L’idea di “società civile” nel
pensiero di Gramsci
Jacques Texier con Domenico Losurdo
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democrazia
L’idea di “società civile”
nel pensiero di Gramsci
Questa intervista fa parte dell’Enciclopedia multimediale delle
scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in
collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e
con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica
Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.
L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme
d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica,
la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei
termini vivi della cultura contemporanea.
Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it
Professor Texier, ha ancora un senso, ai giorni nostri, leggere o
rileggere Gramsci?
Certamente, penso che da molti punti di vista studiare Gramsci oggi
abbia ancora un senso. Innanzi tutto si deve partire consapevolezza
che il suo pensiero è intrinsecamente difficile. Di questo ci si è
accorti quando, dopo la prima pubblicazione delle opere di Gramsci, e
in particolare dei Quaderni del carcere, si è constatato come un
concetto così importante come quello di 'rivoluzione passiva' non sia
stato realmente compreso che intorno al 1917. Si dovette attendere
parecchio tempo per capire che in Gramsci esisteva questo concetto, e
che aveva un'importanza fondamentale per una riflessione su alcuni
aspetti sia del diciannovesimo che del ventesimo secolo. Si è inoltre
scoperto abbastanza rapidamente che l'originalità di Gramsci
consisteva nell’aver colto l'importanza del momento ideologico,
culturale e teorico, e della dimensione politica del processo storico;
a partire da questo si pongono però alcuni problemi di
interpretazione.
Secondo una certa interpretazione, Gramsci non si interessava in fondo
molto al mondo dell'economia, trascurava di studiare, in Marx, tutto
ciò che concerne precisamente la vita economica, mentre, per quanto
riguarda sia l'Italia che il mondo, non prestava attenzione alle
trasformazioni economiche: nulla è invece più falso di tale
interpretazione. Per un certo periodo si è avuta la tendenza a fare
di Gramsci un “teorico delle sovrastrutture” - tale definizione è
certamente plausibile - ma a detrimento di Gramsci stesso, che era per
parte sua attento alle trasformazioni della struttura del mondo o di
determinati paesi, le quali sono innanzi tutto di natura economica.
Questi sono solo alcuni esempi per mostrare che non è affatto facile
comprendere i concetti fondamentali del pensiero di Gramsci.
La questione politica dell’“egemonia” è connessa al tema della
“società civile”: il concetto di 'egemonia' non pone però la
teoria politica di Gramsci immediatamente in contraddizione con la
visione attuale della democrazia e dei suoi valori?
Un certo numero di filosofi e di storici hanno avanzato l'ipotesi che
il concetto di 'egemonia' e quello di 'società civile, in quanto
strettamente legato a quello di 'egemonia', sarebbero in qualche modo
inadeguati all'idea che domina oggi del valore della democrazia, in
particolare nella sua dimensione pluralistica. In un certo senso, il
concetto di 'egemonia' non ci permetterebbe di uscire da una
concezione della politica basata fondamentalmente sull'idea di forza,
ossia sull'idea di una certa manipolazione ideologica: si tratta del
consenso, ottenuto però mediante manipolazione. In questo modo il
concetto di 'egemonia' risulterebbe amputato della sua dimensione
universale, del suo riferimento all'emancipazione; ciò significa
disconoscere radicalmente l'importanza di questo concetto, mentre è
necessario mostrare le ragioni che hanno potuto avvalorare, o comunque
favorire, questa incomprensione, al di là delle strumentalizzazioni
politiche che si sono sovrapposte.
Innanzitutto è necessario spiegare che cosa Gramsci intendesse per
“società civile” e, sulla base di ciò, per “egemonia, egli
intende la società civile in un senso molto particolare che non è
utilizzato da altri pensatori. La società civile, in senso
specificamente gramsciano, è costituita da un insieme di associazioni
e organismi privati, come i sindacati, i partiti politici, le chiese,
gli editori, i giornali. Tali organismi sono istituiti mediante
l'iniziativa di individui o di gruppi che, in quanto tali, non
appartengono alla sfera pubblica dello stato, e funzionano secondo la
prassi dell'adesione volontaria; questo è dunque un dato
fondamentale: c’è l’iniziativa degli individui e non un comando
dall'alto, dallo stato. Questi organismi, nei quali gli intellettuali
giocano un decisivo ruolo di organizzazione, cercano di ottenere il
consenso di larghe masse della popolazione e, in questo senso, essi
sono il luogo di una lotta per l'“egemonia”, culturale e politica,
di un gruppo sull'intera società: il principio non è dunque quello
del comando o della coercizione, ma quello del consenso.
È necessario, in questa prospettiva, che questo gruppo sociale
eserciti una politica di egemonia, e, secondariamente, che sia
portatore di un progetto di dimensioni “universali”. Rispetto alla
società politica o allo stato - incentrati sul comando giuridico,
sulla coercizione o anche, come afferma Gramsci, sulla dittatura -
abbiamo allora un principio completamente diverso, quello della libera
adesione o del consenso; ciò permette di affermare che lo stato, come
lo concepisce Gramsci, non sia riducibile alla semplice società
politica, o allo stato nel senso stretto del termine. Lo stato, nella
sua globalità, lo “stato integrale” comprende per Gramsci, nello
stesso tempo, la società civile, con i suoi organismi privati che
sono lasciati all'iniziativa degli individui o dei gruppi, e
l'apparato giuridico di comando.
Già a partire da alcune di queste considerazioni si può cogliere il
significato profondo del concetto di 'egemonia' in Gramsci, che ne
delinea l’importanza, in particolare, nel quadro delle società
moderne, di quelle che definisce “democrazie moderne”. A questo
punto è opportuno aprire una parentesi per dimostrare come tale
concetto di 'egemonia' abbia una larghissima applicazione: Gramsci ne
trova delle tracce in Machiavelli, e dimostra come i giacobini
impostino una forte politica egemonica, essendo in grado di trascinare
la classe contadina nelle lotte della Rivoluzione francese. Il
concetto di 'egemonia' ha dunque un’applicazione, storicamente
parlando, piuttosto vasta. Gramsci concepisce le democrazie
occidentali come caratterizzate fondamentalmente da un sistema
rappresentativo a suffragio universale, anche se poi, ciò che le
caratterizza in maniera più specifica, è l'esistenza di partiti
politici di massa e di organizzazioni sindacali di massa: questi sono
i due elementi fondamentali delle democrazie moderne. Come noto,
Gramsci ha cercato di elaborare una strategia per il movimento operaio
adeguata a queste società occidentali sviluppate, a queste democrazie
moderne; egli ha dato un nome a questa strategia, parlando di
passaggio dalla “guerra di movimento” alla “guerra di posizione”.
Le società moderne, le democrazie moderne, rappresentano dunque
evidentemente un ambito prioritario che Gramsci individua allorché
mette in evidenza l'importanza sempre più crescente del momento
egemonico della politica.
Questa è dunque la specificità propriamente moderna di questo
concetto, anche se Gramsci coglie in un certo senso qualcosa di
radicalmente nuovo nella storia del mondo: se l'egemonia diventa
veramente importante, se essa diventa cioè veramente decisiva, al
punto da conquistare, con l’attività degli organismi della società
civile, l'adesione di più vaste masse della popolazione, ciò
significa che la politica stessa è sul punto di trasformarsi. Gramsci
ha colto in altri termini l'emergenza di questo momento nuovo della
storia, di una forma nuova di sviluppo storico, nel quale la
convinzione ed il consenso sono sempre più importanti. Il fatto che
la politica non si riduca fondamentalmente al momento della “dominazione”,
e che emergano, con la borghesia o il proletariato, delle classi in
grado di conquistare l'egemonia, che nel loro progetto politico hanno
precisamente tale obiettivo, significa chiaramente che l'egemonia ha
una dimensione di universalità, e comporta una trasformazione
profonda, che si accompagna a sua volta all'emancipazione degli
uomini. Si tratta dunque di un concetto di grandissima fecondità: si
pensi, ad esempio, ad un filosofo come Habermas ed alla teoria dell'“agire
comunicativo” che è caratteristica della nuova aspirazione a
trasformazioni ancora più profonde della politica in senso
democratico, delle discussioni democratiche senza limitazioni. Per
affrontare questa tematica dell'“agire comunicativo” su un terreno
realistico si può proprio partire dalla tematica della “lotta per
l'egemonia”.
In ultima analisi, si deve cercare di cogliere un punto controverso:
se si afferma - a proposito dell'egemonia e della coercizione - che in
fondo “società politica” e “società civile”, in quanto luogo
dell’egemonia, si identificano, ciò significa che fra la dittatura
e la conquista del consenso non vi sarebbe alcuna differenza, che
cioè la conquista del consenso sarebbe semplicemente una forma di
manipolazione violenta; in tal caso è evidente che il concetto di
'egemonia' perde ogni importanza in rapporto all'universalità ed all’emancipazione
umana. È questa una delle ragioni di confusione che hanno
indubbiamente facilitato - al di là di ogni volontà di
strumentalizzazione - la messa in discussione di questo concetto.
Se da una parte si deve insistere sulla distinzione metodologica
operata da Gramsci tra “società civile” e “società politica”,
dall’altra si deve dire che la società civile è essa stessa il
risultato di un processo storico. Il problema è allora: quali sono le
condizioni di nascita e di sviluppo della “società civile”?
La società civile è indubbiamente un prodotto storico: il problema
è di sapere esattamente quale sia la portata storica di questo
concetto e della struttura sociale che gli corrisponde. In una prima
fase la società civile è certamente un prodotto storico: un prodotto
storico della modernità. È ovvio che, perché possa realizzarsi la
struttura di cui parla Gramsci - la struttura degli organismi privati
che non sono lo stato nel senso stretto del termine - deve verificarsi
una totale distinzione tra la sfera dello stato e quella della
società. È necessario, dunque, fare riferimento allo stato
rappresentativo moderno nella sua distinzione rispetto all'intera
società. Questa è una prima condizione, alla quale va aggiunta quest’altra:
bisogna che emergano, storicamente, il libero individuo - che è egli
stesso un prodotto della modernità, un prodotto dello sviluppo della
borghesia - e l'indipendenza personale, bisogna cioè che siano
annullate le forme di vita comunitaria precedenti. L'individuo moderno
è l'individuo che in qualche modo si sente isolato. Hegel, al quale
Gramsci fa spesso riferimento, parla dell'individuo moderno come del
figlio della società civile, che è dunque caratterizzato dalla sua
indipendenza personale. I limiti di questa indipendenza personale che
caratterizzavano precedentemente la vita sociale, le relazioni
sociali, sono stati annullati con l'emergere del mondo moderno, dello
stato e della società moderni.
L'indipendenza personale è dunque la prima condizione dell’esistenza
della società civile nel senso gramsciano, e tale indipendenza è
stata teorizzata molto chiaramente da Hegel nella sezione dei
Lineamenti di filosofia del diritto intitolata “Il diritto astratto”,
e, in maniera ancora più precisa, nella sezione denominata “La
società civile”. La società civile, per Hegel, è la soppressione
delle comunità precedenti, mentre il concetto fondamentale del
diritto astratto è la persona giuridica con la sua capacità di
contrattare, di allacciare rapporti con altri individui. Innanzi
tutto, dunque, l'individuo emerge come soggetto giuridico con i
diritti che gli competono. Se però questo primo punto è stato
generalmente ben considerato dai teorici liberali, vi è un secondo
aspetto caratteristico che alcuni di loro accettano con molta
reticenza: si tratta del “principio di associazione”, in base al
quale nessuna società civile si costituisce se gli individui, che i
rapporti di mercato in qualche modo isolano, non escono da tale
isolamento per associarsi e partecipare a organismi collettivi. Questa
dimensione associativa è dunque una condizione fondamentale
dell'esistenza della società civile nel senso gramsciano. È
opportuna però una precisazione: mentre il pensiero liberale classico
ha rifiutato di prendere in considerazione il “principio di
associazione”, opponendo libertà, indipendenza dell'individuo e le
forme di associazione sociali e politiche, ciò che al contrario
caratterizza filosofi come Hegel o come Gramsci - che a Hegel deve
molto - è proprio l’aver pensato parallelamente, in modo
complementare, il principio della indipendenza personale e quello di
associazione.
La società civile nasce con la società borghese moderna, ma è in
grado di svilupparsi al di fuori di questa stessa società borghese o
di sopravvivere al suo superamento?
Credo fermamente che ciò sia possibile, ed è per questo che il
pensiero di Gramsci è da considerare estremamente attuale. Innanzi
tutto si tratta di mostrare che questa struttura, che Gramsci
definisce società civile, è nata con la borghesia, con i rapporti di
mercato, con il capitale, con la grande industria. Ma osservandola
più da vicino è facile individuare alcune forme di società nelle
quali il capitale e le strutture della società industriale moderna si
sviluppano senza che nello stesso tempo si sviluppi una società
civile consistente. Un esempio di questo è offerto da Giappone, dove
c’è una scuola marxista, detta “della società civile”, che fa
riferimento più esplicitamente a Hegel che a Gramsci. L'idea
fondamentale che questa scuola sviluppa della società civile è la
seguente: il Giappone è un paese estremamente dinamico, quanto all’industria
ed ai suoi settori di punta; è un paese capitalista, e si ha dunque,
contemporaneamente, il capitale e l'industria. Quanto alla società
civile, però, essa è completamente embrionale: di conseguenza si
può avere uno sviluppo del capitale e dell'industria senza che vi
siano strutture adatte alla società civile.
Un altro esempio è costituito dalle società del cosiddetto
socialismo reale, le quali, dopo la Rivoluzione di Ottobre, hanno
sviluppato senza capitale forme molto dinamiche di società
industriale, che hanno trasformato profondamente questi paesi. Si può
sostenere che la modernizzazione industriale si sia compiuta in quei
paesi sotto la direzione dello stato e senza un sistema capitalistico.
Si ha dunque industrializzazione e modernizzazione, anche se oggi si
può constatare come quelle che non si sono sviluppate in tali paesi -
o alle quali non è stato consentito di svilupparsi - siano proprio le
strutture della società civile. Non bisogna quindi stupirsi che in
paesi come l'Ungheria o l'Unione Sovietica - ed in genere in tutti i
paesi socialisti - il pensiero di Gramsci ed in particolare questo
aspetto del pensiero di Gramsci, questa teoria dell'egemonia e della
società civile, siano studiati con la maggior cura possibile. Il
problema di queste società è infatti precisamente quello di “democratizzare”
l’esistenza e di costituire una società civile. Le situazioni si
sono allora più o meno evolute a seconda dei paesi - alcuni per
esempio prevedono un pluralismo di partiti, mentre altri lo vietano -
anche se, in ogni caso, si rileva la costituzione di associazioni che
non sono controllate dallo stato, che sono indipendenti da esso, ed
alle quali gli individui possono aderire liberamente.
Ci sono istituzioni e rapporti nati nel seno della società borghese
che, però, vanno al di là della stessa società borghese: questo
pone il problema più generale del rapporto tra determinatezza storica
e permanenza nel tempo e nella storia.
Il problema è infatti posto in questi termini e tutta la difficoltà
sta nell'essere capaci di riflettere su questa permanenza. Sotto certi
aspetti, dunque, è incontestabilmente possibile separare la società
civile dal capitale: non si tratta di una separazione drastica, e si
può pensare in ogni caso che la società civile, con la funzione
fondamentale che essa gioca in rapporto allo sviluppo della
democrazia, sopravviverà alle forme di società borghesi. Si ha
sempre a che fare con la storicità, ma vi sono dimensioni di
storicità che, in rapporto ad altre, hanno una caratteristica
particolare: alcune sono eminentemente transitorie, e spariscono
rapidamente, mentre altre, al contrario, sembrano avere in qualche
modo una capacità di sopravvivenza alle loro condizioni di nascita.
Il problema è dunque se si è in grado di riflettere su questa
continuità, su questa permanenza nella storia della umanità. È un
problema che può essere formulato anche domandandosi di quale specie
di filosofia abbiamo bisogno: è opportuno ricordare che Gramsci
definiva la propria filosofia, riprendendo un concetto utilizzato da
Benedetto Croce, “storicismo assoluto”.
Per comprendere la permanenza di un certo numero di istituzioni, di
valori, di idee, di filosofie, di scienza o di conoscenza, dobbiamo
rinunciare alla prospettiva della filosofia speculativa: è facile
infatti accettare una trascendenza che è stata trovata e, di
conseguenza, sopprimere il problema della dimostrazione. Al contrario,
è molto più difficile pensare in termini di storicità radicale e,
nello stesso tempo, mostrare che in questo processo storico
fondamentale vi è qualcosa che sopravvive, un passato che continua ad
essere vivo nel presente, anche se con qualche trasformazione e sotto
nuove forme. È, questa, un'idea che i marxisti ammettono volentieri,
quando si tratta dello sviluppo di quelle che si definiscono le “forze
produttive”; senza dubbio vi sono degli aspetti di continuità e di
accumulazione nello sviluppo delle forze produttive. Allo stesso modo
nessuno contesterà che se il capitalismo ha inventato forme di lavoro
cooperativo, socialmente organizzato, queste ultime non spariranno con
il modello di produzione capitalista; così si ammette volentieri che
il mondo moderno creato dalla borghesia e dal capitale ha
universalizzato le relazioni sociali, il commercio sociale, il quale,
come afferma Marx, non svanirà: esso costituisce anzi un’esperienza
fondamentale nella storia dell'umanità.
Si tratta allora di essere in grado di pensare la storia
dell'umanità, di pensare nella storia qualcosa che possa generare
condizioni di esistenza per l'uomo, e che faccia in modo che l'uomo
nasca e si sviluppi. Tale concetto esiste, ed è stato formulato da
Marx: si tratta del concetto di 'oggettivazione', che è stato ripreso
anche da altri marxisti, come, ad esempio, Lukacs e la scuola di
Budapest, che parlano genericamente di “oggettivazione” per
indicare tutti gli aspetti della vita storica, come la filosofia, la
scienza, l'arte, che palesemente sopravvivono alla loro particolare
condizione di nascita. Bisogna inoltre saper riflettere anche sulla
stabilità delle istituzioni e delle strutture: la società civile è
una forma di struttura che permette la nascita delle istituzioni. È
necessario superare uno storicismo semplicemente relativista, per
approdare a quello che si potrebbe definire uno storicismo “approfondito”.
È lo stesso Gramsci ad affermare che stato e società civile si
identificano: in questo senso però, non si riesce a capire in cosa
consista l'autonomia della società civile: può fare chiarezza su
questo punto?
Su questo punto è necessaria una precisazione molto importante circa
la complessità del pensiero di Gramsci. Dell'espressione “società
civile” esistono in Gramsci diverse accezioni e ciò significa che,
in verità, tale espressione riflette aspetti completamente diversi
della vita sociale moderna. È in questo modo che si deve affrontare
il problema. Gramsci, in effetti, utilizza il concetto di 'società
civile' in un senso completamente diverso da quello che si è
analizzato, in base al quale la società civile costituisce l'insieme
di organismi privati, il luogo della lotta per l'egemonia culturale e
politica. Gramsci, riprendendo una tradizione liberale, la tradizione
del liberalismo economico, immagina la società civile come luogo
delle attività economiche, con un contenuto completamente diverso da
quello che si è considerato sopra. È a proposito della società
civile intesa in questo senso economico, in quanto luogo di scambi
economici, che Gramsci definisce un aspetto estremamente importante
del suo pensiero, l'idea cioè che nella realtà effettiva non ci sono
separazione né autonomia, ma, al contrario, un collegamento profondo
tra il mondo della vita economica, tra la società civile definita
economicamente, e le strutture dello stato in senso stretto. La
formula gramsciana “nella effettiva realtà, società civile e stato
si identificano” si riferisce al secondo significato
dell'espressione “società civile”. È fondamentale prestare
attenzione a questo secondo significato poiché, se lo si ignora, si
stravolge completamente il pensiero di Gramsci.
La seconda accezione del termine “società civile” è però
profondamente diversa dalla prima, non avendosi più a che fare con le
sovrastrutture ideologiche ma con il luogo della produzione economica:
cosa significa in tale contesto la nozione di 'mercato determinato'?
Gramsci concepisce il contenuto della società civile con l'aiuto del
concetto, notevolmente importante, di 'mercato determinato' e del
termine “economicus”, che ha molte implicazioni dal punto di vista
antropologico. La teoria gramsciana del “mercato determinato”
prevede una critica del liberalismo, nel contesto generale della
economia politica e del suo metodo. Gramsci procede in due direzioni:
innanzi tutto l'economia politica ha il diritto, come qualsiasi altra
disciplina scientifica, di procedere per astrazioni e, di conseguenza,
di non tenere conto dello stato, di considerare una società nella sua
pura economicità e di studiare gli automatismi, le tendenze che si
manifestano in un mercato determinato, studiando le connessioni
necessarie, i legami di casualità che in questo si manifestano. È
opportuno insistere su questa espressione “mercato determinato”,
poiché Gramsci pensa sempre in termini storici: un mercato è
determinato, cioè ha una concreta esistenza storica. Si tratta allora
di capire che cosa caratterizzi il mercato determinato per Gramsci, e
in quale preciso momento intervenga la sua critica al pensiero
liberale, al liberalismo economico, che egli definisce anche “economismo
del pensiero liberale”.
Ebbene, Gramsci afferma che un mercato determinato non esiste da sé,
in modo astratto, ma sempre in quello che egli definisce un blocco
storico. Quest’ultimo è composto, contemporaneamente, da strutture
di produzione e di scambi, che si effettuano in particolari condizioni
politiche e statali. È impossibile per esempio immaginare il mercato
determinato del capitalismo concorrenziale classico senza il controllo
e l'intervento dello stato; si tratta allora di capire in che modo si
debba configurare tale intervento dello stato; su questo punto la
critica di Gramsci è rivolta ad un pensatore liberale come Einaudi.
Lo stato, in effetti, non si accontenta di far regnare la legalità
che consacra in qualche modo l'eguaglianza tra i protagonisti degli
scambi; esso è presente nel mercato determinato in modo molto più
determinante, in quanto garantisce ad una classe sociale il monopolio
della proprietà dei mezzi di produzione. Di conseguenza, se esistono
capitalisti e proletari - che non sono proprietari se non della
propria forza lavoro - ciò è garantito dallo stato; nel mercato
determinato, cioè nel mercato capitalista, prevale in altri termini
una dimensione di “forza” e naturalmente, l'economista che avanza
l'ipotesi della pura economicità, può non tenere conto del fatto che
lo stato garantisce la continuità di tali strutture.
Il concetto di mercato determinato, però, è in Gramsci un concetto
socio-economico ed anche socio-politico, e su questa base si comprende
anche la sua critica dell'economismo del pensiero liberale. Tale
critica dell’economismo liberale tocca anche alcune forme di
marxismo che sembravano a Gramsci decisamente insoddisfacenti e
influenzate dal pensiero liberale borghese; d’altro canto egli vuole
promuovere precisamente una prospettiva di pensiero che sia
socio-economico e che sia sempre in grado di prendere in
considerazione i “rapporti di forza” e i diversi momenti d'un
rapporto di forza in una data situazione. C’è un momento puramente
oggettivo, che consiste nel numero di imprese, di operai e di
popolazioni utilizzati in un certo settore; c’è poi il momento
propriamente politico, mentre un terzo momento, che non bisogna mai
dimenticare, è quello propriamente militare. Questi sono i tre
momenti del rapporto di forza, ed un mercato determinato esiste in un
blocco storico, cioè in una situazione nella quale sono presenti
questi tre momenti fondamentali.
Per quanto concerne il ruolo dello stato nel mercato determinato e
nelle attività economiche, il discorso coinvolge anche la questione
dei sindacati: si sa che il pensiero liberale classico rifiutava il
principio di coalizione, proibiva le coalizioni: lo stato, che
teoricamente non dovrebbe intervenire, che non dovrebbe turbare il
libero gioco delle leggi di mercato, interveniva invece regolamentando
il mercato, determinandolo in modo preciso e proibendo le coalizioni.
Malgrado ciò, il movimento sindacale si è però sviluppato e questo
significa una completa trasformazione del contratto di lavoro: nella
misura in cui gli individui si associano, le loro forze si
moltiplicano e, di conseguenza, cambia anche l'atto del contrattare,
perché ci si trova di fronte delle forze collettive. Un secondo
esempio - per arrivare al periodo del capitalismo concorrenziale - è
l'idea di Gramsci, come già di Marx, per cui i parlamenti borghesi,
eletti con il suffragio censitario e con l'eliminazione di tutti
coloro che non erano proprietari e che non pagavano una certa imposta,
rappresentavano le Trade Union della borghesia, all'interno della
quale essi elaboravano una legislazione adeguata sotto tutti i punti
di vista: vi era perciò sempre un intervento da parte dello stato.
Oggi conosciamo a sufficienza la situazione in Francia o in
Inghilterra per comprendere come la nazionalizzazione o
statalizzazione di certi settori dell'economia rappresenti un
intervento dello stato, così come, al contrario, la
deregolamentazione, la denazionalizzazione e la privatizzazione: sono
semplicemente due forme d'intervento differenti.
Qual è il senso della distinzione, nella teoria di Gramsci, di due
prospettive tendenzialmente contrastanti, riguardo al concetto di
'società civile', che viene intesa, da un lato, come rappresentante
del “mito borghese” del mercato e dall’altro, come momento
essenziale dello sviluppo della democrazia, ben al di là della
società borghese?
Se in Gramsci si ha questa duplice accezione del concetto di società
civile, in un certo senso è perché nella realtà le cose stanno
proprio così, e ciò dovrebbe bastare per fare chiarezza nelle
discussioni. Anche nelle discussioni odierne sul concetto di 'società
civile', occorre tenere sempre presente il significato preciso nel
quale si utilizza questa espressione. C’è anche chi ritiene la
società civile sia un mito: noi viviamo in una forma di capitalismo
sviluppato, lo stato svolge molteplici funzioni economiche, di
ridistribuzione, ed è presente ovunque: che cos'è, dunque, questa
società civile di cui si sente parlare ovunque? Se si considera la
società civile nella seconda accezione che si è esaminata - in base
alla quale essa è il luogo delle attività economiche e sta in
collegamento con lo stato - risulterà che stato e società civile si
identificano. È, questa, una tesi corretta e perfettamente fondata.
Bisogna allora riconoscere che, per tutte le società che aspirano
alla democrazia, ad uno sviluppo democratico, come ad esempio i paesi
socialisti al giorno d'oggi, il concetto gramsciano di 'società
civile' come insieme di organismi privati, come luogo di lotta per
l'egemonia culturale e politica, risulta di importanza fondamentale.
È importante insomma sviluppare queste strutture della società
civile, strutture che, in quanto organismi privati e indipendenti
dallo stato, sono essenziali per lo sviluppo della democrazia.
È inevitabile, quindi, passare al problema del rapporto tra Gramsci e
il pensiero borghese; la questione è però complessa, poiché lo
stesso pensiero borghese ad essere estremamente complesso. Prima di
tutto, bisogna sottolineare che il pensiero borghese è il pensiero
liberale classico di Locke o di Benjamin Constant. Inoltre esso è
rappresentato dalla tradizione democratica e giacobina, da Rousseau e
dalla rivoluzione francese nella sua fase radicale. Il pensiero
borghese è anche il pensiero liberale post-classico, quello che si è
sviluppato nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo: si pensi, per
esempio, a Croce; d'altra parte, il pensiero borghese comprende in
egual misura anche un pensatore come Hegel, che, in relazione a
qualsiasi forma di liberalismo, non può essere assolutamente messo al
margine. Per questo motivo è abbastanza difficile affrontare in modo
esauriente il problema di filiazione-rottura tra Gramsci e il pensiero
borghese. Questo problema inoltre si pone sempre facendo intervenire
la mediazione del pensiero di Marx e di Lenin, per cui si può
affermare che, se la teoria gramsciana ha un qualsiasi rapporto con il
pensiero borghese, esso è incontestabilmente mediato dal momento
marxista e leninista.
Naturalmente, data la complessità del problema, qui ci si può
limitare soltanto ad un’analisi superficiale. Si può dire che
quello che caratterizza, in fondo, i due significati dell'espressione
“società civile” è il fatto che in entrambi si ha a che fare con
una iniziativa privata di individui e di gruppi, sia che si tratti di
una iniziativa economica finalizzata al profitto capitalista, sia che
si tratti di una iniziativa politica o etico-politica. Se Gramsci
riflette sempre sul problema dell'iniziativa, bisogna però
distinguere tra queste due forme di iniziativa - economica e politica
- poiché nel suo pensiero vi è da una parte una rottura, nella
misura in cui l’iniziativa economica è finalizzata al profitto
capitalista, e dall’altra una continuità, messa fortemente in
risalto con quei pensatori borghesi che sono stati in grado di
concepire la politica come egemonia e che hanno teorizzato forme di
associazione senza le quali la politica come egemonia non sarebbe
possibile. Su questo punto può essere utile menzionare due grandi
nomi italiani: Gioberti e Croce, ai quali l’eleborazione politica di
Gramsci deve molto, rispettivamente per il concetto di 'egemonia' e
per quello di 'storia etico-politica' e di 'società civile'.
(traduzione: Margherita Filiasi)
Chi è Jacques Texier
Jacques Texier è nato il 1932 a Froges nell'Isère. Ha studiato
filosofia e psicologia all'Università di Grenoble. Fino al 1968 è
stato assistente di Filosofia all'Università di Grenoble. Dal 1969,
con una breve interruzione di quattro anni, fa parte del C.N.R.S. Fino
al 1986 ha insegnato Filosofia all'Università di Créteil, poi
all'Università di Nanterre. Attualmente ricercatore al C.N.R.S., fa
parte del Laboratoire de philosophie politique, diretto dal professor
G. Labica. Dal 1987 è condirettore della rivista “Actuel Marx”.
Fin dagli anni di studio a Grenoble è stato membro del Partito
Comunista Francese, che ha poi abbandonato nel 1977. Ha fatto parte
della direzione del Centre d'études et de recherches marxistes, dal
1972 al 1976.
Jacques Texier si autodefinirebbe un “marxista italiano”,
considerato il posto occupato da Gramsci nella sua formazione
intellettuale. Questo riferimento corrisponde ad una scelta tra le
interpretazioni del marxismo: una scelta che è frutto del tentativo
di reinventare un progetto di emancipazione. In questa rielaborazione
le altre tradizioni marxiste sono al tempo stesso strumento e oggetto
di critica. Nel quadro di questo progetto Texier focalizza la sua
produzione intellettuale su Gramsci e Marx: su quest'ultimo ha
recentemente condotto studi su L'ideologia tedesca, sui Grundrisse e
sul suo pensiero politico.
Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: (con g. labica) Labriola, d'un
siècle à l'autre, Kliencksieck, Paris 1988; (con g. labica e d.
losurdo) Antropologia, prassi, emancipazione, QuattroVenti, Urbino
1990; (con a. burgio e d. losurdo) Egalité-inegalité, QuattroVenti,
Urbino 1990; (con j. bidet) Fin du communisme? Actualité du marxisme?,
P.U.F., Paris, 1991; (con j. bidet) L'idée du socialisme a-t-elle un
avenir?, P.U.F., Paris, 1992; (con j. bidet) Le nouveau système du
monde, P.U.F., Paris, 1994; Revolution et democratie chez Marx et
Engels, P.U.F., Paris 1998.
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