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L’idea di “società civile” nel pensiero di Gramsci



Jacques Texier con Domenico Losurdo



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Questa intervista fa parte dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.

L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica, la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei termini vivi della cultura contemporanea.

Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it 



Professor Texier, ha ancora un senso, ai giorni nostri, leggere o rileggere Gramsci?

Certamente, penso che da molti punti di vista studiare Gramsci oggi abbia ancora un senso. Innanzi tutto si deve partire consapevolezza che il suo pensiero è intrinsecamente difficile. Di questo ci si è accorti quando, dopo la prima pubblicazione delle opere di Gramsci, e in particolare dei Quaderni del carcere, si è constatato come un concetto così importante come quello di 'rivoluzione passiva' non sia stato realmente compreso che intorno al 1917. Si dovette attendere parecchio tempo per capire che in Gramsci esisteva questo concetto, e che aveva un'importanza fondamentale per una riflessione su alcuni aspetti sia del diciannovesimo che del ventesimo secolo. Si è inoltre scoperto abbastanza rapidamente che l'originalità di Gramsci consisteva nell’aver colto l'importanza del momento ideologico, culturale e teorico, e della dimensione politica del processo storico; a partire da questo si pongono però alcuni problemi di interpretazione.

Secondo una certa interpretazione, Gramsci non si interessava in fondo molto al mondo dell'economia, trascurava di studiare, in Marx, tutto ciò che concerne precisamente la vita economica, mentre, per quanto riguarda sia l'Italia che il mondo, non prestava attenzione alle trasformazioni economiche: nulla è invece più falso di tale interpretazione. Per un certo periodo si è avuta la tendenza a fare di Gramsci un “teorico delle sovrastrutture” - tale definizione è certamente plausibile - ma a detrimento di Gramsci stesso, che era per parte sua attento alle trasformazioni della struttura del mondo o di determinati paesi, le quali sono innanzi tutto di natura economica. Questi sono solo alcuni esempi per mostrare che non è affatto facile comprendere i concetti fondamentali del pensiero di Gramsci.

La questione politica dell’“egemonia” è connessa al tema della “società civile”: il concetto di 'egemonia' non pone però la teoria politica di Gramsci immediatamente in contraddizione con la visione attuale della democrazia e dei suoi valori?

Un certo numero di filosofi e di storici hanno avanzato l'ipotesi che il concetto di 'egemonia' e quello di 'società civile, in quanto strettamente legato a quello di 'egemonia', sarebbero in qualche modo inadeguati all'idea che domina oggi del valore della democrazia, in particolare nella sua dimensione pluralistica. In un certo senso, il concetto di 'egemonia' non ci permetterebbe di uscire da una concezione della politica basata fondamentalmente sull'idea di forza, ossia sull'idea di una certa manipolazione ideologica: si tratta del consenso, ottenuto però mediante manipolazione. In questo modo il concetto di 'egemonia' risulterebbe amputato della sua dimensione universale, del suo riferimento all'emancipazione; ciò significa disconoscere radicalmente l'importanza di questo concetto, mentre è necessario mostrare le ragioni che hanno potuto avvalorare, o comunque favorire, questa incomprensione, al di là delle strumentalizzazioni politiche che si sono sovrapposte.

Innanzitutto è necessario spiegare che cosa Gramsci intendesse per “società civile” e, sulla base di ciò, per “egemonia, egli intende la società civile in un senso molto particolare che non è utilizzato da altri pensatori. La società civile, in senso specificamente gramsciano, è costituita da un insieme di associazioni e organismi privati, come i sindacati, i partiti politici, le chiese, gli editori, i giornali. Tali organismi sono istituiti mediante l'iniziativa di individui o di gruppi che, in quanto tali, non appartengono alla sfera pubblica dello stato, e funzionano secondo la prassi dell'adesione volontaria; questo è dunque un dato fondamentale: c’è l’iniziativa degli individui e non un comando dall'alto, dallo stato. Questi organismi, nei quali gli intellettuali giocano un decisivo ruolo di organizzazione, cercano di ottenere il consenso di larghe masse della popolazione e, in questo senso, essi sono il luogo di una lotta per l'“egemonia”, culturale e politica, di un gruppo sull'intera società: il principio non è dunque quello del comando o della coercizione, ma quello del consenso.

È necessario, in questa prospettiva, che questo gruppo sociale eserciti una politica di egemonia, e, secondariamente, che sia portatore di un progetto di dimensioni “universali”. Rispetto alla società politica o allo stato - incentrati sul comando giuridico, sulla coercizione o anche, come afferma Gramsci, sulla dittatura - abbiamo allora un principio completamente diverso, quello della libera adesione o del consenso; ciò permette di affermare che lo stato, come lo concepisce Gramsci, non sia riducibile alla semplice società politica, o allo stato nel senso stretto del termine. Lo stato, nella sua globalità, lo “stato integrale” comprende per Gramsci, nello stesso tempo, la società civile, con i suoi organismi privati che sono lasciati all'iniziativa degli individui o dei gruppi, e l'apparato giuridico di comando.

Già a partire da alcune di queste considerazioni si può cogliere il significato profondo del concetto di 'egemonia' in Gramsci, che ne delinea l’importanza, in particolare, nel quadro delle società moderne, di quelle che definisce “democrazie moderne”. A questo punto è opportuno aprire una parentesi per dimostrare come tale concetto di 'egemonia' abbia una larghissima applicazione: Gramsci ne trova delle tracce in Machiavelli, e dimostra come i giacobini impostino una forte politica egemonica, essendo in grado di trascinare la classe contadina nelle lotte della Rivoluzione francese. Il concetto di 'egemonia' ha dunque un’applicazione, storicamente parlando, piuttosto vasta. Gramsci concepisce le democrazie occidentali come caratterizzate fondamentalmente da un sistema rappresentativo a suffragio universale, anche se poi, ciò che le caratterizza in maniera più specifica, è l'esistenza di partiti politici di massa e di organizzazioni sindacali di massa: questi sono i due elementi fondamentali delle democrazie moderne. Come noto, Gramsci ha cercato di elaborare una strategia per il movimento operaio adeguata a queste società occidentali sviluppate, a queste democrazie moderne; egli ha dato un nome a questa strategia, parlando di passaggio dalla “guerra di movimento” alla “guerra di posizione”. Le società moderne, le democrazie moderne, rappresentano dunque evidentemente un ambito prioritario che Gramsci individua allorché mette in evidenza l'importanza sempre più crescente del momento egemonico della politica.

Questa è dunque la specificità propriamente moderna di questo concetto, anche se Gramsci coglie in un certo senso qualcosa di radicalmente nuovo nella storia del mondo: se l'egemonia diventa veramente importante, se essa diventa cioè veramente decisiva, al punto da conquistare, con l’attività degli organismi della società civile, l'adesione di più vaste masse della popolazione, ciò significa che la politica stessa è sul punto di trasformarsi. Gramsci ha colto in altri termini l'emergenza di questo momento nuovo della storia, di una forma nuova di sviluppo storico, nel quale la convinzione ed il consenso sono sempre più importanti. Il fatto che la politica non si riduca fondamentalmente al momento della “dominazione”, e che emergano, con la borghesia o il proletariato, delle classi in grado di conquistare l'egemonia, che nel loro progetto politico hanno precisamente tale obiettivo, significa chiaramente che l'egemonia ha una dimensione di universalità, e comporta una trasformazione profonda, che si accompagna a sua volta all'emancipazione degli uomini. Si tratta dunque di un concetto di grandissima fecondità: si pensi, ad esempio, ad un filosofo come Habermas ed alla teoria dell'“agire comunicativo” che è caratteristica della nuova aspirazione a trasformazioni ancora più profonde della politica in senso democratico, delle discussioni democratiche senza limitazioni. Per affrontare questa tematica dell'“agire comunicativo” su un terreno realistico si può proprio partire dalla tematica della “lotta per l'egemonia”.

In ultima analisi, si deve cercare di cogliere un punto controverso: se si afferma - a proposito dell'egemonia e della coercizione - che in fondo “società politica” e “società civile”, in quanto luogo dell’egemonia, si identificano, ciò significa che fra la dittatura e la conquista del consenso non vi sarebbe alcuna differenza, che cioè la conquista del consenso sarebbe semplicemente una forma di manipolazione violenta; in tal caso è evidente che il concetto di 'egemonia' perde ogni importanza in rapporto all'universalità ed all’emancipazione umana. È questa una delle ragioni di confusione che hanno indubbiamente facilitato - al di là di ogni volontà di strumentalizzazione - la messa in discussione di questo concetto.

Se da una parte si deve insistere sulla distinzione metodologica operata da Gramsci tra “società civile” e “società politica”, dall’altra si deve dire che la società civile è essa stessa il risultato di un processo storico. Il problema è allora: quali sono le condizioni di nascita e di sviluppo della “società civile”?

La società civile è indubbiamente un prodotto storico: il problema è di sapere esattamente quale sia la portata storica di questo concetto e della struttura sociale che gli corrisponde. In una prima fase la società civile è certamente un prodotto storico: un prodotto storico della modernità. È ovvio che, perché possa realizzarsi la struttura di cui parla Gramsci - la struttura degli organismi privati che non sono lo stato nel senso stretto del termine - deve verificarsi una totale distinzione tra la sfera dello stato e quella della società. È necessario, dunque, fare riferimento allo stato rappresentativo moderno nella sua distinzione rispetto all'intera società. Questa è una prima condizione, alla quale va aggiunta quest’altra: bisogna che emergano, storicamente, il libero individuo - che è egli stesso un prodotto della modernità, un prodotto dello sviluppo della borghesia - e l'indipendenza personale, bisogna cioè che siano annullate le forme di vita comunitaria precedenti. L'individuo moderno è l'individuo che in qualche modo si sente isolato. Hegel, al quale Gramsci fa spesso riferimento, parla dell'individuo moderno come del figlio della società civile, che è dunque caratterizzato dalla sua indipendenza personale. I limiti di questa indipendenza personale che caratterizzavano precedentemente la vita sociale, le relazioni sociali, sono stati annullati con l'emergere del mondo moderno, dello stato e della società moderni.

L'indipendenza personale è dunque la prima condizione dell’esistenza della società civile nel senso gramsciano, e tale indipendenza è stata teorizzata molto chiaramente da Hegel nella sezione dei Lineamenti di filosofia del diritto intitolata “Il diritto astratto”, e, in maniera ancora più precisa, nella sezione denominata “La società civile”. La società civile, per Hegel, è la soppressione delle comunità precedenti, mentre il concetto fondamentale del diritto astratto è la persona giuridica con la sua capacità di contrattare, di allacciare rapporti con altri individui. Innanzi tutto, dunque, l'individuo emerge come soggetto giuridico con i diritti che gli competono. Se però questo primo punto è stato generalmente ben considerato dai teorici liberali, vi è un secondo aspetto caratteristico che alcuni di loro accettano con molta reticenza: si tratta del “principio di associazione”, in base al quale nessuna società civile si costituisce se gli individui, che i rapporti di mercato in qualche modo isolano, non escono da tale isolamento per associarsi e partecipare a organismi collettivi. Questa dimensione associativa è dunque una condizione fondamentale dell'esistenza della società civile nel senso gramsciano. È opportuna però una precisazione: mentre il pensiero liberale classico ha rifiutato di prendere in considerazione il “principio di associazione”, opponendo libertà, indipendenza dell'individuo e le forme di associazione sociali e politiche, ciò che al contrario caratterizza filosofi come Hegel o come Gramsci - che a Hegel deve molto - è proprio l’aver pensato parallelamente, in modo complementare, il principio della indipendenza personale e quello di associazione.


La società civile nasce con la società borghese moderna, ma è in grado di svilupparsi al di fuori di questa stessa società borghese o di sopravvivere al suo superamento?

Credo fermamente che ciò sia possibile, ed è per questo che il pensiero di Gramsci è da considerare estremamente attuale. Innanzi tutto si tratta di mostrare che questa struttura, che Gramsci definisce società civile, è nata con la borghesia, con i rapporti di mercato, con il capitale, con la grande industria. Ma osservandola più da vicino è facile individuare alcune forme di società nelle quali il capitale e le strutture della società industriale moderna si sviluppano senza che nello stesso tempo si sviluppi una società civile consistente. Un esempio di questo è offerto da Giappone, dove c’è una scuola marxista, detta “della società civile”, che fa riferimento più esplicitamente a Hegel che a Gramsci. L'idea fondamentale che questa scuola sviluppa della società civile è la seguente: il Giappone è un paese estremamente dinamico, quanto all’industria ed ai suoi settori di punta; è un paese capitalista, e si ha dunque, contemporaneamente, il capitale e l'industria. Quanto alla società civile, però, essa è completamente embrionale: di conseguenza si può avere uno sviluppo del capitale e dell'industria senza che vi siano strutture adatte alla società civile.

Un altro esempio è costituito dalle società del cosiddetto socialismo reale, le quali, dopo la Rivoluzione di Ottobre, hanno sviluppato senza capitale forme molto dinamiche di società industriale, che hanno trasformato profondamente questi paesi. Si può sostenere che la modernizzazione industriale si sia compiuta in quei paesi sotto la direzione dello stato e senza un sistema capitalistico. Si ha dunque industrializzazione e modernizzazione, anche se oggi si può constatare come quelle che non si sono sviluppate in tali paesi - o alle quali non è stato consentito di svilupparsi - siano proprio le strutture della società civile. Non bisogna quindi stupirsi che in paesi come l'Ungheria o l'Unione Sovietica - ed in genere in tutti i paesi socialisti - il pensiero di Gramsci ed in particolare questo aspetto del pensiero di Gramsci, questa teoria dell'egemonia e della società civile, siano studiati con la maggior cura possibile. Il problema di queste società è infatti precisamente quello di “democratizzare” l’esistenza e di costituire una società civile. Le situazioni si sono allora più o meno evolute a seconda dei paesi - alcuni per esempio prevedono un pluralismo di partiti, mentre altri lo vietano - anche se, in ogni caso, si rileva la costituzione di associazioni che non sono controllate dallo stato, che sono indipendenti da esso, ed alle quali gli individui possono aderire liberamente.

Ci sono istituzioni e rapporti nati nel seno della società borghese che, però, vanno al di là della stessa società borghese: questo pone il problema più generale del rapporto tra determinatezza storica e permanenza nel tempo e nella storia.

Il problema è infatti posto in questi termini e tutta la difficoltà sta nell'essere capaci di riflettere su questa permanenza. Sotto certi aspetti, dunque, è incontestabilmente possibile separare la società civile dal capitale: non si tratta di una separazione drastica, e si può pensare in ogni caso che la società civile, con la funzione fondamentale che essa gioca in rapporto allo sviluppo della democrazia, sopravviverà alle forme di società borghesi. Si ha sempre a che fare con la storicità, ma vi sono dimensioni di storicità che, in rapporto ad altre, hanno una caratteristica particolare: alcune sono eminentemente transitorie, e spariscono rapidamente, mentre altre, al contrario, sembrano avere in qualche modo una capacità di sopravvivenza alle loro condizioni di nascita. Il problema è dunque se si è in grado di riflettere su questa continuità, su questa permanenza nella storia della umanità. È un problema che può essere formulato anche domandandosi di quale specie di filosofia abbiamo bisogno: è opportuno ricordare che Gramsci definiva la propria filosofia, riprendendo un concetto utilizzato da Benedetto Croce, “storicismo assoluto”.

Per comprendere la permanenza di un certo numero di istituzioni, di valori, di idee, di filosofie, di scienza o di conoscenza, dobbiamo rinunciare alla prospettiva della filosofia speculativa: è facile infatti accettare una trascendenza che è stata trovata e, di conseguenza, sopprimere il problema della dimostrazione. Al contrario, è molto più difficile pensare in termini di storicità radicale e, nello stesso tempo, mostrare che in questo processo storico fondamentale vi è qualcosa che sopravvive, un passato che continua ad essere vivo nel presente, anche se con qualche trasformazione e sotto nuove forme. È, questa, un'idea che i marxisti ammettono volentieri, quando si tratta dello sviluppo di quelle che si definiscono le “forze produttive”; senza dubbio vi sono degli aspetti di continuità e di accumulazione nello sviluppo delle forze produttive. Allo stesso modo nessuno contesterà che se il capitalismo ha inventato forme di lavoro cooperativo, socialmente organizzato, queste ultime non spariranno con il modello di produzione capitalista; così si ammette volentieri che il mondo moderno creato dalla borghesia e dal capitale ha universalizzato le relazioni sociali, il commercio sociale, il quale, come afferma Marx, non svanirà: esso costituisce anzi un’esperienza fondamentale nella storia dell'umanità.

Si tratta allora di essere in grado di pensare la storia dell'umanità, di pensare nella storia qualcosa che possa generare condizioni di esistenza per l'uomo, e che faccia in modo che l'uomo nasca e si sviluppi. Tale concetto esiste, ed è stato formulato da Marx: si tratta del concetto di 'oggettivazione', che è stato ripreso anche da altri marxisti, come, ad esempio, Lukacs e la scuola di Budapest, che parlano genericamente di “oggettivazione” per indicare tutti gli aspetti della vita storica, come la filosofia, la scienza, l'arte, che palesemente sopravvivono alla loro particolare condizione di nascita. Bisogna inoltre saper riflettere anche sulla stabilità delle istituzioni e delle strutture: la società civile è una forma di struttura che permette la nascita delle istituzioni. È necessario superare uno storicismo semplicemente relativista, per approdare a quello che si potrebbe definire uno storicismo “approfondito”.

È lo stesso Gramsci ad affermare che stato e società civile si identificano: in questo senso però, non si riesce a capire in cosa consista l'autonomia della società civile: può fare chiarezza su questo punto?

Su questo punto è necessaria una precisazione molto importante circa la complessità del pensiero di Gramsci. Dell'espressione “società civile” esistono in Gramsci diverse accezioni e ciò significa che, in verità, tale espressione riflette aspetti completamente diversi della vita sociale moderna. È in questo modo che si deve affrontare il problema. Gramsci, in effetti, utilizza il concetto di 'società civile' in un senso completamente diverso da quello che si è analizzato, in base al quale la società civile costituisce l'insieme di organismi privati, il luogo della lotta per l'egemonia culturale e politica. Gramsci, riprendendo una tradizione liberale, la tradizione del liberalismo economico, immagina la società civile come luogo delle attività economiche, con un contenuto completamente diverso da quello che si è considerato sopra. È a proposito della società civile intesa in questo senso economico, in quanto luogo di scambi economici, che Gramsci definisce un aspetto estremamente importante del suo pensiero, l'idea cioè che nella realtà effettiva non ci sono separazione né autonomia, ma, al contrario, un collegamento profondo tra il mondo della vita economica, tra la società civile definita economicamente, e le strutture dello stato in senso stretto. La formula gramsciana “nella effettiva realtà, società civile e stato si identificano” si riferisce al secondo significato dell'espressione “società civile”. È fondamentale prestare attenzione a questo secondo significato poiché, se lo si ignora, si stravolge completamente il pensiero di Gramsci.

La seconda accezione del termine “società civile” è però profondamente diversa dalla prima, non avendosi più a che fare con le sovrastrutture ideologiche ma con il luogo della produzione economica: cosa significa in tale contesto la nozione di 'mercato determinato'?

Gramsci concepisce il contenuto della società civile con l'aiuto del concetto, notevolmente importante, di 'mercato determinato' e del termine “economicus”, che ha molte implicazioni dal punto di vista antropologico. La teoria gramsciana del “mercato determinato” prevede una critica del liberalismo, nel contesto generale della economia politica e del suo metodo. Gramsci procede in due direzioni: innanzi tutto l'economia politica ha il diritto, come qualsiasi altra disciplina scientifica, di procedere per astrazioni e, di conseguenza, di non tenere conto dello stato, di considerare una società nella sua pura economicità e di studiare gli automatismi, le tendenze che si manifestano in un mercato determinato, studiando le connessioni necessarie, i legami di casualità che in questo si manifestano. È opportuno insistere su questa espressione “mercato determinato”, poiché Gramsci pensa sempre in termini storici: un mercato è determinato, cioè ha una concreta esistenza storica. Si tratta allora di capire che cosa caratterizzi il mercato determinato per Gramsci, e in quale preciso momento intervenga la sua critica al pensiero liberale, al liberalismo economico, che egli definisce anche “economismo del pensiero liberale”.

Ebbene, Gramsci afferma che un mercato determinato non esiste da sé, in modo astratto, ma sempre in quello che egli definisce un blocco storico. Quest’ultimo è composto, contemporaneamente, da strutture di produzione e di scambi, che si effettuano in particolari condizioni politiche e statali. È impossibile per esempio immaginare il mercato determinato del capitalismo concorrenziale classico senza il controllo e l'intervento dello stato; si tratta allora di capire in che modo si debba configurare tale intervento dello stato; su questo punto la critica di Gramsci è rivolta ad un pensatore liberale come Einaudi. Lo stato, in effetti, non si accontenta di far regnare la legalità che consacra in qualche modo l'eguaglianza tra i protagonisti degli scambi; esso è presente nel mercato determinato in modo molto più determinante, in quanto garantisce ad una classe sociale il monopolio della proprietà dei mezzi di produzione. Di conseguenza, se esistono capitalisti e proletari - che non sono proprietari se non della propria forza lavoro - ciò è garantito dallo stato; nel mercato determinato, cioè nel mercato capitalista, prevale in altri termini una dimensione di “forza” e naturalmente, l'economista che avanza l'ipotesi della pura economicità, può non tenere conto del fatto che lo stato garantisce la continuità di tali strutture.

Il concetto di mercato determinato, però, è in Gramsci un concetto socio-economico ed anche socio-politico, e su questa base si comprende anche la sua critica dell'economismo del pensiero liberale. Tale critica dell’economismo liberale tocca anche alcune forme di marxismo che sembravano a Gramsci decisamente insoddisfacenti e influenzate dal pensiero liberale borghese; d’altro canto egli vuole promuovere precisamente una prospettiva di pensiero che sia socio-economico e che sia sempre in grado di prendere in considerazione i “rapporti di forza” e i diversi momenti d'un rapporto di forza in una data situazione. C’è un momento puramente oggettivo, che consiste nel numero di imprese, di operai e di popolazioni utilizzati in un certo settore; c’è poi il momento propriamente politico, mentre un terzo momento, che non bisogna mai dimenticare, è quello propriamente militare. Questi sono i tre momenti del rapporto di forza, ed un mercato determinato esiste in un blocco storico, cioè in una situazione nella quale sono presenti questi tre momenti fondamentali.

Per quanto concerne il ruolo dello stato nel mercato determinato e nelle attività economiche, il discorso coinvolge anche la questione dei sindacati: si sa che il pensiero liberale classico rifiutava il principio di coalizione, proibiva le coalizioni: lo stato, che teoricamente non dovrebbe intervenire, che non dovrebbe turbare il libero gioco delle leggi di mercato, interveniva invece regolamentando il mercato, determinandolo in modo preciso e proibendo le coalizioni. Malgrado ciò, il movimento sindacale si è però sviluppato e questo significa una completa trasformazione del contratto di lavoro: nella misura in cui gli individui si associano, le loro forze si moltiplicano e, di conseguenza, cambia anche l'atto del contrattare, perché ci si trova di fronte delle forze collettive. Un secondo esempio - per arrivare al periodo del capitalismo concorrenziale - è l'idea di Gramsci, come già di Marx, per cui i parlamenti borghesi, eletti con il suffragio censitario e con l'eliminazione di tutti coloro che non erano proprietari e che non pagavano una certa imposta, rappresentavano le Trade Union della borghesia, all'interno della quale essi elaboravano una legislazione adeguata sotto tutti i punti di vista: vi era perciò sempre un intervento da parte dello stato. Oggi conosciamo a sufficienza la situazione in Francia o in Inghilterra per comprendere come la nazionalizzazione o statalizzazione di certi settori dell'economia rappresenti un intervento dello stato, così come, al contrario, la deregolamentazione, la denazionalizzazione e la privatizzazione: sono semplicemente due forme d'intervento differenti.

Qual è il senso della distinzione, nella teoria di Gramsci, di due prospettive tendenzialmente contrastanti, riguardo al concetto di 'società civile', che viene intesa, da un lato, come rappresentante del “mito borghese” del mercato e dall’altro, come momento essenziale dello sviluppo della democrazia, ben al di là della società borghese?

Se in Gramsci si ha questa duplice accezione del concetto di società civile, in un certo senso è perché nella realtà le cose stanno proprio così, e ciò dovrebbe bastare per fare chiarezza nelle discussioni. Anche nelle discussioni odierne sul concetto di 'società civile', occorre tenere sempre presente il significato preciso nel quale si utilizza questa espressione. C’è anche chi ritiene la società civile sia un mito: noi viviamo in una forma di capitalismo sviluppato, lo stato svolge molteplici funzioni economiche, di ridistribuzione, ed è presente ovunque: che cos'è, dunque, questa società civile di cui si sente parlare ovunque? Se si considera la società civile nella seconda accezione che si è esaminata - in base alla quale essa è il luogo delle attività economiche e sta in collegamento con lo stato - risulterà che stato e società civile si identificano. È, questa, una tesi corretta e perfettamente fondata. Bisogna allora riconoscere che, per tutte le società che aspirano alla democrazia, ad uno sviluppo democratico, come ad esempio i paesi socialisti al giorno d'oggi, il concetto gramsciano di 'società civile' come insieme di organismi privati, come luogo di lotta per l'egemonia culturale e politica, risulta di importanza fondamentale. È importante insomma sviluppare queste strutture della società civile, strutture che, in quanto organismi privati e indipendenti dallo stato, sono essenziali per lo sviluppo della democrazia.

È inevitabile, quindi, passare al problema del rapporto tra Gramsci e il pensiero borghese; la questione è però complessa, poiché lo stesso pensiero borghese ad essere estremamente complesso. Prima di tutto, bisogna sottolineare che il pensiero borghese è il pensiero liberale classico di Locke o di Benjamin Constant. Inoltre esso è rappresentato dalla tradizione democratica e giacobina, da Rousseau e dalla rivoluzione francese nella sua fase radicale. Il pensiero borghese è anche il pensiero liberale post-classico, quello che si è sviluppato nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo: si pensi, per esempio, a Croce; d'altra parte, il pensiero borghese comprende in egual misura anche un pensatore come Hegel, che, in relazione a qualsiasi forma di liberalismo, non può essere assolutamente messo al margine. Per questo motivo è abbastanza difficile affrontare in modo esauriente il problema di filiazione-rottura tra Gramsci e il pensiero borghese. Questo problema inoltre si pone sempre facendo intervenire la mediazione del pensiero di Marx e di Lenin, per cui si può affermare che, se la teoria gramsciana ha un qualsiasi rapporto con il pensiero borghese, esso è incontestabilmente mediato dal momento marxista e leninista.

Naturalmente, data la complessità del problema, qui ci si può limitare soltanto ad un’analisi superficiale. Si può dire che quello che caratterizza, in fondo, i due significati dell'espressione “società civile” è il fatto che in entrambi si ha a che fare con una iniziativa privata di individui e di gruppi, sia che si tratti di una iniziativa economica finalizzata al profitto capitalista, sia che si tratti di una iniziativa politica o etico-politica. Se Gramsci riflette sempre sul problema dell'iniziativa, bisogna però distinguere tra queste due forme di iniziativa - economica e politica - poiché nel suo pensiero vi è da una parte una rottura, nella misura in cui l’iniziativa economica è finalizzata al profitto capitalista, e dall’altra una continuità, messa fortemente in risalto con quei pensatori borghesi che sono stati in grado di concepire la politica come egemonia e che hanno teorizzato forme di associazione senza le quali la politica come egemonia non sarebbe possibile. Su questo punto può essere utile menzionare due grandi nomi italiani: Gioberti e Croce, ai quali l’eleborazione politica di Gramsci deve molto, rispettivamente per il concetto di 'egemonia' e per quello di 'storia etico-politica' e di 'società civile'.

(traduzione: Margherita Filiasi)

Chi è Jacques Texier

Jacques Texier è nato il 1932 a Froges nell'Isère. Ha studiato filosofia e psicologia all'Università di Grenoble. Fino al 1968 è stato assistente di Filosofia all'Università di Grenoble. Dal 1969, con una breve interruzione di quattro anni, fa parte del C.N.R.S. Fino al 1986 ha insegnato Filosofia all'Università di Créteil, poi all'Università di Nanterre. Attualmente ricercatore al C.N.R.S., fa parte del Laboratoire de philosophie politique, diretto dal professor G. Labica. Dal 1987 è condirettore della rivista “Actuel Marx”. Fin dagli anni di studio a Grenoble è stato membro del Partito Comunista Francese, che ha poi abbandonato nel 1977. Ha fatto parte della direzione del Centre d'études et de recherches marxistes, dal 1972 al 1976.
Jacques Texier si autodefinirebbe un “marxista italiano”, considerato il posto occupato da Gramsci nella sua formazione intellettuale. Questo riferimento corrisponde ad una scelta tra le interpretazioni del marxismo: una scelta che è frutto del tentativo di reinventare un progetto di emancipazione. In questa rielaborazione le altre tradizioni marxiste sono al tempo stesso strumento e oggetto di critica. Nel quadro di questo progetto Texier focalizza la sua produzione intellettuale su Gramsci e Marx: su quest'ultimo ha recentemente condotto studi su L'ideologia tedesca, sui Grundrisse e sul suo pensiero politico.
Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: (con g. labica) Labriola, d'un siècle à l'autre, Kliencksieck, Paris 1988; (con g. labica e d. losurdo) Antropologia, prassi, emancipazione, QuattroVenti, Urbino 1990; (con a. burgio e d. losurdo) Egalité-inegalité, QuattroVenti, Urbino 1990; (con j. bidet) Fin du communisme? Actualité du marxisme?, P.U.F., Paris, 1991; (con j. bidet) L'idée du socialisme a-t-elle un avenir?, P.U.F., Paris, 1992; (con j. bidet) Le nouveau système du monde, P.U.F., Paris, 1994; Revolution et democratie chez Marx et Engels, P.U.F., Paris 1998.

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