Due popoli prigionieri della storia
Antonio Carioti
Articoli collegati:
Due popoli prigionieri della
storia
Se gli israeliani non sperano
più
Forse sbagliano, ma non è follia
L'opinione di una lettrice
Minitinerario/Palestina online
Sembravano sull’orlo della pace, sono sull’orlo della guerra. Poco
più di sei mesi fa, nel luglio del 2000, il premier israeliano Ehud
Barak e il leader palestinese Yasser Arafat, quasi segregati a Camp
David dal presidente americano Bill Clinton, apparivano vicini a un
accordo globale, che avrebbe posto fine a un conflitto durato lunghi
decenni. Malgrado il summit si fosse poi chiuso con un nulla di fatto,
per la prima volta il negoziato aveva affrontato anche le questioni
più spinose, in particolare la sorte di Gerusalemme, e si sperava di
aver posto le basi per un’intesa futura.
Al contrario, di fronte al delinearsi di un compromesso che avrebbe
imposto a entrambe le parti dolorosi sacrifici concreti e simbolici,
israeliani e palestinesi hanno finito per ritrarsi, come atterriti
dalla prospettiva di rinunciare ad alcuni punti fermi della propria
identità collettiva. Lo Stato ebraico avrebbe dovuto ingoiare la
spartizione della sovranità su Gerusalemme, che considera da sempre
la propria capitale "eterna e indivisibile". L'Olp di Arafat
avrebbe dovuto dimenticare il sogno far tornare in massa i profughi
palestinesi, ammassati per decenni nei campi sparsi un po' in tutta la
regione, nei villaggi da cui erano fuggiti in seguito alla prima
guerra arabo-israeliana del 1948-49.

Sarebbe stato molto difficile far accettare tutto questo in cambio
della pace. Ma è stato anche peggio porre in discussione problemi
tanto delicati senza arrivare a una soluzione, poiché si è fornita
agli estremisti l'occasione propizia per mandare in frantumi tutto il
processo di pace, facendo leva sui sentimenti profondi messi in gioco
nelle trattative.
A settembre il leader della destra israeliana, Ariel Sharon,
passeggiò provocatoriamente, con una scorta ben nutrita, sulla
spianata delle moschee di Gerusalemme, considerata dai musulmani un
luogo sacro alla loro religione. Subito dopo, in tutti i territori
occupati della Cisgiordania e di Gaza, dove dovrebbe sorgere il futuro
Stato palestinese, si scatenò l'inferno che tuttora dura.
Manifestazioni, scontri, attentati. Non più solo pietre, come nella
prima Intifada degli anni '80, ma armi da fuoco. Con Arafat, ormai
anziano e malato, apparso in bilico tra la consapevolezza di non poter
vincere e la speranza di provocare l'isolamento diplomatico di
Israele, costringendolo a una repressione talmente sanguinosa da
apparire insopportabile per l'opinione pubblica mondiale.
Intanto nello Stato ebraico il governo di Barak si sbriciolava. Il
premier laburista, ex generale, avrebbe dovuto garantire la pace nella
sicurezza grazie a un passato di combattente valoroso. Viceversa, si
dimostrava incapace sia di domare la rivolta, sia di raggiungere
un'intesa con i palestinesi. Inevitabile il ricorso anticipato alle
urne per l'elezione diretta del primo ministro, mentre il Parlamento,
frammentato in una miriade di partiti per via della legge elettorale
proporzionale pura, rimaneva al suo posto.
Barak ha giocato tutte le sue scarse possibilità di riconferma sulla
scommessa di raggiungere un accordo in extremis con Arafat, sperando
di potersi presentare come uomo della pace in contrapposizione al
candidato della destra Sharon, noto per i metodi brutali usati quando
era ministro della Difesa: venne anche ritenuto indirettamente
responsabile per la strage compiuta nei campi di Sabra e Shatila, dove
i suoi alleati libanesi cristiani uccisero nel 1982 centinaia di
palestinesi inermi.

I colloqui di pace tenuti negli ultimi giorni prima del voto, secondo
alcune indiscrezioni, avevano dato risultati apprezzabili, anche se la
questione del diritto al ritorno per i profughi arabi restava una
colossale pietra d'inciampo. Ma il verdetto delle urne, lo scorso 6
febbraio, ha bruciato tutto in modo irrimediabile. Sharon è stato
eletto premier con una maggioranza schiacciante e il suo programma non
prevede ulteriori concessioni ai palestinesi.
Sul versante opposto, Arafat è stato esentato dall'obbligo di dover
compiere una scelta difficilissima, che l'avrebbe esposto a
recriminazioni molto pesanti da parte degli estremisti del suo campo.
Firmando un'intesa, sarebbe passato per traditore. Invece la
prosecuzione del conflitto gli consente di mantenere la leadership. Ma
la situazione del suo popolo, con un'economia messa definitivamente in
ginocchio dalle conseguenze della ribellione su vasta scala, rischia
di diventare intollerabile.
L'attentato di pochi giorni fa, che ha visto un conducente palestinese
lanciare il suo pullman contro un gruppo di soldati israeliani,
facendo otto morti, sembra aver aperto la strada a un governo di
unità nazionale nello Stato ebraico. Appena dieci giorni dopo aver
annunciato il suo ritiro dalla vita politica, Barak si è detto
disposto ad assumere l'incarico di ministro della Difesa
nell'esecutivo in formazione, guidato dal suo rivale vittorioso. Ora
bisogna capire come si comporterà Sharon: dati i precedenti, non ci
si possono aspettare mosse distensive. E del resto gli elettori lo
hanno votato in nome della sicurezza, non certo della pace.
Per due popoli incapaci di sfuggire al ricatto di una storia che li ha
visti frontalmente contrapposti, si preparano nuovi giorni di
sofferenza. E la stabilità di tutta la regione mediorientale, con la
Siria irrequieta e Saddam Hussein che torna a far sentire la sua voce
minacciosa, potrebbe essere messa a repentaglio.
Articoli collegati:
Due popoli prigionieri della
storia
Se gli israeliani non sperano
più
Forse sbagliano, ma non è follia
L'opinione di una lettrice
Minitinerario/Palestina online
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui
Archivio
Attualita' |