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La Russia e la "cristianità" europea



Sergej Averincev




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Quello che segue è il discorso che ha accompagnato il conferimento del Premio Senatore Giovanni Agnelli per il Dialogo fra gli universi culturali, pronunciato a Torino il 13 febbraio


Desidero prima di tutto ringraziare dal profondo del cuore la Fondazione Giovanni Agnelli per l’alto onore che mi è stato concesso, oltre naturalmente a tutti coloro che sono qui convenuti per l’onore che a loro volta mi riservano, non solo con la loro presenza ma anche con la disponibilità nell’ascoltare questo mio intervento. Grazie mille!

Come russo, che oggi si trova davanti a un uditorio di europei, vorrei parlare brevemente del mio paese all’interno di un più generale contesto europeo e, principalmente, in quello della tradizione cristiana europea, a cui il romantico tedesco Novalis ha dedicato la sua famosa opera Die Christenheit oder Europa (Cristianità o Europa).

In questo mondo in cui tutto muta, la stabilità di determinate costanti della coscienza russa non va enfatizzata, attribuendo loro quasi un carattere assoluto. Tali costanti, tuttavia, determinate da precise circostanze storiche, possiedono una loro indubbia importanza che ci induce a considerarle con la dovuta attenzione.

Come tutti sanno, sono trascorsi mille anni da quando quella civiltà greca di epoca medioevale che chiamiamo bizantina trasmise ai nostri avi russi sia la fede cristiana sia i germi fecondi di una grande cultura. Quella civiltà, che assunse il ruolo di istitutrice di popoli diversi, univa in sé tratti orientali e tratti invece chiaramente europei.

Volendo iniziare con un esempio lampante e comprensibile anche visivamente, basterà citare la tradizione ortodossa dell’icona, sorta a Bisanzio e poi rielaborata e sviluppata in quella zona dell’Europa orientale che dalla Macedonia si estende fino ai monasteri dell’estremo nord della Russia.
Tale tradizione iconografica costituisce un genere particolare di rappresentazione sacra che potremmo situare a metà strada tra l’espressività e la sensibilità artistica dell’Occidente e la magia di quelle forme schematiche e statiche presenti, ad esempio, negli jantar indù o nelle composizioni calligrafiche dell’Islam.

Pur distinguendosi da entrambe queste tradizioni artistiche, l’icona presenta in sé alcune loro componenti essenziali: i monogrammi sacri, ad esempio, pur richiamando direttamente gli esercizi calligrafici orientali, appartengono interamente alla tradizione dell’icona ortodossa.

Lo stesso si può dire per la rappresentazione figurativa. Le leggi che regolano la tradizione dell’icona non ammettono né lo splendore delle Madonne rinascimentali né la densità volumetrica dei santi di età barocca. Il divieto di ogni sensualità, tuttavia, non riesce a privare né il volto né l’immagine complessiva della figura umana di una loro dignità in quanto rappresentazione della Divinità (quella human form divine, secondo l’espressione di un famoso poeta inglese).

Non solo: determinati aspetti degli orientamenti artistici della tarda antichità, rivolti a una chiara personalizzazione del ritratto, malgrado le modifiche e i limiti imposti dal carattere ascetico dell’opera conservano tutto il loro vigore, impedendo così il pieno trionfo del criterio orientale.

Il movimento, pur facendosi più lento e solenne, infatti, non cede mai all’immobilità assoluta delle raffigurazioni buddiste; la percezione dello spazio tridimensionale non viene eliminata, bensì sottoposta a una sorta di trasfigurazione mistica; i sentimenti umani si sottomettono sì alla severa disciplina dell’ascetismo, ma non si avverte quella totale distruzione delle emozioni che è propria del nirvana.


Questo equilibrio tra l’elemento artistico e quello spirituale si colloca dunque in una zona intermedia tra il senso orientale del sacro, estraneo all’umanesimo, e la tradizione umanistica occidentale, che procede verso la secolarizzazione.

Proprio tale equilibrio pare acquistare un significato che, andando al di là dei confini di una mera problematica artistica, può rappresentare un indizio e contemporaneamente un simbolo a cui far riferimento nel nostro sforzo di comprendere l’eredità della cultura ortodossa, intesa come un tutto organico.

Inizialmente la strada di Bisanzio e quella dell’Occidente erano legate fra loro in virtù dell’unicità della fonte a cui entrambe attingevano, quella greco-romana. Tale continuità con l’antichità classica fu avvertita con particolare intensità, ad esempio, dall’umanista italiano Enea Silvio Piccolomini, il futuro papa Pio II, che lamentava la caduta di Costantinopoli come una seconda scomparsa dei corifei dell’antica cultura greca.

Nel primo medioevo, infatti, per l’Occidente i greci erano ancora i maestri: basti ricordare la serie di tredici papi di origine greca (serie destinata a concludersi nell’VIII secolo con papa Zaccaria), così come, a un livello meno istituzionale, nella storia della cultura, il profondo filoellenismo che traspare negli orientamenti filosofici di Scoto Eriugena, il primo grande pensatore dell’Occidente medioevale.

Per ciò che riguarda l’icona slavo-bizantina, da noi scelta come simbolo visivo della cultura ortodossa, si possono individuare in Occidente numerosi parallelismi, ad esempio nell’arte senese del Trecento. Il concetto di "maniera greca", infatti, pur assumendo chiaramente nel Vasari una connotazione negativa, emerge ugualmente come momento imprescindibile del processo storico di formazione della pittura italiana e, in senso più vasto, della stessa civiltà italiana.

I conflitti politico-ecclesiastici, tuttavia, separarono le strade di Roma e di Costantinopoli. Nonostante ciò, per lungo tempo non mancarono quanti, pur essendo figli della cultura bizantina, si sentirono spinti dalle proprie convinzioni a scegliere il campo opposto, come testimonia ad esempio la tomba dell’erudito greco e cardinale Bessarione nella chiesa romana dei Santi Apostoli. Va detto, comunque, che i casi di questo genere rappresentarono una minoranza.

Vorrei ricordare che, in un primo tempo, l’aspetto anticattolico dell’influenza bizantina non venne pressoché avvertito in ambito russo. E' significativo a tale proposito che la traslazione delle reliquie di san Nicola dall’Asia Minore alla città cattolica di Bari - un evento percepito in modo totalmente negativo dalla coscienza ecclesiastica bizantina - venne invece solennemente festeggiato con autentico giubilo dalla Chiesa russa: da tempi immemorabili fino ad oggi la gente delle nostre campagne conosce e venera come santo addirittura il nome della città di Bari!

In generale, fino al XIII secolo, la Rus’ si considerò de facto come parte integrante della cristianità europea: i principi russi sposavano le principesse scandinave di fede cattolica e per le loro figlie si stipulavano matrimoni dinastici con i monarchi cattolici dell’Occidente; stretta un’alleanza con la Lega anseatica e senza troppo curarsi dei contrasti tra Roma e Costantinopoli, la libera città di Novgorod - la cui organizzazione politica era affine a quella dei comuni dell’Italia e della Germania - non esitò a invitare sul proprio territorio i monaci benedettini; i domenicani, a loro volta, arrivarono a Kiev ancora prima della devastante conquista tatara, vale a dire non molti decenni dopo la fondazione del loro ordine monastico.

E ancora: più tardi, nel XV secolo, i re cattolici polacco-lituani invitarono iconografi russi ortodossi affinché affrescassero la cappella del castello di Cracovia, e tali iconografi, accettando l’incarico di adornare con le loro immagini uno spazio sacro alla fede cattolica, non vi scorgevano alcun impedimento di tipo religioso.

In questo mio intervento non posso addentrarmi in un’analisi particolareggiata, che mostri come tale situazione abbia poi subìto lente trasformazioni, durate interi secoli, e che spieghi quindi le diverse cause di tali mutamenti.

Tra queste mi limito a citare in primo luogo la nascita dell’assolutismo centralizzato, che pose fine alla libertà di città come Novgorod, poi l’antagonismo politico-egemonico tra la Moscovia ortodossa e la Polonia cattolica e infine - causa forse ancor più determinante - il trasferimento nell’area russo-polacca degli accaniti conflitti religiosi che caratterizzarono l’epoca della Riforma e della Controriforma.

Vorrei sottolineare piuttosto un altro aspetto: anche durante i periodi di massimo scontro confessionale tra ortodossia e cattolicesimo, non si giunse mai a una totale mancanza di reciproca comprensione. In questo contesto assume particolare rilevanza una delle figure gerarchiche della Chiesa russo-ucraina, quella dello scrittore cristiano Dimitrij, vescovo di Rostov (1651-1709).

Nella Chiesa russo-ortodossa è uno dei santi più venerati, mentre nella storia della cultura russa e ucraina egli emerge soprattutto come uno dei primi grandi poeti-drammaturghi, dalla cui penna uscirono drammi di soggetto sacro, scritti secondo il modello occidentale e successivamente rappresentati nel teatro scolastico da lui stesso fondato.

E, in tal senso, appare tanto più significativo l’atteggiamento positivo di questo pensatore verso quelle che erano le reali componenti dell’esperienza spirituale dell’Occidente. Nelle sue riflessioni su un argomento quale la capacità della donna di elevarsi ai massimi livelli della virtù, ad esempio, Dimitrij porta come modello santa Chiara di Assisi!

Pronunciando il voto di povertà, come si addiceva a un asceta, egli concesse a se stesso di conservare un unico oggetto prezioso: una raccolta di libri in cui prevalevano testi latini e polacchi. Alla domanda se tale atteggiamento abbia allontanato Dimitrij dall’identità culturale russa, conducendolo a quella condizione di "pseudomorfosi" di cui parla il filosofo tedesco Oswald Spengler, possiamo fondatamente rispondere in modo negativo.

A tale proposito vorrei citare un esempio che appare in sé ancora più significativo dei drammi scolastici di Dimitrij di Rostov o del suo opus majus agiografico (opera, questa, da cui risalta con chiarezza la profonda conoscenza degli Acta Sanctorum dei bollandisti come pure delle Zyvoty swietych [Vite dei santi] del gesuita Scarghi): egli tradusse anche, presumibilmente per farne uso nella liturgia ortodossa, la preghiera Anima Christi, così cara al cattolicesimo e così amata nell’epoca della Controriforma.

In questa traduzione - opera in sé tutt’altro che pedissequa - si avverte la straordinaria sensibilità dell’autore verso le intonazioni e i ritmi dell’orazione ortodossa, e la sua estrema attenzione verso ciò che il sacerdote russo Pavel Florenskij definì il "gusto ortodosso": in luogo della concisione un po’ spigolosa e contratta del testo latino, stilisticamente vicino alle preces jaculatoriae della liturgia occidentale, Dimitrij di Rostov ci offre quella sintassi più morbida e fluida delle preghiere bizantine, che di per sé favorisce la trasposizione parafrastica di ciò che in latino viene reso con un andamento più laconico.

Occorre dire, peraltro, che la straordinaria apertura mentale di questo grande santo della Chiesa russa verso la spiritualità occidentale è inscindibile da due momenti ben precisi, e derivanti entrambi dalla piena consapevolezza del vescovo Dimitrij dei propri obblighi in quanto appartenente alla gerarchia della Chiesa ortodossa: in primo luogo, la sua lotta per la diffusione della cultura europea tra il clero russo e, secondariamente, il suo desiderio di una Chiesa russa indipendente dal potere laico. Alla penna di Dimitrij di Rostov, infatti, appartiene anche un inno sacro per la festività della Protezione della Madre di Dio, in cui viene affrontato senza mezzi termini il problema delle ingiustizie perpetrate talora dagli stessi zar ortodossi. La forza di questo inno lasciò a suo tempo stupefatto anche lo stesso Pu_kin, che lo aveva udito dalla voce della sua njanja.

Oltre alla ricezione dei modelli cattolici, troviamo anche quella dei modelli protestanti. Già nel 1735, nella città tedesca di Halle, uno studente russo curò la prima traduzione in lingua russa di una delle opere classiche del pietismo, vale a dire Von wahrem Christentum (Del vero Cristianesimo) di Johann Arndt. In un primo momento tale testo venne proibito in Russia, ma seguirono presto altre sue traduzioni.

L’importanza del libro di Arndt per la spiritualità russa è testimoniata dal fatto che egli divenne l’autore più amato da Tichon Zadonskij (1724-1783), un altro dei grandi santi della Chiesa di Russia, senza il quale è praticamente impossibile giungere ad un’autentica visione del cristianesimo russo.

Proprio nella sua visione di una Chiesa assai poco "istituzionalizzata", nel suo profondo sentimento di carità e misericordia verso tutti gli uomini considerati come "confratelli", e nella sua intensa sofferenza emotiva per la Passione di Cristo - di Cristo "ferito, straziato, torturato, lordo del proprio sangue" - risuona una nota che, nella sua autentica profondità russa, richiama e giustifica i famosi versi del poeta Fëdor Ivanovich Tjutcev sulla Russia come paese del Cristo sofferente e "schiacciato dal martirio della Croce". Quasi certamente, proprio a questo mondo di intima sofferenza emotiva fu legata la decisione di Zadonskij di abolire entro i confini della propria diocesi le punizioni corporali imposte dai tribunali ecclesiastici.

Riflettendo sul significato della sua figura, cominciamo a capire perché Dostoevskij - secondo le sue stesse parole - si sia rifatto proprio a questo santo della Chiesa ortodossa come prototipo dell’immagine interiore dello starec Zosima nei Fratelli Karamazov. Pur mostrando grande apertura verso gli impulsi provenienti dall’Occidente, Zadonskij seppe rielaborarli in un perfetto amalgama di spiritualità e sentimento che nessuno, anche in questo caso, potrà mai definire "pseudomorfosi" e che, seppure attraverso la mediazione artistica di Dostoevskij, molto ha da dire all’Occidente.

Vorrei ora soffermarmi su alcuni protagonisti della letteratura russa. Non parlerei, tuttavia, del grande poeta Vasilij Zukovskij, di poco più anziano di Puskin, e della preghiera dell’eremita cattolico svizzero che questi cita nei suoi diari, in un’annotazione del 1850: in fondo l’intera personalità di Zukovskij è permeata di spirito cristiano, così come appare evidente il carattere europeo di questa sua spiritualità.

Tralascerei a maggior ragione i nomi di quei letterati russi, appartenenti alla stessa epoca storica, che si sono convertiti al cattolicesimo oppure che, come il grande pensatore Caadaev, hanno rifiutato il momento formale della conversione schierandosi, però, nei dibattiti su argomenti confessionali, dalla parte del cattolicesimo inteso come ideale.

Che dire però di Gogol’, così vicino alle posizioni degli slavofili? In Taras Bul’ba, la novella di carattere storico che narra dell’eroismo dei cosacchi ucraini durante le guerre religiose contro i polacchi di fede cattolica, parrebbe strano attendersi immagini di forte intensità derivate dal mondo cattolico.

Eppure, intessuta in una trama che coniuga essenzialmente amore e avventura, troviamo proprio la descrizione "ultraromantica" di una messa di rito latino celebrata nella città assediata (Vladimir Solouchin, recentemente scomparso, si disse a suo tempo fortemente stupito del fatto che Gogol’ ci presenti dei fedeli intenti alla preghiera soltanto in questo passo della novella). L’atmosfera generale del brano ci riporta all’estetica dei romantici tedeschi:

... A pie’ di un altare coperto di ceri sorgevano degli alti candelabri; un sacerdote era prostrato e pregava a bassa voce [...] supplicava il Signore di compiere un miracolo: che la città fosse salva, che gli animi avviliti si rinfrancassero, che il tentatore, perfido consigliere di fiacchi propositi e di querele, fosse messo in fuga.
Molte donne emaciate, simili ad ombre, inginocchiate, appoggiavano la fronte dolorosa alle spalliere delle seggiole e dei banchi; alcuni uomini, presso alle colonne che sostenevano le volte, erano anch’essi in ginocchio.
Ad un tratto le vetrate soprastanti all’altare fiammeggiarono ai primi bagliori rosei del giorno e mandarono sul pavimento del tempio cerchi di luce azzurri, gialli, di tutti i colori. Le oscure navate furono ravvivate da caldi riflessi, l’altare s’irraggiò di una gloria luminosa, e il fumo dell’incenso si levò in nubi tinte di tutte le gradazioni dell’iride. [...]
Improvvisamente il gemito armonioso dell’organo si diffuse per tutta la chiesa; era un lamento dapprima sommesso, che a poco a poco prendeva corpo, scoppiava in rombo di tuono, si affievoliva, si spegneva, ed era seguito da voci celestiali, che montavano, montavano, e si libravano sotto le volte come un coro di vergini...

Pur con tutte le riserve legate a un certo manierismo romantico e al contesto stesso del soggetto, un afflato emotivo simile non è affatto casuale nell’arte di Gogol’. Dalle testimonianze dello stesso scrittore e dei suoi contemporanei, sappiamo bene quale impressione avessero suscitato in lui le sincere manifestazioni di fede a cui aveva assistito in Italia, come pure la bellezza della liturgia cattolica romana.


Mentre egli si trovava a Roma, la madre, alla quale era giunta voce che il figlio era sul punto di convertirsi al cattolicesimo, gli spedì una lettera allarmata in cui chiedeva spiegazioni. Nella lettera di risposta Gogol’ le spiegò che non aveva intenzione di cambiare la propria fede religiosa, e motivava la sua decisione non già riferendosi all’eterna polemica tra le due confessioni cristiane, bensì al fatto che proprio la sostanziale identità del messaggio cristiano nella fede ortodossa e in quella cattolica - cosa per lui assolutamente evidente - rendeva del tutto superflua una conversione formale da parte sua.

Puskin nel 1836, ormai prossimo al tragico duello che doveva ucciderlo, scrisse un’entusiastica recensione del libro di Silvio Pellico I doveri degli uomini.

Di certo, nella fede di una figura come Silvio Pellico, di un carbonaro gettato in prigione dal dominatore austriaco, è assai difficile rilevare anche l’ombra di un qualche conformismo e, a tale proposito, possiamo citare una frase dello stesso Pu_kin, tratta da una lettera del 1843: "Silvio Pellico [...] è un cattolico, ma non un bigotto". Possiamo supporre che, se questa frase fosse stata scritta prima che desse alle stampe la propria recensione, egli l’avrebbe senza dubbio citata, tanto essa corrispondeva all’immagine di Silvio Pellico che lo scrittore intendeva trasmettere al lettore russo.

Vorremmo citare in modo particolare una frase di Puskin: "Negli ultimi tempi, l’ignoto autore del libro L’imitazione di Cristo, Fénelon e Silvio Pellico appartengono a quegli eletti che l’angelo del Signore saluta come “uomini di buona volontà”" (Vangelo di Luca 2, 14).

Non bisogna meravigliarsi del fatto che l’elenco dello scrittore russo sia così povero, ma è interessante che esso comprenda soltanto dei cattolici. L’opera De imitatione Christi, tradizionalmente attribuita a Tommaso de Kempis (Thomas Hemerken von Kempen), venne più volte tradotta nella Russia del secolo scorso, divenendo oggetto di accese dispute teologiche.

Per quanto riguarda, invece, Fénelon, non è un caso che nelle librerie antiquarie di Mosca e Pietroburgo si possano trovare facilmente le sue opere in edizioni del XVII e XVIII secolo. Tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo - un’epoca di profonda ricerca di un cristianesimo interiore -, le sue opere furono infatti tra i libri più letti in Russia, in un momento storico in cui la tradizione della "filocalia" riprendeva vigore in seno all’ortodossia.

Ciò che più importava a Puskin era il fatto che, tanto il quietista Fénelon nel contesto cattolico della Francia (a differenza ad esempio di un Bossuet), quanto Silvio Pellico in Italia non erano mai stati rappresentanti del potere costituito: in Russia infatti tale argomento è sempre stato particolarmente sentito.

Fu per ragioni pressoché identiche che Aleksandr Turgenev (da non confondere con il noto scrittore Ivan Turgenev) - le cui lettere inviate da Parigi nel 1825-26 venivano pubblicate sulla rivista diretta da Pu_kin con il titolo Chronika Russkago (Le cronache di un russo) - segnalava nella Francia contemporanea proprio il gruppo dei liberal-cattolici che si riuniva attorno al periodico L’Avenir, avendo ben cura di non tralasciare neppure una sola delle famose prediche di Henri Dominique (Jean Baptiste Henri) Lacordaire.

L’attenzione rivolta da Turgenev al gruppo de L'Avenir è oltremodo interessante, in quanto egli non era né convertito al cattolicesimo né particolarmente filocattolico: anzi, pur restando ortodosso, dimostrava maggiori simpatie verso il protestantesimo. Con tutto ciò, il tentativo dei membri de L'Avenir di unire un’autentica fede al sentimento della libertà lo colpì profondamente.

Cento anni più tardi - poiché tale è la mentalità dell’intellettuale, soprattutto se russo - Zinaida Gippius, una degli esponenti di maggior spicco del simbolismo russo, che aveva un intenso rapporto, tutto personale, con santa Teresa di Lisieux, si sentiva coinvolta in modo particolare da alcuni episodi della sua vita (come l’udienza papale in cui non esitò a richiedere con sfrontatezza di essere accolta nelle carmelitane ancora prima di raggiungere l’età richiesta per entrare nell’ordine monacale) e, in generale, da tutto ciò che rivelava il totale anticonformismo e l’ineffabile solitudine della "piccola Teresa", nonché la sua pacifica ribellione alle convenzioni ecclesiastiche.

In Occidente, nel contempo, avveniva la progressiva scoperta di un santo italiano destinato a divenire il più amato dai non cattolici, tanto in Russia quanto in altri paesi europei, soprattutto protestanti. Mi riferisco a san Francesco d’Assisi. Fu una scoperta, come ho già detto, graduale. Durante la sua visita ad Assisi, ad esempio, Goethe rivolse il suo interesse esclusivamente alle vestigia dell’antichità e rimase insensibile al nome di Francesco, a lui quasi sconosciuto (desidero ricordare a tale proposito il ruolo rivestito dalle ricerche di studiosi protestanti quali Paul Sabatier e il critico d’arte Heinrich Thode, le cui opere ebbero una certa risonanza anche in Russia).

Nel mio paese ci fu un periodo di dodici anni (dal manifesto liberale dell’ottobre 1905 alla rivoluzione del 1917), in cui la censura nulla poté per ostacolare la penetrazione di elementi del cattolicesimo. Fu proprio in questi dodici anni che si rese possibile la pubblicazione in Russia di numerose opere dedicate al poverello di Assisi (il lavoro svolto in quei lontani anni è stato continuato in epoca assai più recente dalla poetessa moscovita Ol’ga Sedakova, insignita in Vaticano del "Premio Sapienza" e traduttrice dei primi testi francescani).

Potrei ancora citare molti altri autori come, ad esempio, il poeta e pensatore russo dell’epoca simbolista Vjaceslav Ivanov che nel 1926, durante il suo soggiorno a Roma, fece richiesta di potersi accostare alla Chiesa cattolica pur senza compiere il "passaggio" definitivo, cioè l’abiura formale della Chiesa ortodossa e della propria identità di credente di tale confessione. Superati alcuni ostacoli, egli ottenne il permesso richiesto.

E sono lieto di ricordare in questa occasione che appartiene proprio a Vjaceslav Ivanov, a un poeta russo, l’idea per cui Oriente e Occidente vengono intesi come "i due polmoni" della Chiesa universale: un’idea spesso ribadita ai nostri giorni e citata più di una volta dallo stesso papa Giovanni Paolo II (il Santo Padre ricorda bene questa visione di Ivanov, come risulta più che evidente dal discorso pronunciato da Sua Santità in occasione del simposio internazionale sul poeta russo tenutosi a Roma nel 1983: si veda a questo proposito L’Osservatore Romano del 29 maggio 1983).

Per concludere, vorrei riferire alcune mie personali considerazioni. Credo sia chiaro a tutti quale conforto traggo da quei momenti, da me appena citati come esempi, in cui un’atmosfera di conflitto e di reciproca estraneità viene spezzata da uno sforzo di comprensione e di sincero interesse verso ciò che è "altro da noi".

Credo vi sia chiaro che il mio più grande desiderio, nonostante le mie deboli forze, è quello di continuare a prodigarmi per questo sforzo di comprensione reciproca, quello di essere l’umile discepolo di tanti insigni maestri: da san Dimitrij di Rostov a Vjaceslav Ivanov. Questo non significa che io mi senta di appoggiare incondizionatamente la completa unificazione culturale, in tutti i suoi aspetti, vale a dire la cosiddetta "globalizzazione", troppo spesso intesa come un disinvolto livellamento di tutte le culture.

Io non credo che il Signore, creatore di questo mondo così ricco di varietà, voglia da noi l’uniformità (a me, tra l’altro, a differenza di quella tipologia tanto diffusa di "occidentalisti" e "slavofili" russi, rimane del tutto estranea la rappresentazione di un Occidente omogeneo e fin troppo "uguale a se stesso": per me il fascino dell’Europa consiste forse proprio nel fatto che i suoi paesi e le sue città, talora situati a poca distanza gli uni dagli altri, riescano a essere così poco simili tra loro!).

In una poesia dello scrittore inglese Gilbert Keith Chesterton vi è un’espressione chiaramente iperbolica che mi è molto cara:

For every tiny town or place
God made the stars especially.

Le stelle, il sole, la luna, i corpi celesti tutti vengono ogni volta creati ex novo dal Signore per ogni villaggio e città, e in ogni luogo essi possiedono caratteristiche irripetibili.

Personalmente ritengo che il cattolico Chesterton abbia compreso assai meglio l’essenza della libertà di quanto non facciano molti ultraliberali di nuova formazione, i quali, pur con le migliori intenzioni, vogliono semplificare e impoverire il mondo.

Quando i miei connazionali mi rivolgono la domanda se, a mio giudizio, la Russia racchiuda un mistero, io rispondo immancabilmente che fino ad oggi non ho visto un solo paese, una sola città, un solo angolo della Terra che non ne racchiuda uno: anche la Russia ha il proprio mistero, ma non si tratta di un privilegio a lei sola concesso, bensì di un diritto ugualmente condiviso con tutti gli altri paesi.

Il solo pensiero che una città come Torino non racchiuda il proprio mistero (anche non volendo considerare la presenza della Sacra Sindone e limitandoci al mero agglomerato urbano) mi parrebbe un sacrilegio mostruoso e per di più stupido. Non esiste in tutta l’Italia una sola antica città che non racchiuda un segreto, esattamente come ogni persona umana.

Proprio in un contesto di assoluto riguardo nei confronti dell’irripetibile unicità di ogni cultura, mi sembra importante il fatto che san Dimitrij di Rostov non si sia semplicemente rivolto con rispetto e venerazione alla preghiera in latino Anima Christi, ma che l’abbia elaborata tributando altrettanto rispetto e venerazione sia verso il paradigma slavo-bizantino dello stile sacro sia verso la tradizione ortodossa nel suo complesso.

Ciò che appare veramente importante è che egli ha saputo accogliere nel suo animo la spiritualità occidentale proprio dal cuore stesso della spiritualità dell’Oriente ortodosso. Ciò che viene richiesto a tutti noi non è l’uniformità, ma l’unanime e rispettoso desiderio di comprensione reciproca: come a suo tempo fu detto nel pieno dei conflitti religiosi del XVII secolo, "in necessariis unitas, in non necessariis libertas, in omnibus caritas".

È di assoluta importanza, dunque, che le differenze culturali, ivi comprese quelle di religione, non fungano da pretesto per intolleranza e animosità, bensì si trasformino in una vera fonte di possibilità di comunicare gli uni agli altri qualcosa di realmente nuovo.

Come russo e cristiano, posso dire che più di una volta ho posto a paradigma del cristianesimo occidentale il profondo significato delle parole di san Paolo: "Fratelli, non siate fanciulli nel giudicare, ma nella malizia fatevi bambini, e uomini maturi nel giudicare" (Prima Lettera ai Corinti 14,20).

Io credo che il cristianesimo russo-bizantino possa offrire al moderno Occidente una concreta e vitale rappresentazione del sacro mistero (che non può ridursi al moralismo razionalistico), del timore di Dio come sofferta elaborazione emotiva di questo stesso mistero e quindi, secondo le parole della Bibbia, come "principio di sapienza" (Salmo 111,10; Proverbi 1,7) che non può essere ridotto ad alcuna forma di suggestione "autoritaria" o "repressiva".

Ripeto: è mia profonda convinzione che abbiamo bisogno gli uni degli altri, proprio perché siamo diversi. Imparando a percepire la diversità anche nella somiglianza, abbiamo la possibilità di avvertire la cosa più importante: l’unità nella diversità.

Ancora grazie della pazienza con cui mi avete ascoltato.


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