Tocqueville e il problema della
democrazia
Alexei Salmin con Dimitri Nikulin
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Tocqueville e il problema della
democrazia
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nel pensiero di Gramsci
Questa intervista fa parte dell’Enciclopedia multimediale delle
scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in
collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e
con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica
Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.
L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme
d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica,
la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei
termini vivi della cultura contemporanea.
Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it
Professor Salmin, uno dei sociologi del XIX secolo meno conosciuti e,
probabilmente, meno studiati, ma allo stesso tempo, forse, uno dei
più profetici e più profondi, è stato Alexis de Tocqueville, il
quale è riuscito a comprendere molto profondamente la logica dello
sviluppo della democrazia moderna. Egli è stato molto attento e
sensibile al passaggio della società dall’aristocrazia alla
democrazia attuale, in virtù della propria origine sociale. Potrebbe
parlarci delle tappe fondamentali della sua vita e delle sue opere
più importanti?
Alexis de Tocqueville - Alexis Charles Henri Clérel de Tocqueville,
è il suo nome completo - nasce nel 1805: questo dato anagrafico
rappresenta di per sé una biografia. Ha dieci anni quando c’è la
battaglia di Waterloo e fa parte quindi della generazione descritta da
Alfred de Mousset; come tutti quelli che vi appartengono, Tocqueville
è un figlio del suo secolo. Egli assiste al decollo e alla caduta
dell’Impero di Bonaparte. Nato in una famiglia legittimista,
Tocqueville riceve, nella sua infanzia, un’ottima educazione
cattolica, e questo è un ulteriore, decisivo, elemento per la sua
biografia e per definire la sua immagine spirituale. In verità,
durante il liceo, ha una profonda crisi religiosa, tipica in molti
uomini della sua generazione. Viene attratto dalle idee del suo tempo,
il liberalismo, tanto che per un certo periodo non può parlare con la
sua famiglia di politica, anche se rimane sempre vicino a suo padre,
un famoso storico, il quale proviene da una stirpe non solo
aristocratica ma anche molto colta. In seguito Tocqueville, un uomo,
diventa juge auditeur, giudice uditore. Con questa carica durante il
regno degli Orléans, dopo la rivoluzione di luglio, si reca in
America. Qui trascorre nove mesi insieme al suo amico Gustave De
Beaumont, e, ritornato in patria, scrive La democrazia in America. Il
primo volume esce nel 1835, il secondo e il terzo nel 1840. Questo
libro e questo viaggio diventano, in un certo senso, il destino di
Tocqueville. Egli ottiene popolarità grazie a questo libro.
Purtroppo, durante il viaggio in America contrae un fortissimo
raffreddore, la cui degenerazione lo porterà alla morte. Quindi
quando parlo di destino non è una metafora.
Dopo l’uscita del libro - il primo volume - vive ancora un quarto di
secolo, e, in questo periodo, partecipa intensamente anche alla vita
politica; è insieme deputato del parlamento, membro della camera dei
deputati, poi ministro degli affari esteri, anche se in realtà, per
un periodo molto breve. Dopo la rivoluzione del 1848, lavora nella
commissione costituzionale e, infine, dopo il colpo di stato del
dicembre del 1851 del principe-presidente Luigi Bonaparte, abbandona
la politica, si isola e comincia a lavorare ad un libro sulla storia
della Francia. Gli ultimi anni prima della morte, avvenuta nel 1859,
li dedica alla stesura del famoso libro L’ancien régime et la
revolution (titolo della parte pubblicata perché l’opera è
incompiuta). La fama di Tocqueville è profetica. Credo che in parte
ciò sia legato a questo pellegrinaggio in America.
A volte lo dimentichiamo, ma quando Tocqueville giunge in America, ha
venticinque anni, è un ragazzo giovane, curioso, assetato di novità,
ma è anche, allo stesso tempo, un uomo di cultura “gallica”, un
uomo nutrito della profonda cultura dell’Illuminismo, e, insieme, un
uomo di cultura cattolica. Giunge in America, un paese per lui nuovo,
forse non ancora sufficientemente civilizzato, e si verifica un
fenomeno che, probabilmente, si può paragonare a quello della
Germania tacitiana; egli, sulla base della sua notevole cultura,
descrive questo paese in modo molto approfondito e dettagliato. Questa
circostanza ci aiuta a capire qualcosa del metodo di Tocqueville: per
lui è molto più importante ciò che conosce meglio, che ha una sua
spiegazione, l’idea della aristocrazia, l’idea della Francia
aristocratica, l’idea dell’ancien régime, rispetto a ciò che
deve essere spiegato. Insomma quando un uomo dalla cultura più
elevata, più sviluppata, più raffinata, descrive una cultura
diversa, otteniamo un fenomeno straordinario come quello che vediamo
in La democrazia in America.
Un libro che esiste già da un secolo e mezzo e che, credo, vivrà
ancora a lungo. Tocqueville non è un profeta cosciente, ma ha
ottenuto questa fama in seguito ad alcune coincidenze. In primo luogo,
aveva predetto, come nessun altro, la rivoluzione del 1848: un mese
prima era intervenuto con un duro discorso alla Camera dei deputati ed
aveva detto chiaramente che ci sarebbe stata una rivoluzione. Risero
di lui, i suoi compagni politici lo applaudirono per solidarietà di
partito, ma in fondo non gli credette nessuno: dopo un mese ci fu
effettivamente la rivoluzione. Questa è una predizione, ma in
politica talvolta succede.
In La democrazia in America ha fatto alcune predizioni, di cui alcune
si sono avverate, altre no, e di altre ancora non si può dire se si
siano avverate o meno. Ad esempio, Tocqueville disse che negli Stati
Uniti dell’America Settentrionale un giorno sarebbero vissute 150
milioni di persone, e questo, effettivamente, in un certo periodo
della storia dell’America, ossia nella seconda metà del XIX secolo,
si è verificato. Disse che questi uomini sarebbero stati così uguali
come nessuno mai al mondo. Come valutare però questa profezia? Gli
americani sono diventati veramente così uguali tra loro come nessun
altro popolo al mondo? Credo che il fenomeno Tocqueville non sia
quello di un profeta, ma, forse, più quello di un “oracolo”. La
figura, le riflessioni di Tocqueville rappresentano un microcosmo, in
cui si sono scontrati, avvicinati, intersecati diversi elementi della
politica europea e dove a loro modo si sono risolti. La cultura
politica contemporanea, la politica contemporanea, si riconosce in
molte cose attraverso Tocqueville, perché il mondo è grande, il
mondo politico è immenso, e questo libro ne è un condensato. Come in
uno specchio, o, più esattamente, come in una goccia d’acqua,
quegli stessi elementi, che erano nell’animo di Tocqueville e che
esistono nella cultura politica occidentale, possono, attraverso
questo libro, essere identificati e definiti.
Nel trionfo della democrazia attuale Tocqueville ha visto, forse, la
provvidenza divina. In ogni caso riteneva che il processo
socio-politico è irreversibile, necessario e che quindi non potesse
tornare indietro. D’altronde il successo delle idee democratiche, la
loro affinità con alcuni principi cristiani fondamentali, avevano
prodotto su di lui una profonda impressione. Quali sono allora,
secondo Lei, i nessi tra il cristianesimo e la democrazia?
È una domanda molto complessa se riferita a Tocqueville. È vero,
egli parla sempre in riferimento alla democrazia di “processo
provvidenziale”. Questo è un processo che non è sotto il controllo
dell’uomo, il cui principio ancora può essere in qualche modo
determinato, ma la cui fine si perde nell’oscurità del futuro. La
riflessione di Tocqueville sul senso di questo processo risulta molto
ambigua. In un certo senso allievo, e seguace per alcuni aspetti, di
Tocqueville è Pierre-Joseph Proudhon: lui, ad esempio, con questo
processo, che definisce allo stesso modo, non ha problemi, lo ritiene
fondamentale, anche se a volte ne è inorridito; il suo è quello che
si può definire il “terrore dell’entusiasmo”. Per Tocqueville
è diverso: in lui c’è approvazione, perché vede come nella
società gradualmente penetrino quei principi che non possono non
essergli affini, principi che sono contenuti nel cristianesimo e che i
cristiani hanno sempre predicato nella società. Questi principi,
penetrando attraverso le leggi, le tradizioni, nella società,
mitigano i suoi costumi, migliorano la posizione del singolo
individuo, rendono gli uomini più uguali, più tolleranti. Allo
stesso tempo, però, egli vede anche il lato opposto di questo
processo, che allontana la fede dalla società, in cui la società
perde la fede.
Questa diffusione del cristianesimo nella società urbana, nello
spirito degli istituti politici, ha un suo lato inverso ovvero l’indebolimento
della tensione dell’esperienza spirituale. Tocqueville si ferma di
fronte a questo paradosso, a questa contraddizione, a questa antinomia
e cerca di risolverla. Il modo in cui la risolve in La democrazia in
America è interessante, ma lo è ancora di più nelle sue lettere,
perché Tocqueville è comunque un uomo dalla cultura retorica. In
queste due opere costruisce in modo rigorosamente logico i
presupposti, risolve logicamente le contraddizioni. In una forma
ancora più sottile, più raffinata, è composto il suo libro di
memorie, che secondo le sue ultime volontà doveva essere pubblicato
solo alcuni decenni dopo la sua morte; qui egli si rivolge ad un
lettore “assoluto”, non al suo contemporaneo, ma al lettore di
tutti i tempi e di tutte le nazionalità. Le lettere di Tocqueville
invece sono un’altra cosa, vi si rivela un uomo completamente
diverso, esitante, dubbioso.
Nelle lettere agli amici più intimi, a quanto mi risulta, neanche una
volta parla delle proprie convinzioni religiose, ma si rivolge
costantemente al tema della fede come problema; si rivela quindi come
un uomo pronto a porsi delle domande, a mettere in dubbio la risposta,
quando sono altri ad interrogare. Ad esempio, nella sua corrispondenza
con Arthur de Gobineau, Tocqueville si definisce “un liberale di
nuovo tipo”, ossia, in realtà, un non liberale, un liberale non
tradizionale. Gobineau, probabilmente, potremmo definirlo un
conservatore di nuovo tipo, di quei conservatori che cercano i
fondamenti non nell’esperienza spirituale del proprio paese, del
proprio popolo, né nell’esperienza spirituale del cristianesimo, ma
piuttosto nelle basi razziali; tali conservatori li incontreremo anche
nel XX secolo. Comunque entrambi questi uomini sono rivolti al futuro.
Inizia quindi la corrispondenza tra Tocqueville, l’amico più
anziano, e Gobineau. In una lettera del 5 settembre 1843, Tocqueville
scrive all’amico: “Secondo me, proprio il cristianesimo ha
compiuto una rivoluzione in tutte le idee che riguardano gli obblighi,
i diritti e che sono, in ultima analisi, la base di ogni conoscenza
morale. Il cristianesimo ha dato una grande testimonianza di
eguaglianza, di unità, di fratellanza tra tutti gli uomini”.
Tocqueville correla, quindi, i progressi della civiltà europea,
compreso ciò che noi oggi definiamo democrazia, al cristianesimo.
Gobineau, che lo intende alla lettera, gli fa questa domanda: “Quindi
il cristianesimo è alla base della democrazia?” Tocqueville si
confonde ed è costretto a rettificare: “Voi mi attribuite il
pensiero che il cristianesimo è assolutamente differente da tutto
ciò che è esistito prima di esso. Io non lo ho mai pensato e, mi
sembra, non ho detto niente di simile. Alcune delle sue norme,
indubbiamente, si possono trovare, anche se in una forma disordinata e
indefinita, sia nei testi greci che in quelli orientali; ho trovato
qualcosa di simile anche nelle Leggi di Mani”. Questo vuol dire che
per Tocqueville un problema molto serio è quello della correlazione
tra libertà e cristianesimo, tra democrazia e civiltà cristiana.
Tocqueville non ha mai risolto definitivamente questo problema e ha
lasciato quindi aperta la questione; questa deve essere risolta in
ogni momento, in ogni atto concreto, individuale e politico. La
disponibilità a risolvere questo problema in ogni momento Tocqueville
l’ha chiamata “libertà”; per lui la libertà è la
disponibilità a compiere una scelta in ogni momento, compresa quella
tra la politica e il seguire le norme cristiane, che rappresenta per
lui il principale compito esistenziale.
L’America è stato il primo Stato che, anche se, probabilmente, non
ha generato le idee e gli ideali democratici, in ogni caso li ha messi
in pratica. Perché?
L’America era un paese nuovo, il “Nuovo mondo”. Era un paese
pluralista, dove vivevano uomini di diverse comunità, europei,
protestanti, in primo luogo, uomini che giungevano in parte come
conquistatori, in parte come colonizzatori, colonialisti; alcuni di
loro erano giunti in America con le proprie professioni di fede e,
secondo la tradizione, avevano stretto il “patto Mayflower”. È
naturale che la pluralità originaria di questo paese, il suo
carattere originariamente protestante, abbia determinato i rapporti
tra i propri cittadini, tra le proprie istituzioni, su basi che noi
oggi definiamo democratiche, ossia pluraliste. Inoltre, era stata
ereditata l’esperienza di uno stato particolare come la Gran
Bretagna, in cui, per circostanze particolari, si era formata una
cultura politica tollerante, una cultura in cui avevano dominato i
giudici del re.
Questa situazione implicava per il Nuovo Mondo - l’America del Nord,
l’America britannica con le sue tredici colonie - condizioni
estremamente favorevoli per lo sviluppo di un determinato tipo di
regime politico. Il pluralismo religioso, la tolleranza nella vita
sociale, nella società urbana, non all’interno della comunità ma
solo nei rapporti tra le comunità, e istituzioni politico-giuridiche
tolleranti: queste sono le condizioni che hanno fatto nascere l’America,
che l’hanno trasformata in un terreno, in cui il germoglio, appena
nato, della democrazia, è potuto diventare maturo in una cultura
europea, come uno degli orientamenti della cultura politica europea.
Quali strutture politiche e sociali hanno prodotto una maggiore
impressione in Tocqueville, e perché egli riteneva che solo un
attento studio dell’esperienza della democrazia americana poteva
preservare la democrazia in generale dal diventare un regime
dispotico? Qual è inoltre la correlazione tra libertà e eguaglianza
nel pensiero di Tocqueville?
Tocqueville era andato in America per studiare. Ho detto che questa
rappresenta per lui, in parte, quello che la Germania fu per Tacito.
Le differenze si presentano immediatamente. Tocqueville ha conosciuto
persone della sua stessa fede, di altre confessioni, ma sempre
cristiani e si era trovato perciò tra suoi pari. Nello stesso tempo
ha visto nell’America “il paese del futuro” e lo ha osservato da
questo punto di vista. Naturalmente egli ha innanzitutto rivolto l’attenzione
a ciò che, a suo parere, era assente nell’Europa moderna, nell’Europa
che aveva vissuto l’esperienza del dispotismo. Questa inizialmente
aveva vissuto in Francia prima l’esperienza dell’anarchia
rivoluzionaria, poi quella del dispotismo di Bonaparte, nato dalla
stessa anarchia rivoluzionaria. Tocqueville impara, quindi, ad
orientarsi molto attentamente tra queste istituzioni. Potremmo parlare
a lungo, ad esempio, della divisione dei poteri, del significato che
Tocqueville attribuiva alle autonomie locali americane, al sistema
giudiziario nella divisione dei poteri; egli aveva posto il potere
giudiziario, in un certo senso, al di sopra degli altri tipi di
potere. Tutto ciò viene descritto in La democrazia in America in modo
dettagliato, acuto ed espressivo; non credo comunque che questa sia la
cosa fondamentale.
Il fattore importante, su cui Tocqueville aveva rivolto l’attenzione
e che organicamente non poteva esistere, secondo lui, nella Francia e
nell’Europa contemporanea, era lo spirito della vita della
comunità. A questo riguardo ha scritto che questo spirito o c’è o
non c’è. Quando si perde ci si può solo dispiacere della sua
perdita, ma crearlo artificialmente è impossibile. In effetti, è
possibile creare un sistema di divisione dei poteri, un sistema
giudiziario, basandosi sulla potenza dello stato, creare un sistema
federale nel quadro di uno stato unitario, unire diversi stati e
costruire in questo modo una federazione. La vita armoniosa nella
società, lo spirito per cui nell’uomo c’è il desiderio di
occuparsi dell’attività sociale, non può essere una costruzione,
ma è il risultato di una determinata mentalità, che un secolo e
mezzo dopo è stata definita civic culture ed è qualcosa di veramente
unico. In verità, 20 anni dopo il viaggio in America, Tocqueville ha
scoperto la presenza di questo spirito anche in Francia, lo ha
scoperto negli archivi. Confrontando quanto era avvenuto prima della
rivoluzione in Francia, con la Francia moderna, aveva scoperto che
questo spirito si era conservato, ma solo ai livelli più bassi della
organizzazione sociale e statale, nelle comuni, nelle parrocchie. I
livelli più alti, a suo parere, erano già fossilizzati. Il problema
per Tocqueville consisteva proprio nel consentire a questo spirito di
agire, di manifestare se stesso.
Si ritiene che per Tocqueville libertà e eguaglianza siano antonimi.
Questo è in parte vero in parte no. In generale lo stesso Tocqueville
ha fatto spesso una scelta, intervenendo sulla stampa e nelle sue
lettere, a favore della libertà, contrapponendola all’eguaglianza.
Ma per capire la reale correlazione tra libertà e eguaglianza nella
concezione di Tocqueville, nel suo modo di pensare, si deve esaminare
attentamente il posto molto particolare che in questo sistema di
pensiero occupa la libertà. Tocqueville di solito contrappone la
libertà al dispotismo. A volte, però, egli contrappone la libertà
alla rigenerazione ugualitaria della società, cioè a ciò che noi
definiamo in modo generalizzato, semplificato, “eguaglianza”.
Più raramente, ma ciò è molto importante, Tocqueville contrappone
la libertà ad altro: per quanto possa sembrare strano egli
contrappone la libertà alle istituzioni religiose esistenti. Una
volta, in una lettera - proprio nelle lettere ci sono le frasi e i
pensieri più interessanti di Tocqueville -, si lascia sfuggire questa
frase: “Si può seguire la strada di San Girolamo o quella di
Eliogabalo. Sono in grado di percorrere la prima strada ancor meno
persone che la seconda. Credo che il problema sia trovare una strada
intermedia, che non conduca a Eliogabalo, ma che non sia neanche
legata agli sterili tentativi di seguire tutti la strada di San
Girolamo”. Questa strada intermedia è una terza via; se vogliamo,
per Tocqueville è proprio la libertà, e questa libertà, in quanto
strada maestra, centrale, come un certo stato esistenziale, si trova
semplicemente in un’altra dimensione rispetto all’eguaglianza.
Perciò la libertà può correlarsi all’eguaglianza in modi diversi.
L’eguaglianza può apparire come alternativa alla libertà, come
qualcosa che distrugge la libertà. Ma la libertà può essere
qualcosa che fa nascere l’eguaglianza, che dà vita all’eguaglianza:
credo che proprio così si possa risolvere questa antinomia nel
sistema delle categorie di Tocqueville.
Tocqueville ha scorto i pericoli del dispotismo nascosti nella
democrazia, tuttavia riteneva che essi possono essere superati con l’aiuto
della divisione dei poteri e di altre istituzioni sociali. Nello
stesso tempo considerava, in modo scettico, le ripercussioni culturali
della democrazia. Per quale motivo, e che cosa, secondo Lei, è
riuscito ad anticipare della realtà odierna?
Tocqueville in questo caso condivideva le opinioni di moltissimi suoi
contemporanei, secondo cui la democrazia risulta sfavorevole allo
sviluppo dello spirito, semplicemente perché essa è conseguenza di
una certa decadenza, di una certa degenerazione spirituale.
Tocqueville, però, osserva anche che la democrazia non è molto
favorevole alla cultura nel senso stretto della parola, alle arti,
alle scienze, perché queste esigono tempo libero e un particolare
benessere. La democrazia pone gli uomini in una situazione più o meno
paritaria, è una particolare “entropia sociale”. Dal punto di
vista tocquevillano, non esistono degli spazi particolari, in cui gli
uomini possono occuparsi di “creare”, non esiste una torre d’avorio;
in questa prospettiva rientrano le concezioni tradizionali della
propria epoca. Se Tocqueville dicesse però solo questo non sarebbe
Tocqueville: sarebbe soltanto uno dei tanti uomini della sua epoca.
Infatti, come per tutto, anche in relazione a questo problema egli è
più sfumato; dice, ad esempio, che riesce ad immaginarsi una
democrazia che sviluppi l’arte, faciliti lo sviluppo delle arti. Non
dice di quale democrazia sta parlando, ma noi possiamo immaginare che
tale democrazia sia, ad esempio, quella ateniese. Il fiorire delle
arti, e in parte anche delle scienze, appartiene appunto a questo
periodo.
Tocqueville comprende tutto questo molto bene, ma il suo discorso si
sviluppa ulteriormente. Ci si può immaginare una democrazia, in cui
fioriscano le scienze e le arti, in cui si rivelino gli aspetti
migliori della natura dell’uomo, un armonioso rapporto tra padri e
figli, tra uomo e donna, in cui addirittura possano rivelarsi in tutta
la loro pienezza le convinzioni cristiane: si può però anche
immaginare che una tale democrazia sia in grado di esistere senza
libertà. Così vediamo che per Tocqueville democrazia e libertà non
sono sinonimi, come eguaglianza e libertà non sono antonimi, ed è
possibile immaginarsi una democrazia senza libertà; allo stesso modo
nel rapporto individuale si può immaginare la libertà senza
democrazia. Quindi il problema della cultura lo inserirei in questo
contesto, nel contesto della libertà, che in realtà, volenti o
nolenti, non è identica alle istituzioni, già fossilizzate, della
democrazia politica.
Perché, allora, Tocqueville ritiene che malgrado la democrazia
moderna abbia bisogno di una élite, anche politica, tuttavia il
progetto stesso della democrazia, le stesse condizioni in base a cui
essa esiste e si riproduce, risulta essere avverso alla tendenza a
creare una élite?
In Tocqueville la risposta a questa domanda riguardante il problema
della élite, è abbastanza complessa. Inoltre riguardo a ciò che
Tocqueville ha scritto, proprio a questo proposito, sono legati alcuni
equivoci storiografici. Egli molto spesso è stato rimproverato,
soprattutto dagli storici americani, perché non ha notato la crescita
delle ricchezze negli Stati Uniti, della stratificazione sociale nell’America
Settentrionale e nemmeno la formazione, in questo paese, di una élite
politica, burocratica. Penso che il testo stesso La democrazia in
America, per non parlare degli altri lavori di Tocqueville, possa
dimostrare, al contrario, che questi aveva notato benissimo tutto
ciò: l’accumulazione delle ricchezze, la formazione della élite
politica, di quella burocratica, e di altro tipo, nella società
americana. Il problema è che non riteneva che queste élites avessero
lo stesso significato di quelle dell’Ancien régime. C’è infatti
una differenza essenziale: per Tocqueville è possibile accumulare
proprietà attraverso operazioni di borsa, operazioni finanziarie,
acquisti di terreni, anche trasmettere questi beni in eredità, ma
comunque non si tratta di quelle proprietà che esistevano nell’Ancien
régime. Quella proprietà era, se vogliamo, “animata”, era in un
certo senso una proprietà sacralizzata, perché si trovava istituita
all’interno di rapporti feudali.
Nella nuova società, nella società democratica, la proprietà è una
categoria in un certo senso “tecnica”. Tocqueville, in tale
prospettiva, afferma che negli Stati Uniti effettivamente non esiste l’élite,
perché manca un determinato spirito, che può essere definito “spirito
aristocratico”. Tocqueville non era affatto il poeta dell’aristocrazia,
anzi era abbastanza scettico e critico verso di essa e non poteva non
essere così, conoscendo per esperienza personale i suoi
rappresentanti, sapendo che della rivoluzione erano colpevoli tanto i
contadini e gli artigiani, quanto l’aristocrazia e i principi
ereditari. Conoscendo questo spirito, non per sentito dire, ma per
esperienza personale, egli ha notato che si distingue in modo netto da
quello delle nuove élites. Queste sono caratterizzate da un forte
pragmatismo, da una certa aridità, e sviluppano, in generale, una
cultura tecnica. Ciò è effettivamente quanto hanno scritto i
contemporanei di Tocqueville, e, quasi con le stesse parole, anche lo
stesso Marx.
Abbiamo già detto che Tocqueville è uno dei pensatori più profondi
e, aggiungiamo, più penetranti, a cui sia riuscito di analizzare la
rivoluzione francese. Può parlarci di quest'aspetto del pensiero di
Tocqueville? Qual è stato inoltre il ruolo degli intellettuali nella
preparazione e nella realizzazione della rivoluzione?
Una delle sue previsioni più notevoli riguarda l’esistenza di un
profondissimo legame e di una vicinissima ereditarietà tra l’assolutismo
e la democrazia. Si tratta forse di una delle più sottili e
importanti osservazioni di Tocqueville. In L’ancien régime et la
revolution, egli cita Mirabeau, che, rivolgendosi a Luigi XVI, afferma
che il suo predecessore al trono e, certamente, il cardinale Richelieu,
avrebbero fatto le stesse cose che hanno realizzato in Francia i
rivoluzionari, ovvero l’eliminazione delle classi, il livellamento
sociale di tutti i cittadini. Quindi, inaspettatamente, attraverso la
citazione di un contemporaneo e di un rivoluzionario, Tocqueville fa
emergere questo problema.
Effettivamente l’assolutismo nasce, in un certo senso, in un
deserto, o, almeno, durante la sua crescita, trasforma la società, la
società divisa in classi, in un deserto. La società assolutista poi
non è affatto la società feudale, neanche la società delle
signorie, che noi conosciamo studiando la storia del primo medioevo.
È una società che ha in sé la potenzialità di una futura
rivoluzione e di una futura democrazia; in essa il significato sacrale
della divisione in ceti, i “residui di casta”, vengono
effettivamente ridotti al minimo. È una società in cui la nobiltà
si rinnova molto velocemente, e sappiamo quanto in fretta era mutata
la nobiltà francese proprio alla vigilia della Rivoluzione; lo
sappiamo non dalle opere di Tocqueville, ma dagli storici
contemporanei. In altre parole, in questa società, nella società
assolutista, già ci sono tutte le premesse della futura democrazia;
bisogna eliminare il superfluo, e la rivoluzione compirà questa
operazione molto dolorosa offrendo così la possibilità di sviluppare
ciò che già esiste in nuce nella società.
Per quanto riguarda la seconda domanda potrei dire che per Tocqueville
il contributo degli intellettuali è stato da una parte, enorme, dall’altra,
quasi nullo: è un paradosso ma per Tocqueville è realmente così.
Egli scrive molto dettagliatamente sui filosofi del periodo
prerivoluzionario, su cosa hanno fatto per la rivoluzione, di come
hanno creato una Francia parallela, un mondo parallelo della ragione,
accanto alla società reale; questa concezione di vita era proprio la
più importante premessa della rivoluzione. Qui Tocqueville mette un
punto e prosegue, ma pensare che solo i filosofi abbiano realizzato la
rivoluzione in Francia sarebbe un errore. Tocqueville è in generale
contrario alla teoria dei complotti o delle rivoluzioni dall’alto.
Più volte afferma chiaramente che nella storia sicuramente ci sono
stati dei complotti sempre e dovunque; sono dietro ogni rivoluzione
sociale, ma ciò non è importante, non è la malattia in quanto è
piuttosto il suo sintomo.
La cosa importante è invece ciò che avviene nella società;
Tocqueville, in seguito, riporta dei brani dai Cahiers de doleances,
dalle “lettere di lagnanze” dei contadini francesi, sostenendo che
le argomentazioni e le rivendicazioni contenute nelle lettere, se si
tralasciano gli errori nell’ortografia e nella grammatica,
corrispondono esattamente a quelle dei filosofi, degli illuministi.
Ciò significa che non è possibile affermare che alla vigilia della
rivoluzione in Francia vi fossero due società, una colta, di
filosofi, e un’altra non istruita. Queste presunte società si
distinguevano per il livello culturale, per la forma di espressione,
per il linguaggio, ma, ad un’attenta analisi, sono piuttosto una
sola società e convergono in una quasi identica mentalità.
Secondo lei i lavori di Tocqueville illuminano in qualche modo la “rivoluzione”
russa del 1991 e le sue conseguenze?
È veramente molto difficile rispondere. Tocqueville una volta si è
lasciato sfuggire una frase in La democrazia in America, che molti
hanno interpretato come profetica: esistono pochissime cose di cui è
convinto, ma è sicuramente certo del fatto che al mondo esistono due
popoli con diversi destini, con diverse origini, con un futuro
nascosto nella nebbia, ma ispirati da uno spirito diverso, uno dallo
spirito della libertà, gli americani, l’altro dallo spirito della
schiavitù, servitude, i russi; questi popoli ad un certo punto
determineranno il destino di metà del mondo. È una affermazione
molto interessante, molto più interessante di quanto possa sembrare
ad una prima analisi. È come se Tocqueville negasse alla Russia di
appartenere al mondo cristiano; essa sembra seguire un percorso
particolare. Egli è profondamente convinto che, ad esempio, la
Francia, la Francia aristocratica dell’Ancien régime, la quale ha
vissuto la rivoluzione e il dispotismo, segua la stessa strada dell’America.
La Russia cristiana, invece, segue un altro, diverso, percorso.
L’impostazione data a questo problema da Tocqueville, tutto ciò che
ha detto riguardo alla democrazia, è per noi di vitale importanza.
Già oggi ci imbattiamo in alcune conseguenze culturali negative della
democrazia, in un certo abbassamento del livello culturale del nostro
paese, nella commercializzazione della cultura. Ci imbattiamo in
quelle professioni di fede che il Tocqueville profondo credente temeva
moltissimo, nelle professioni di fede romantiche, in un deteriore
misticismo; egli considerava tutto ciò come una minaccia alla
libertà. Noi ci scontriamo anche con un altro problema, molto più
importante ed essenziale, che Tocqueville ha risolto per se stesso, ed
in parte per la cultura occidentale: la coesistenza in una stessa
società, in una stessa cultura politica, di due imperativi, l’imperativo
divino e l’imperativo della sovranità popolare. Egli ha risolto
questo problema creando una concezione politica intermedia, che
consente l’esistenza sia dei credenti che dei non credenti in una
stessa società politica. La Russia ancora deve rispondere alla
domanda che a suo tempo avevano posto a Belinskij; questi risponde, a
coloro che lo avevano chiamato per andare, a tavola: “Signori! Noi
ancora non abbiamo risolto il problema di Dio, e voi proponete di
andare a pranzare”. I russi devono ancora risolvere per noi stessi,
anche nella Costituzione, il problema della correlazione tra diritto
divino e sovranità popolare. Io penso e credo che questo problema lo
risolveremo a nostro modo.
(Traduzione: Michela Venditti)
Chi è Alexei Mikhailovitch Salmin
Alexei Mikhailovitch Salmin è nato nel 1951 a Kazan (Russia). Nel
1973 si è laureato presso il Dipartimento orientale dell'Istituto
Statale per gli Affari Esteri di Mosca. Attualmente tiene la cattedra
di Scienze politiche alla Scuola Superiore di Economia di Mosca. Dal
1994 è consigliere del presidente della Federazione Russa. Presiede
l'Associazione dei centri di consulenza politica, il Comitato
Nazionale di Sociologia Politica (fondato dalla Associazione russa di
scienze politiche e dall'Associazione sociologica russa). È membro
del Council for Ethnic Accord nell'ambito del Project on Ethnic
Relation, promosso dall'Università di Princeton. È Chief Editor
della rivista “Politeia”.
Alexei Salmin si occupa di analisi comparativa dei sistemi politici,
delle culture politiche e di relazioni inter-etniche e
inter-confessionali. Recentemente si è dedicato in particolare al
tema delle relazioni fra la Russia e l'Europa occidentale ed
orientale, analizzando, da un lato, le ragioni storiche di antiche
divisioni e, dall'altro, le prospettive per nuovi legami.
Alexei Salmin è autore di più di trecento articoli. Della sua
produzione, qui ricordiamo: Lavoratori dell'industria in Francia (in
russo), Nauka, Mosca, 1984; Democrazia contemporanea: genesi,
struttura, conflitti culturali (in russo), Mosca, Nauka, 1992; (et al.)
Il sistema dei partiti in Russia 1989-1993 (in russo), Natchala-Press,
Mosca, 1994; Eastern Europe and Russia, difficult proximities,
Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 1996; Democrazia
contemporanea: saggi sugli inizi (in russo), Mosca, Nauka, 1997;
Democrazia contemporanea: saggi sul divenire (in russo), Mosca, Nauka,
1997; Russia's Emerging Statehood in the National Security Context, in
v. baranowsky (ed.), Russia and Europe: the Emerging Security Agenda,
SIPRI, New York, 1997.
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