libertari accettano che il governo possa avere, in linea di principio, tale responsabilità, ma sostengono che, in pratica, le politiche pubbliche che esso richiede - lavori socialmente utili, reddito suppletivo, cure mediche universali, maternità - sono, con ogni probabilità, controproducenti. Invece di incoraggiare l’autosufficienza, infatti, queste politiche creano una cultura della povertà. I bambini cresciuti in questa cultura tendono a seguire l’esempio dei genitori: imparano a dipendere dal governo per il loro sostentamento. Nonostante i sussidi governativi siano volti a rendere più cittadini capaci di garantirsi un lavoro, essi creano incentivi che incoraggiano molti cittadini a fingere inabilità, a divorziare e ad avere figli illegittimi. I sussidi rinforzano la cultura della povertà, giacché l’abitudine alla dipendenza si trasmette da una generazione all’altra. Il solo modo di rompere questo ciclo consiste nel costringere i poveri a diventare più autosufficienti. Anche se si può fallire senza averne colpa, l’ingiustizia che si patisce è meno grave dell’ingiustizia che deriva dall’assistere generazioni di cittadini che non lavorano e del promuovere nascite illegittime a spese dello Stato.

Se i libertari avessero ragione sugli effetti del welfare, sarebbe necessario accettare un trade off fra ingiustizie di questo genere. Ma ci sono almeno due ragioni per dubitare che ne abbiano. Primo, solo una piccola frazione di assistiti dal welfare, e una frazione ancora più piccola di poveri - i poveri dei centri urbani degradati o la così detta «underclass» - vivono in condizioni che possono essere propriamente descritte come cultura della povertà. Non è provato che la maggioranza degli assistiti del welfare corrisponda al profilo attribuito ai membri di tale cultura. Secondo, anche se i libertari limitano la loro pretesa ai soli poveri dei centri urbani degradati, questo non prova che i sussidi pubblici siano la causa principale di questa cultura della povertà. Studi empirici più accurati riconoscono che non è possibile separare il contributo causale della cultura da altre caratteristiche della povertà - disoccupazione, uso di droghe, crimine, famiglie sfasciate e nascite illegittime. La maggior parte dei ricercatori, quali che siano le loro inclinazioni ideologiche, concordano sul fatto che questi fattori interagiscano nel tempo in modo complesso.

Anche tenuto conto della tendenza che i libertari più vigorosamente condannano - l’aumento delle famiglie monoparentali - c’è ragione di dubitare che il welfare abbia gli effetti che loro adducono. I libertari sostengono che la disponibilità dei benefici dello AFDC abbia contribuito significativamente al rapido aumento del numero di donne capofamiglia nel periodo fra il 1972 e il 1984. Il problema con questa tesi è che nello stesso periodo il numero di bambini assistiti dallo AFDC è diminuito, e così anche il valore monetario della prestazione. Retoricamente, un analista si è chiesto: «Come può essere, di grazia, lo AFDC la causa dell’aumento delle famiglie monoparentali quando sempre meno bambini vengono assistiti?». Né l’argomento libertario vale per le famiglie nere. Nello stesso periodo, il numero di bambini neri che viveva in famiglie con una donna capofamiglia cresceva del 25 per cento, ma il numero di bambini neri assistiti dallo AFDC veniva abbattuto del 15 per cento. Diminuire i sussidi governativi è difficilmente la via giusta per affrontare le cause dell’aumento delle famiglie monoparentali.

Il workfare incondizionato può anche avere un effetto nocivo che i libertari come Murray ignorano. Come Riley sottolineò nel dibattito parlamentare, è probabile che tale provvedimento politico sia, nell’attuazione pratica, discriminatorio rispetto alla razza, perché il lavoro è più scarso nei centri urbani degradati dove, come a Milwaukee, i poveri sono in misura assai maggiore neri. Se il governo non si impegna a creare lavoro, allora tagliare i benefici del welfare dopo due anni danneggerà soprattutto i neri e altre minoranze svantaggiate. Tuttavia, è stato Riley stesso a introdurre l’emendamento che avrebbe posto fine ai benefici dello AFDC nel 1999. La sua intenzione avrebbe potuto mettere in imbarazzo i suoi colleghi repubblicani, sostenendo politiche che avrebbero creato più lavoro nello Stato. Ma il taglio dello AFDC passò senza che un solo dollaro fosse destinato alla pianificazione di un futuro senza welfare. In assenza di ulteriore azione, gli elettori di Riley saranno fra quelli che soffriranno le conseguenze più gravi della fine del welfare come lo conosciamo.

Riley e i libertari moderati certamente non miravano a queste conseguenze. Volevano appoggiare la fine del welfare a condizione che il governo fornisse più lavoro. Ma le dinamiche delle politiche legislative li hanno portati nel campo dei fautori del workfare incondizionato. Una volta d’accordo che il lavoro dovesse rimpiazzare il welfare, hanno trovato difficile opporsi all’eliminazione del welfare come primo passo. Questa dinamica è stata solo in parte politica. Essa è stata guidata anche da ragioni sottostanti al workfare che i moderati tanto quanto i radicali accettavano. Entrambi hanno identificato l’idea delle responsabilità individuali con l’autosufficienza. Gli individui dovrebbero essere il più possibile indipendenti, facendo il meno possibile affidamento sul governo e sui loro concittadini. Questa interpretazione della responsabilità lascia poco spazio per l’imposizione di obblighi sui cittadini per l’erogazione reciproca dei benefici del welfare, e quindi poco terreno per richiedere che il governo fornisca un reddito di sostegno quando alcuni cittadini non riescono a trovare un lavoro per vivere. L’idea della dipendenza reciproca, come si mostra nel prossimo paragrafo, offre una base più promettente per il workfare, nonché per stabilire le condizioni che potrebbero giustificare la fine del welfare «come lo conosciamo».

Per un workfare equo

A chi gli chiedeva quale lezione gli altri Stati potessero trarre dal Work-Not-Welfare del Wisconsin e dal piano del «family cap», il governatore Thompson rispondeva: «Il mio consiglio è non siate timidi. Siate radicali quanto più potete. Non importa quel che fate, sarà comunque un miglioramento del sistema esistente». In un clima politico in cui quasi tutti i funzionari pubblici e la maggior parte dei cittadini - anche quelli assistiti dal welfare - non hanno che lamentele verso le politiche correnti, il consiglio del governatore trova un’audience ricettiva. Ma non tutti i cambiamenti radicali sono per forza un miglioramento del sistema esistente. Alcuni dei cambiamenti proposti che abbiamo criticato, eliminerebbero anche il sostegno minimo necessario a garantire le opportunità fondamentali. «Il concetto Work-Not-Welfare è grandioso», afferma Fannie Mims, una delle molte madri assistite dal welfare che si sono unite al Comitato per l’organizzazione dei diritti di welfare (Welfare Rights Organizing Committee). «Lavorare ed essere autosufficienti è il sogno di un sacco di assistiti. Ma il modo in cui lo ha strutturato [Thompson] sta solo mettendo la gente sulla strada».

Il piano Work-Not-Welfare e riforme simili in altri Stati sono pensati non per mettere la gente in strada, ma per aiutarla a trovare lavoro e a diventare più autosufficiente. Se queste riforme sono insufficienti, non è perché non sono abbastanza radicali. Da un certo punto di vista, il Work-Not-Welfare è troppo radicale. «Due anni e sei fuori» rompe con la tradizione, seguita persino dall’amministrazione di Reagan, che mantiene una qualche forma di sicurezza sociale per garantire le opportunità fondamentali di quei cittadini che vogliono lavorare ma non riescono a trovare un lavoro. Anche i libertari che respingono i diritti di welfare accettano tuttavia il bisogno di una «rete di sicurezza».

Da un altro punto di vista, il Work-Not-Welfare non è abbastanza radicale, ma non nel senso che intendeva il governatore. La riforma non fa niente per garantire che lavoro decente sia disponibile per tutti i cittadini che vogliono lavorare. Da una prospettiva di reciprocità, l’attenzione dovrebbe essere focalizzata non su quanto radicale è una politica, ma su quanto i cittadini possono giustificarla l’uno l’altro. Tale giustificazione è possibile se sono soddisfatte le richieste del principio delle opportunità fondamentali. Invece di una «riforma del welfare, realizzata duramente», come i critici hanno definito il piano del Wisconsin, il principio delle opportunità fondamentali chiede workfare, realizzato equamente. La scopo è stato ben individuato da John Stuart Mill: «dare il massimo aiuto necessario, assieme al minimo incoraggiamento a fare su di esso indebito assegnamento».

Un governo guidato dal principio di opportunità dovrebbe cercare di mitigare gli effetti della lotteria sociale in modo che ai cittadini non siano negate opportunità di vita adeguate per cause non sotto il loro controllo. Il welfare può violare quel principio in molti modi: può discriminare direttamente o indirettamente fra i cittadini in base alla razza, al genere, all’età e alla classe. In questo articolo, la nostra attenzione è focalizzata, in primo luogo, sugli effetti che ci possono essere sulle opportunità dei poveri. Nelle condizioni sociali attuali, i poveri più vulnerabili ai cambiamenti delle politiche di welfare sono soprattutto donne e neri, un fatto che nessuna applicazione del principio di opportunità può permettersi di ignorare. Ma come il principio affronta le questioni di genere e razza lo si vede meglio nel contesto di politiche per l’occupazione che consideriamo altrove.

Propriamente interpretato, il principio delle opportunità è compatibile con l’imposizione di un obbligo di lavorare sui cittadini abili al lavoro. Ma quell’obbligo deve avere una base diversa dall’autosufficienza, o indipendenza, la quale nega la rilevanza della nostra interdipendenza sociale. Una fondazione più appropriata fa riferimento al concetto di responsabilità individuale che considera i cittadini reciprocamente dipendenti, ciascuno obbligato a contribuire per la sua parte a uno schema equo di cooperazione sociale. L’obbligo di lavorare è accompagnato da un obbligo di provvedere per gli altri, quando essi non possono provvedere a se stessi. Lo scopo non è quello di perseguire l’indipendenza per l’indipendenza. È piuttosto quello di garantire una dipendenza limitata - quanto basta per evitare che la dipendenza interferisca con le opportunità fondamentali. Secondo questo approccio, la sfida per le politiche sociali non è solo quella di definire le condizioni entro cui più cittadini bisognosi devono accettare di lavorare, ma anche quella di specificare le misure che il governo deve adottare per ottemperare agli obblighi dei cittadini meno bisognosi. Da una prospettiva di reciprocità questo approccio ha parecchi vantaggi.

Primo, diversamente dalla visione che eguaglia responsabilità e autosufficienza, il nostro approccio offre una ragione positiva per sostenere i cittadini che, senza alcuna colpa, non riescono ad essere autosufficienti. Esso è quindi più probabilmente in grado di evitare molti dei problemi che abbiamo identificato nelle politiche di workfare incondizionato - in particolare, l’implicazione secondo cui ai cittadini che non provvedono a se stessi non solo si possa, ma si debba, negare sostegno.

Secondo, lo scopo di limitare la dipendenza che il nostro approccio persegue è probabilmente più raggiungibile, e certamente più desiderabile, di quello della completa indipendenza. Per la maggior parte dei cittadini poveri o a rischio di povertà, l’alternativa alla dipendenza dal governo non è l’indipendenza ma altre forme di dipendenza, di solito l’affidamento ad amici e parenti. Anticipando ancora una volta molti critici contemporanei del welfare, Tocqueville credeva che «il diritto che ha il povero di ottenere i sussidi dalla società [...] abbassa» e «degrada» quelli che lo esercitano. Ma né lui né i suoi seguaci mostrano in modo convincente perché dipendere da altri individui sia meglio che dipendere dal governo. Fare affidamento su famiglia, amici o carità privata dà meno certezza e può essere più soggetto allo sfruttamento che affidarsi al governo. E può essere anche più degradante e più dannoso per le opportunità fondamentali. Quale critico fervente della dipendenza, Jean-Jacques Rousseau, nella sua ricerca di un modo per rinvigorire le virtù naturali dell’autosufficienza nella società moderna, concludeva che la dipendenza dallo Stato piuttosto che da altri individui offre l’approssimazione più vicina. In ogni caso, poiché alcuni tipi di dipendenza sembrano inevitabili nella società moderna, i cittadini in una democrazia deliberativa dovrebbero focalizzare meno l’attenzione sulle sue fonti che sulle sue conseguenze, specialmente sui suoi effetti sulle libertà e opportunità fondamentali.

Terzo, basare l’obbligo di lavorare sulla dipendenza reciproca rivela meglio le sue connessioni con la cittadinanza. Nella nostra società, avere un lavoro è una condizione necessaria per ciò che è stata definita la dignità sociale - conservare il rispetto dei propri concittadini. (Avere un lavoro include certamente il lavoro in casa, in una famiglia in cui altri hanno un lavoro fuori casa). Il punto non è semplicemente che avere un lavoro mostra che uno o una può aver cura di se stesso/a; ciò che più conta, mostra che ti stai prendendo la tua parte di oneri sociali. Ciò che gli altri cittadini pensano di te in questo senso dovrebbe contare. Un obbligo di lavorare fondato sulla mutua dipendenza ammette che vi sia un effetto legittimo della loro opinione sulla tua reputazione. Più in generale, come mostra il prossimo paragrafo, il lavoro dovrebbe essere visto come parte essenziale della cittadinanza.

Un quarto vantaggio di questo approccio è la sua consonanza con le condizioni della democrazia deliberativa. Nel deliberare sulla riforma del welfare, si richiede ai cittadini di considerare quali obblighi essi potrebbero reciprocamente accettare, cosa è ragionevole per loro richiedersi l’un l’altro, al fine di garantire le opportunità fondamentali di tutti. Questo genere di domanda fissa un’agenda piuttosto diversa da quella che comincia col chiedere ai cittadini in che modo potrebbero diventare più indipendenti l’uno dall’altro. Similmente, l’idea di responsabilità come dipendenza reciproca rinforza, e ne è a sua volta rinforzata, i principi di pubblicità e reciproca considerazione, entrambi i quali incoraggiano i cittadini a riconoscere le loro responsabilità l’uno rispetto all’altro, piuttosto che a ricercare l’autosufficienza.

Quali sono dunque gli obblighi di welfare che tutti i cittadini dovrebbero accettare? La risposta più promettente è il workfare equo. Esso chiede ai cittadini, e attraverso di loro al governo, di accettare tre obblighi, ciascuno dei quali è inteso a mitigare le condizioni che non sono sotto il controllo dei cittadini bisognosi, e pertanto a soddisfare meglio il principio delle opportunità fondamentali. Se il governo ottempera a questi obblighi, allora i cittadini che si aspettano di ricevere assistenza pubblica devono accettare un obbligo di lavorare, o di contribuire in altri modi che i loro concittadini troverebbero appropriati. Gli obblighi del governo possono essere stabiliti in modo semplice: 1) garantire l’assistenza ai bambini; 2) rendere il lavoro conveniente; 3) rendere il lavoro disponibile. Quali specifiche riforme ciascuno di questi implichi è una questione che deve essere lasciata al processo di deliberazione democratica.


Dal lavoro all’autonomia

Difendendo il «family cap» nella legislatura del New Jersey, il deputato Bryant ha dichiarato: «Io voglio rendere autonoma la gente. Non dico alle persone che non possono avere più bambini. Dico che vedo [il welfare] come un sistema di transizione, non permanente [...] Così, se è di transizione, io posso fissare delle regole: istruitevi, fate formazione al lavoro [...] Se decidete di allargare la vostra famiglia dovete uscire e lavorare per farlo». Bryant introduce nel dibattito un valore importante e dimenticato - l’autonomia - che dovrebbe avere un posto centrale in qualunque politica di sostegno al reddito in una democrazia. Ma il suo uso è probabilmente inappropriato. Primo, come abbiamo già fatto notare, c’è ragione di credere che il «family cap» limiti piuttosto che espandere le opportunità fondamentali degli assistiti, e che lo faccia in modo discriminatorio. Negare agli assisti opportunità fondamentali, disponibili ai cittadini più affluenti, difficilmente può contare come autonomia. Secondo, l’uso di Bryant della prima persona («io posso fissare delle regole») involontariamente rivela un approccio autoritario che va contro lo sforzo di dare voce agli assistiti nel fare le regole e le politiche che li riguardano. Esprime un approccio all’autonomia dall’alto al basso in cui i mezzi della riforma possono frustrare i suoi fini.

L’autonomia è uno scopo essenziale della democrazia deliberativa. Se i cittadini devono partecipare effettivamente alla deliberazione, devono godere delle opportunità fondamentali che includono reddito adeguato e lavori decenti. Viceversa, essi non avrebbero le risorse economiche e sociali per esercitare i loro obblighi come cittadini democratici. Le richieste della deliberazione non sono modeste. Ma, dare semplicemente a questi cittadini le risorse di cui hanno bisogno, in modi e forme che il governo o altri cittadini ritengono appropriate, con ogni probabilità non li rende autonomi. Le risorse possono non raggiungere lo scopo perché quelli che le forniscono possono non capire i bisogni di coloro che dovrebbero esserne i beneficiari. E anche se i loro bisogni sono soddisfatti, gli assistiti perdono un’opportunità per sviluppare le abilità politiche che li metterebbero in condizione di partecipare più efficacemente ad altre decisioni politiche. Essi rimangono ricettori passivi piuttosto che partecipanti attivi alle politiche che modellano la loro vita.

La riforma del welfare sembra così andare incontro a un dilemma. Per esercitare le loro libertà politiche, i cittadini hanno bisogno di opportunità fondamentali. Ma, a meno che non abbiano parte nell’assicurarsi quelle stesse opportunità, è improbabile che sviluppino la capacità di esercitare quella libertà politica. Il processo di riforma del welfare può essere compatibile con lo scopo di rendere i cittadini autonomi? Per rispondere a questa domanda, consideriamo in primo luogo in che misura il workfare equo potrebbe dare autonomia ai cittadini economicamente svantaggiati, volgendoci quindi alla questione se il processo attraverso cui si modella un workfare equo potrebbe contribuire a rendere autonomi i cittadini che non godono della loro quota di libertà politica.

Guadagnare come forma di autonomia

Il workfare può contribuire all’autonomia se la politica riconosce, come sottolinea Judith Shklar, che «guadagnare è come votare». Sebbene la maggior parte dei cittadini dia per scontati il diritto di votare e l’opportunità di avere un lavoro, entrambi sono essenziali per la dignità sociale. Poiché guadagnare non è solo un mezzo per avere una vita, ma anche il simbolo dell’eguale cittadinanza, i governi democratici rendono i cittadini autonomi assumendosi «un ampio impegno a fornire opportunità di lavoro per guadagnare un salario sufficiente per vivere a tutti coloro che ne hanno bisogno e lo chiedono», scrive Shklar. L’effettiva opportunità di guadagnare un salario sufficiente per vivere «può non essere un diritto costituzionale o qualcosa che le corti debbano azionare, ma dovrebbe essere un assunto guida delle nostre politiche. Invece di essere considerato soltanto un interesse fra gli altri, esso dovrebbe godere del primato che un diritto può rivendicare in qualunque conflitto di priorità politiche». La spiegazione di Shklar di questa dimensione politica del lavoro fornisce una giustificazione ulteriore all’obbligo di lavorare, e sottolinea anche la necessità di politiche di workfare più ampie per garantire che il lavoro disponibile dia un contributo positivo all’autonomia politica, o almeno non ne dia uno negativo.

Un workfare equo può aiutare ad assicurare una reputazione basata sull’eguaglianza fra cittadini, in società come la nostra, in cui il rispetto sociale dipende dall’essere «‘uno che guadagna’, un lavoratore remunerato libero, uno che viene apprezzato per il lavoro reale che ha fatto. [...] Non si può essere schiavi o aristocratici». E nemmeno, dobbiamo aggiungere, «uno» può essere una donna che non ha alcuna chance di guadagnarsi da vivere se ha bisogno di farlo. Da questo punto di vista, anche le donne che non per scelta ma per necessità sono economicamente dipendenti dal marito non hanno la posizione dell’eguale cittadinanza. Ciascuna delle condizioni che abbiamo indicato per un workfare equo dovrebbe essere intesa come se implicasse politiche che scoraggino discriminazioni di genere nel welfare. A tal fine, esse richiedono probabilmente cambiamenti sostanziali nei posti di lavoro come pure nelle politiche di welfare. L’importanza che ha guadagnare, da un punto di vista sociale, è pertanto una caratteristica del workfare equo che rende autonomi i cittadini, assicurando loro allo stesso tempo un reddito adeguato. A differenza del «family cap» o del workfare incondizionato, esso non priva nessun cittadino delle opportunità fondamentali e non discrimina quelli che sono economicamente svantaggiati.

Alcuni possono pensare che la connessione fra lavoro e cittadinanza poggi su un insieme di credenze - una «trama jaksoniana di idee» - «irrazionali e inique». Le politiche pubbliche devono tener conto di queste credenze perché esse sono «durature e profondamente radicate», ma non hanno nessun’altra giustificazione morale. Ma abbiamo mostrato precedentemente che accettare il vincolo lavorativo per il reddito di sostegno dipende da un obbligo di contribuire in parte equa a uno schema cooperativo di cui ci si aspetta di beneficiare. Questa giustificazione morale può essere estesa alla cittadinanza politica. Quelli che beneficiano o desiderano beneficiare del processo politico sono obbligati a partecipare al processo e dunque a sviluppare le capacità per farlo. Una di queste capacità è l’acquisizione del rispetto sociale che il lavoro dà.
L’altro lato della medaglia è che altri cittadini, e il governo che agisce a loro nome, hanno l’obbligo corrispondente di creare e mantenere le condizioni che rendono possibile l’effettiva partecipazione. In questo modo, il lavoro diventa parte del processo che mette i cittadini in condizione di mettersi l’uno di fronte all’altro come eguali, in senso sostanziale, nel foro politico, e quindi di impegnarsi nel tipo di politica che più da vicino soddisfa i principi della democrazia deliberativa.

(traduzione di I.S.)


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