Se gli israeliani non sperano più 
          
           
           
           
          Avishai Margalit con Giancarlo Bosetti 
           
           
           
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          Forse sbagliano, ma non è follia 
          L'opinione di una lettrice 
          Minitinerario/Palestina online
           
          Nel libro di Avishai Margalit, Volti di Israele (pubblicato in
          Italia da Carocci l’anno scorso), ci sono tutti i personaggi che
          hanno fatto la storia di questo paese, da Ben Gurion ad oggi. Il
          capitolo dedicato a Sharon compare molto prima di quello di Rabin, di
          Peres, di Netaniahu. L’attuale primo ministro ha un posto molto
          precoce nella storia del conflitto con gli arabi. Non dimentichiamo
          che a innescare la prima Intifada ci fu anche la sua decisione di
          collocare il suo personale appartamento nel mezzo del quartiere arabo
          di Gerusalemme. La sua figura compare nei momenti bui del rapporto con
          i palestinesi. Di questo momento difficile nel cuore della crisi
          mediorientale parliamo con Margalit, che è un filosofo della
          politica, insegna all’Università ebraica di Gerusalemme, è
          diventato famoso nel mondo per un altro libro La società decente,
          un’opera teorica che si candida a mettere i fondamenti della moderna
          democrazia (e che in questo contende il primato a Una teoria della
          giustizia di John Rawls). Alte ambizioni filosofiche, ruolo
          cosmopolitico, ma radici qui, in questa particolarissima provincia del
          mondo. 
           
          Che cosa volevano dire gli elettori israeliani mandando Sharon a
          fare il primo minstro? 
           
          Che volevano punire i palestinesi. Volevano dire che Barak aveva fatto
          troppe concessioni, molte più di quante la maggior parte degli
          israeliani era disposta ad approvare, eppure aveva scatenato la
          violenza da parte palestinese. Hanno pensato: “Vediamo allora come
          ve la cavate con Sharon”. E’ questo il messaggio principale delle
          elezioni. In più Sharon si è atteggiato a uomo di pace. Ora, il
          punto è capire se si sia trattato semplicemente di un accorgimento
          elettorale, o se sia avvenuto in lui un effettivo cambiamento, forse
          dovuto anche alla perdita della moglie. 
            
           
          Una punizione per i palestinesi, dunque. Ma un uomo di guerra al
          governo vuol dire destino di guerra perpetua per Israele? 
           
          La maggior parte degli elettori era convinta che Barak non avrebbe
          portato la pace, non voleva negoziare, non vedeva nessuno con cui
          fosse possibile negoziare, e non voleva eleggere qualcuno che
          continuava a fare queste cose. Al fondo, la maggior parte degli
          israeliani non spera più che si possa raggiungere un accordo di pace.
          È così che vedono le cose da quando è ricominciata l’intifada. 
           
          Lei vive a Gerusalemme, una città il cui futuro rappresenta uno
          dei principali ostacoli ad un accordo. Come la pensano i cuoi
          concittadini? 
           
          Due sono i fattori principali da considerare. Gerusalemme è una
          città di estrema destra. Sharon a Gerusalemme ha ottenuto il 78 per
          cento dei voti. Tel Aviv e Haifa sono gli unici posti in cui ha vinto
          Barak, anzi, a Tel Aviv ha vinto e a Haifa ha pareggiato. A
          Gerusalemme c’è una fortissima comunità di ebrei ultraortodossi,
          il che significa di estrema destra. Gerusalemme non è una tipica
          città di Israele, è molto più a destra di altre città. L’unica
          cosa da fare è aspettare e vedere come si mettono le cose. Il fatto
          è che Sharon, secondo l’opinione pubblica mondiale, non è tanto di
          destra o di sinistra, quanto una specie di criminale di guerra, una
          specie di Milosevic. No, forse non proprio un criminale di guerra, ma
          qualcuno come Le Pen. In verità non è né l’una né l’altra
          cosa. Ma non credo che le cose siano così semplici. È una storia
          complessa: uomo di guerra, uomo di pace. Sharon potrebbe muoversi in
          qualsiasi direzione. 
           
          In questa storia, ci sono stati diversi errori, commessi da entrambe
          le parti. Qual è il principale secondo lei, che fatto regredire il
          processo di pace in Medio Oriente? 
           
          Non ce n’è uno solo, di sicuro. Uno, forse il primo, gravissimo,
          sta nella procedura, nell’aver cercato di negoziare l’accordo
          totale, l’accordo finale, senza aver prima lavorato a fondo e a
          lungo, dietro le quinte, per preparare un accordo reale, effettivo.
          Pensare di poter andare a Camp David e porre fine, in due settimane, a
          un secolo di guerra. Che illusione! La seconda cosa, è che smettere
          è molto difficile. Difficile per entrambe le parti, ma forse ancora
          di più per i palestinesi. Penso che abbiano scoperto, in queste
          circostanze, quanto sia difficile per loro raggiungere accordi sulle
          questioni sociali. Per esempio, ora insistono sul diritto al ritorno
          dei rifugiati. E questa è una cosa che nessun israeliano, in
          qualsiasi modo la pensi, è disposto ad accettare. Se insistono su
          questo, è lo stallo. Ma neanche questo punto è secondo me veramente
          insormontabile. La difficoltà principale è che, una volta iniziata
          la violenza, da entrambe le parti si vuole vendetta. 
            
           
          Michael Walzer, in un’altra intervista a Caffè Europa ha
          affermato che le elezioni israeliane sono prima di tutto un testa di
          affidabilità del metodo democratico. Il governo Barak ha fallito e
          dunque la gente ha scelto l’alternativa che veva a disposizione,
          tutto qui. Chiunque fosse all’opposizione avrebbe vinto. 
           
          Penso che fondamentalmente sia vero. Vede, se guardiamo i voti presi
          da Sharon non sono più di quelli presi da Barak l’ultima volta.
          Anzi, in effetti Barak ne ha presi un po’ di più. Quindi, quello
          che importava alla gente era proprio che perdesse Barak. 
           
          Il secondo commento di Walzer era che, purtroppo, dall’altra
          parte i palestinesi non possono cambiare leader con la stessa
          facilità. 
           
          Non saprei. Il processo di pace è una questione estremamente
          complessa per entrambe le parti. Penso che forse Barak ha avviato
          quello che potrebbe finire per rivelarsi un processo storico molto
          importante, molto doloroso per entrambe le parti. E dobbiamo vedere
          come sfocerà in una prospettiva storica. Potrebbe rivelarsi
          storicamente fondamentale, oppure concludersi in nulla, restare un
          tentativo che non ha funzionato. Io penso che sia troppo presto per
          dire come si debba valutare Barak. 
           
          E ora, che governo si farà qui? 
           
          Penso che Sharon avrà la possibilità di formare un governo di unità
          nazionale, insieme ai laburisti. Forse potrebbe chiamarli a
          partecipare in seguito e potrebbe crearsi una spaccatura tra i
          laburisti, alcuni con lui, altri no. 
           
          Ma non le sembra che, al di là del generale desiderio di vendetta, vi
          sia un aumento dell’egemonia dei gruppi settari dell’ebraismo e
          dei fondamentalisti? 
           
          In questo momento no, ma potrebbe verificarsi. Tutto dipende da Sharon,
          da che cosa farà, se il suo progetto andrà avanti, e quali saranno
          le reazioni da entrambe le parti. C’è stato subito un altro
          attentato, l’altro ieri, (l’autobomba a Gerusalemme, Ndr). Certo,
          questo è il genere di cose che si verificherà con Sharon al potere.
          E lui potrebbe avere una reazione eccessiva, provocare una escalation,
          e ritrovarsi fuori da un contesto in cui la pace sia possibile. Il
          rischio c’è. 
           
          Non molto tempo fa c’è stato uno scontro in Israele tra
          modernizzatori e tutori della tradizione, abbiamo visto grandi
          manifestazioni. 
           
          In Israele sono in corso tre conflitti. Quello tra ebrei e arabi,
          quello tra ebrei occidentali ed ebrei orientali, e quello tra persone
          religiose e non religiose. Un anno fa, il conflitto principale era tra
          religiosi e non religiosi. Mentre oggi il conflitto principale è
          quello tra arabi ed ebrei, e tutto il resto passa in secondo piano,
          per il momento. 
           
          Che contributo sta portando alla situazione generale l’arrivo in
          questi ultimi anni di un così gran numero di immigrati? 
           
          In un certo senso ha creato tensione, ha inasprito il conflitto tra
          ebrei orientali ed ebrei occidentali, e anche tra religiosi e non
          religiosi, in quanto la maggior parte degli immigrati non sono
          religiosi, molti non sono nemmeno ebrei, e questo ha generato
          tensioni. Ma in realtà questo non è un problema all’ordine del
          giorno, per ora. Oggi si parla solo del problema arabi-ebrei. 
           
           
           
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