I due dilemmi dello stato sociale
Philippe Van Parijs
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Questo saggio appare sul numero 2/2000 della Nuova Serie della
rivista Filosofia e Questioni Pubbliche diretta da Sebastiano
Maffettone, e fa parte di un forum su Workfare e Welfare. Per
ulteriori informazioni potete collegarvi al sito della Luiss
Edizioni o scrivere all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it
Una versione precedente di questo articolo è stata presentata a
due conferenze: “What next for the European Left?”, sponsorizzato
insieme dal Friedrich Ebert Stiftung e dallo Institute for Public
Policy Research, West Sussex, settembre 1993, e “From Social
Exclusion to Social Cohesion”, sponsorizzato dall’Unesco e dallo
Ilo, Roskinlde (Danimarca), marzo 1995. Era stato originariamente
pubblicato in “Political Quarterly”, gennaio 1996.
Primo dilemma: lotta allo sfruttamento contro lotta all’esclusione
Migliorare il reddito e le condizioni di lavoro dei lavoratori più
poveri - che sia direttamente, attraverso un reddito minimo imposto
per legge e altri elementi della legislazione sul lavoro, o
indirettamente, migliorando il livello di reddito sostitutivo
garantito ai disoccupati - è stato a lungo un obiettivo centrale del
nostro welfare state. Ma, poiché anche l’esclusione dal lavoro
pagato è, di per sé, una forma di deprivazione, la lotta alla
disoccupazione deve essere anch’essa un obiettivo centrale. La
tensione fra questi due obiettivi genera il nostro primo dilemma.
Almeno sotto un certo insieme di assunzioni (non keynesiane), che sono
diventate abbastanza realistiche, più si migliora la situazione
materiale dei più poveri fra i lavoratori, minore diventa il lavoro,
e più persone vengono private del privilegio di averne uno. Così, i
due obiettivi spingono potenzialmente in direzione opposta. E quando
la disoccupazione smette di essere un fenomeno marginale, questo
conduce a un serio dilemma.
Si può gettar luce su questo dilemma partendo dal verificarsi di
grandi sperequazioni fra gli stipendi lordi che si può osservare in
gran parte del mondo occidentale, all’incirca negli ultimi quindici
anni. L’esatto modello causale è controverso. Ma esso deve
necessariamente includere fattori quali l’espansione mondiale, la
crescente competizione sui mercati del lavoro e dei beni e la natura e
la distribuzione delle competenze, ancor più cruciali dopo la
rivoluzione dei computer. Negli Stati Uniti e nell’Europa
Occidentale gli stipendi lordi più alti sono cresciuti
considerevolmente. Ma, alla base c’è una differenza sorprendente:
la migliore protezione sociale sia degli occupati che dei disoccupati,
che negli Stati Uniti ha generato una caduta piuttosto consistente
nella categoria più bassa di stipendi, ha generato in Europa un
considerevole e duraturo aumento - ciclico - di persone escluse da
occupazione remunerativa. Il successo stesso (per quanto parziale)
della lotta dell’Europa alla disoccupazione sta rendendo l’esclusione
la forma dominante di ingiustizia sociale. C’è un’alternativa a
questo penoso dilemma fra lotta allo sfruttamento e lotta all’esclusione,
fra i nostri problemi con la povertà e quelli con la disoccupazione?
Sì, c’è.
Insieme a un numero crescente di persone in Europa, ho sostenuto che
qualunque soluzione realistica e desiderabile di questo dilemma deve
comportare un ampio reddito minimo garantito che prenda la forma non
di una rete di sicurezza basata sulla verifica dei mezzi disponibili a
cui la gente resti attaccata - come illustrano i casi del basic
social security inglese, del Sozialhilfe tedesco, del revenu
minimum d’insertion francese eccetera - ma di una prestazione
minima autenticamente incondizionata. Con diversi nomi - basic income,
social dividend, Grundeinkommen, reddito di
cittadinanza, allocation univeselle eccetera - questa idea è
stata avanzata come elemento chiave propositivo di un progetto
progressista per un’Europa postcomunista, post-neo-liberale.
Certo, data la separazione, anche se parziale, fra lavoro e reddito
che implica, questa proposta richiede un ripensamento piuttosto
radicale - non ultimo in quei partiti il cui stesso nome chiarisce
quanto centrale considerino il lavoro (pagato). Ma, contrariamente a
ciò che si dice talvolta, essa non fa affidamento su alcuna assurda
ottimistica assunzione di età dell’abbondanza. E neppure si
sbarazza in nessun modo del fine della piena occupazione, nel
significato essenziale di cercare di dare a ciascuno la possibilità
di fare lavori pagati, in qualche misura gratificanti. Anzi, qualcosa
che assomigli al basic income è parte di qualunque strategia
realistica per raggiungere tale fine.
Un circuito sempre più ampio di persone comincia a vedere qualche
senso in questa audace proposta, cominciando a capire quanto stretti
siano i confini di ciò che ci si può aspettare da politiche
alternative, quali la riduzione generale dell’orario di lavoro o le
politiche attive del lavoro, e cominciando a condividere la seguente
intuizione fondamentale. Accompagnato da una corrispondente riduzione
di tutti gli altri benefici e del salario minimo netto, il basic
income può essere visto come un sussidio di impiego dato a tutti i
potenziali lavoratori piuttosto che a quelli occupati, con
implicazioni peculiari e cruciali rispetto al tipo di lavoro a bassa
produttività che si rende in questo modo disponibile. In secondo
luogo, poiché viene dato senza riguardo allo status lavorativo, l’introduzione
di un basic income annulla o riduce la trappola della disoccupazione,
non solo facendo spazio a un reddito positivo differenziale fra ozio
totale e qualche attività, ma ancor più fornendo garanzie
amministrative che mettono in condizione gli individui di assumersi il
rischio di accettare un lavoro o di avviarne uno in proprio. In terzo
luogo, il basic income può essere visto come una strategia soft per
il job sharing, fornendo a tutti una piccola paga sabbatica
incondizionata, e quindi facendo sì che in molti possano permettersi
un temporaneo abbandono del lavoro per prendersi una pausa, di fare un
lavoro autonomo o riqualificarsi, o di lavorare stabilmente ma facendo
più part-time.
L’effetto combinato di questi tre processi dovrebbe portare a un
più agile funzionamento del mercato del lavoro, con più lavori che
facciano da trampolino alla costruzione di una carriera, ad alta
intensità formativa, spesso part-time. Tali lavori dovrebbero essere
pagati poco, in quanto rappresentano un investimento a rischio da
parte del datore di lavoro verso un essere umano libero che potrebbe
andarsene via in qualunque momento. Ma chiunque potrebbe accettare di
essere pagato poco perché la paga sarebbe incrementata da un reddito
a cui i lavoratori avrebbero titolo incondizionatamente, che li
metterebbe quindi in condizione di rifiutare i lavori non abbastanza
attraenti in se stessi o per le prospettive che offrono. Certo, la
misura di questi effetti sarà fortemente sensibile al livello di
basic income e al pacchetto di aggiustamenti istituzionali, fiscali e
relativi al mercato del lavoro che dovranno accompagnare la sua
introduzione. Ma, se inserito in un pacchetto appropriato, anche un
basic income modesto potrebbe dare uno stop al crescente dualismo e
alla de-moralizzazione del nostro sistema socioeconomico. Nelle
presenti condizioni, l’indignazione dei senza lavoro, da cui
moralmente e giuridicamente ci si aspetta che siano in cerca di ciò
che molti sanno non troveranno mai, si accompagna al fatto che chi
paga contributi alla sicurezza sociale si senta oltraggiato dal
sovvenzionare l’ozio di persone che stanno palesemente trasgredendo
le regole del gioco. Una volta che si ponga fine all’utopia che
tutti quelli che vogliono lavorare possano trovare un lavoro che
faccia loro guadagnare abbastanza per vivere (una volta sommato alla
parte incondizionata del loro reddito), le condizioni connesse all’assistenza
- tipicamente, benefici di disoccupazione ristretti a coloro che
cercano attivamente lavoro - potranno essere applicate in modo più
realistico e più legittimo. L’introduzione di un basic income
incondizionato renderebbe dunque possibile anche riabilitare le
caratteristiche di assicurazione sociale del nostro sistema di welfare.
Di conseguenza, laddove anche una ben intenzionata crescita graduale
del livello reale della sicurezza potrebbe giustamente essere temuta,
per l’ulteriore effetto di disturbo sul funzionamento del mercato
del lavoro, ci si può aspettare invece che una crescita graduale
della prestazione minima incondizionata, ben inserita, potrebbe
aiutare a risolvere sia il problema della povertà sia quello della
disoccupazione.
Secondo dilemma: capacità economica contro capacità politica
Che ci sia o meno la volontà di introdurre un basic income, e di
renderlo una componente centrale del nostro welfare state, sembra che
ci si trovi di fronte ad un secondo dilemma che è stato chiaramente e
scioccantemente illustrato da un’inserzione a tutta pagina
pubblicata qualche tempo fa su un quotidiano belga dal presidente
(socialista) del governo vallone. L’inserzione ha nella parte
superiore copie ingrandite di assegni emessi da varie compagnie che
hanno recentemente deciso di stabilirsi o espandersi in Vallonia. Il
titolo e il sottotitolo del messaggio suonano: “Ciò che ci unisce
oggi non è più la carità ma gli affari”.
Ecco qui, dunque, il nostro secondo dilemma. O noi cerchiamo di
formulare e implementare il nostro ideale di giustizia sociale in una
regione o in una nazione, ma allora scopriremo subito che, per una
varietà di ragioni che si sostengono reciprocamente, la mobilità
potenziale di risparmi, investimenti, lavoro qualificato e domanda dei
consumatori è oggi in Europa tale che il solo scopo che ci si può
permettere, in qualunque area politica - sociale, ambientale,
formativa e così via - è nient’altro che “affari”, come la
metteva l’inserzione: i vincoli economici sono così potenti che
siamo costretti a dirigere lo Stato come se fosse un’azienda e a
fare della competitività l’interesse paradigmatico. Oppure,
possiamo cercare di darci alcuni indirizzi, provando a formulare e a
implementare il nostro ideale di giustizia sociale su una scala più
ampia - tipicamente, per noi, l’Unione europea - ma allora ci
troveremo subito di fronte a potenti ostacoli che sorgono da un’ampia
sfiducia nei confronti delle istituzioni fortemente centralizzate, da
mancanza di identificazione e quindi di solidarietà spontanea fra
residenti di diverse aree, e dalla difficoltà di far emergere un
dibattito pubblico comune, oltrepassando confini nazionali e
linguistici, circa la forma e l’estensione della solidarietà
richiesta.
C’è un modo per evitare questo secondo dilemma? Ancora una volta,
io credo che ci sia, e che sia tale che, di nuovo, il basic income
possa giocare un ruolo. Non farò qui alcun tentativo nemmeno di
abbozzare le linee di quale sia per me una soluzione adeguata al
dilemma. Semplicemente, asserisco due ferme convinzioni a cui sono
stato portato dall’osservazione da vicino del dibattito sul
carattere regionale della redistribuzione in Europa e anche nel mio
paese, la cui esistenza stessa dipende dalla preservazione di un
sistema di sicurezza sociale nazionale. Una è che un alto livello di
redistribuzione strutturale fra i confini di entità politiche
ampiamente autonome può essere sostenuto solo se prende la forma di
un sistema di trasferimenti interpersonale, piuttosto che di
finanziamenti ai governi delle entità beneficiarie. L’altra
convinzione è che, specialmente se le entità politiche coinvolte
sono culturalmente e linguisticamente assai diverse, tale sistema può
essere sostenuto soltanto se, sia dal versante dei contributi sia dal
versante dei benefici, esso è in grado di operare usando informazioni
estremamente semplici e non controverse. È meno probabile che
insorgano risentimenti che metterebbero in serio pericolo il sistema,
per esempio, se tutto ciò che occorre controllare, dal lato dei
benefici, è se una persona esista e quanti anni abbia, piuttosto che
se abbia realmente bisogno di un trattamento psichiatrico o se sia
davvero involontariamente disoccupata.
Per via dell’unione di queste due convinzioni, credo fortemente che
il basic income non solo abbia un ruolo centrale da giocare nel
risolvere il primo dilemma del welfare state europeo, ma che abbia
anche un ruolo significativo da giocare nell’affrontare il secondo,
quello fra l’insostenibilità economica di un generoso welfare state
nazionale e l’insostenibilità politica di un generoso welfare state
transnazionale. L’argomento abbozzato qui avrebbe bisogno di essere
elaborato e specificato lungo diverse linee. Ma prevedo che quante
più persone cominceranno a capire la piena estensione e l’esatta
natura dei due grandi dilemmi di fronte a cui ci troviamo, il basic
income si trasformerà da una simpatica idea di un pugno di originali,
che credono che l’età dell’abbondanza sia stata infine raggiunta,
a uno strumento chiave nella lotta per mantenere la solidarietà nella
società e promuovere la giustizia sociale.
(traduzione di Ingrid Salvatore)
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