La medicina come scienza
filosofica
Franco Voltaggio con Gianluca Miligi
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La medicina come scienza
filosofica
Questa intervista fa parte dell’Enciclopedia multimediale delle
scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in
collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e
con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica
Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.
L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme
d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica,
la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei
termini vivi della cultura contemporanea.
Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it
Professor Voltaggio, la biomedicina, specie in taluni settori
cruciali come l’epidemiologia, la teoria eziologica generale, le
discipline immunologiche, ha finito con il toccare, per così dire, la
“coda del drago”, entrando risolutamente in temi come l’origine
della conoscenza, che sono, almeno secondo il senso comune, peculiare
oggetto della tradizione speculativa occidentale. Perché l’attuale
biomedicina può essere definita una “scienza filosofica”?
Può essere definita una scienza filosofica perché i temi e i
problemi affrontati dalla biomedicina, soprattutto in termini di
riflessione teorica sulle risultanze della ricerca, sono temi e
problemi classici della tradizione speculativa occidentale e non
soltanto occidentale. Le faccio qualche esempio. Prendiamo il caso
della genetica e soprattutto riferiamoci a quanto avviene oggi con le
biotecnologie. Sappiamo che possiamo inserire geni di una specie
animale o vegetale nel genoma di un individuo appartenente ad una
specie completamente diversa, addirittura ad un regno diverso. Per
esempio si può inserire il gene particolare che consente al salmone
di sopravvivere a temperature molto basse nelle piante di fragole, e
così è possibile coltivare fragole anche in climi molto freddi.
Ora, questa che il senso comune definirebbe una “diavoleria genetica”,
e che viene conosciuta come vegetale o animale transgenico, mette in
evidenza come i geni siano di fatto presi in considerazione
indipendentemente dalla sequenza in cui si ritrovano. E siccome i geni
sono oggettivamente la base della vita di una qualsiasi specie e
ovviamente di un qualsiasi individuo, questo vuol dire che i geni
vengono pensati come le unità originarie della vita. Ciò di fatto
significa che, almeno in questo particolare settore, ritorna un
vecchio “fantasma” della tradizione speculativa
tardorinascimentale o seicentesca: basta riflettere, ad esempio, a
ciò che sono i “minimi” in Bruno, ossia le unità originarie di
tutte le cose, non soltanto di tutte le cose organiche, ma anche di
tutte le cose inorganiche, dove appunto la distinzione tra organico e
inorganico sfuma.
È decisamente speculativo il fatto che si pensi la base unitaria
originaria della vita distinta dall’individuo vivente. Questo è un
aspetto di natura più speculativa che sperimental-scientifica in
senso stretto. Ma non è soltanto questo l’esempio. Tutte le
ricerche sui virus sono di fatto ricerche che finiscono col toccare un
tema classico della speculazione filosofica cioè il passaggio dall’inorganico
all’organico o, in altri termini, l’origine della vita. Per quanto
riguarda poi la sistemazione teorica in senso stretto della
biomedicina contemporanea ci sono due settori speciali, in cui
ritornano tutti i problemi della gnoseologia della tradizione
occidentale. Questi settori sono nella fattispecie l’epidemiologia e
la teoria eziologica generale.
Per quanto concerne in particolare l’epidemiologia e la teoria
eziologica generale, come intervengono in esse concetti tipicamente
filosofici?
Per quanto riguarda l’epidemiologia, lo studio della frequenza delle
malattie richiede non soltanto una sofisticazione matematica molto
particolare, ma anche la necessità di ripensare i concetti di “malattia”,
di “stato patologico”, ma allora anche i concetti di “salute”
e di “benessere”. Il concetto di “benessere”, esplorato con
attenzione, finisce col toccare il tema della distinzione tra essere e
non-essere, tra felicità e non felicità e così via. Per quanto
riguarda in particolare l’eziologia, scomparsa la superstizione
infettivologica tipica dell’Ottocento, per cui data una malattia c’è
sempre una causa, talché il rapporto tra segni, sintomi, malattia e
causa è un rapporto diretto causa-effetto (ciò è vero ma solo, in
realtà, per le malattie infettive propriamente dette, come il tifo)
si è scoperto che in effetti la causa di talune malattie, soprattutto
delle malattie più impegnative come il cancro, non può essere
individuata in un particolare elemento, ma va individuata in una
complessa causazione. Questo porta inevitabilmente la riflessione
eziologica a toccare temi della grande tradizione speculativa
occidentale, come il concetto di “causa”, e a misurarsi con
problematiche tipiche della filosofia di Hume o di Kant. Va detto
però che non sempre questo atteggiamento è consaputo, è decisamente
consapevole.
Un settore particolarmente importante e composito è quello dell’immunologia.
Preferisco parlare di “discipline immunologiche” piuttosto che di
immunologia perché gli sviluppi di quest’ultima nel XX secolo,
soprattutto nella sua seconda parte, sono stati tali e tanti da
produrre una serie di discipline immunologiche come l’immunopatologia,
la sistemazione dei concetti immunologici dal punto di vista genetico
- penso ad esempio al sistema genetico di regolazione dell’attività
immunitaria che è il complesso maggiore di istocompatibilità - l’immunoendocrinologia,
la psiconeuroendocrinoimmunologia. Bene, ci sono due distinti
contenuti di questa ricerca che vengono presi in considerazione: il
primo in modo, per così dire, filosoficamente “inconsaputo”, il
secondo in modo decisamente “consaputo” sotto il profilo
filosofico, anche se per certi versi il tipo di filosofia che questo
secondo modo consentirebbe lascia molto perplessi.
Per quanto riguarda il primo intendo riferirmi alle ricerche fatte
sugli animali inferiori da Ottaviani, da Blalock, da Franceschi e da
molti altri ricercatori, soprattutto all’arco che va dalla seconda
metà degli anni Ottanta agli anni Novanta del Novecento. Queste
ricerche sugli animali inferiori hanno messo in evidenza come il pool
delle molecole reattive, che corrisponderebbero negli animali
superiori alle molecole immunitarie, e il pool delle molecole
cognitive, che corrisponderebbero negli animali superiori alle
molecole dei tessuti neuroendocrini, sia identico, come a dire che c’è
stata nell’evoluzione delle specie e nella scala gerarchica dell’evoluzione
una speciazione che è partita dalla reattività pura ed è arrivata
alla complessità neuroendocrina. Ciò significa che la reattività e
la cognitività sarebbero fondamentalmente la stessa cosa. Ora, questa
idea che la cognitività e la reattività siano la stessa cosa è
tipica della tradizione filosofica occidentale e risale in larghissima
misura alla filosofia del tardo Rinascimento italiano. Basta pensare
per esempio a Campanella, alla teoria della perceptio passionis
suae cioè alla percezione della modificazione del soggetto.
L’altro modo è stato quello della identificazione del sistema
immunitario come un sistema conoscitivo in senso proprio. La base
teorica, e anche sperimentale ben inteso, è contenuta nella teoria
della selezione clonale del grande immunologo McFarlane Barnett. Essa
è una selezione produttiva nel senso che il sistema immunitario
necessita di un numero molto elevato di cellule immunitarie come i
linfociti per la stragrande quantità di antigeni, vale a dire di
agenti patogeni, con cui ha a che fare: senza una produzione clonale
non sarebbe possibile disporre di tanti linfociti quanti sono
necessari per la distruzione degli antigeni. Ora si tratta di una
produzione specializzata e questa produzione specializzata prevede a
livelli appunto immunitari la distinzione tra self che sarebbe
il “proprio” e il non self che sarebbe il “non proprio”.
McFarlane Barnett proprio da questo punto di vista affermò che l’immunologia
era una scienza filosofica. Se non ricordo male questa sua definizione
risale alla seconda metà degli anni Cinquanta, quindi prima ancora
che l’immunologia avesse fatto i passi da gigante che poi fece nei
trenta-quarant’anni successivi. Quello di Blalock è un modo, per
così dire, filosoficamente inconsaputo, il modo di McFarlane Barnett
è un modo decisamente consaputo: è lo stesso immunologo che dice
consapevolmente che l’immunologia è una scienza filosofica.
Lei sostiene che, nella sua tendenza filosofica o speculativa, la
medicina ritorna al remoto passato dell’arte, quando i physikoi,
i medici speculavano a tutto tondo sulla physis e sulla
conoscenza. Può precisare in quale modo e in quale misura
considerazioni di carattere epistemico erano utilizzabili per la cura
delle malattie?
C’è una considerazione di fondo da fare: nel mondo greco arcaico e
anche nel mondo presocratico propriamente detto, vale a dire tra il
VII e il V secolo a. C., le persone che avevano malattie spesso si
rivolgevano ai guaritori cosiddetti marginali, vale a dire a quanti
disponevano di nozioni e di conoscenze derivanti da una tradizione
antichissima di tipo strettamente empirico, vale a dire di conoscenze
di alcuni sintomi e segni più frequenti nelle malattie più
ricorrenti, e soprattutto delle erbe, del loro trattamento e così
via. Però in realtà è vero che il termine physikos indicava
fondamentalmente il medico. Perché? Perché c’era la convinzione,
diffusa in tutta quanta la cultura greca tra il VII e il VI-V secolo
a. C., che le malattie fossero fenomeni derivanti da un disordine
molto simile a quello che poteva essere osservato in natura, e che i
princìpi dell’universo, del kosmos fossero fondamentalmente
identici nell’uomo e nella natura in generale. Tanto per fare un
esempio concreto: la febbre - che non veniva considerata propriamente
un sintomo ma una malattia anche perché lo era in concreto, si
trattava infatti di febbri molto simili appunto a quelle che noi
conosciamo, malarica, perniciosa, terzana, quartana ecc. - era
riguardata come una sorta di prevaricazione di una delle quattro
qualità fondamentali, sulle altre, cioè del caldo sul freddo, per
intenderci. E allora si riteneva che la conoscenza della natura e dei
princìpi della natura potesse effettivamente fornire al physikos
conoscenze fondamentali per accostare il problema delle malattie, per
tentarne il trattamento, la cura e possibilmente arrivare alla
guarigione.
Molti physikoi , sulla scorta di questa prospettiva di
carattere generale, cercarono di mettere a punto delle tecniche
terapeutiche molto precise, come quella di combattere il caldo col
freddo o, come nel caso di uno dei grandi medici del mondo antico,
Empedocle di Agrigento, come quella di ricorrere alla cura coi
dissimili, sulla base della sua teoria generale dell’universo, come
esito del contrasto, del conflitto e dell’eventuale tra due forze
originarie: odio e amore, o come preferiscono alcuni studiosi di
filosofia antica: amicizia e contesa. Empedocle effettivamente cercò
di applicare direttamente i suoi princìpi a questo contesto, cercò
effettivamente di prendere in considerazione la relazione tra kosmos,
makrokosmos, mikrokosmos e cioè tra natura e uomo anche
in termini di concreta applicazione terapeutica. Ma in effetti la
dimensione nella quale i physikoi sono decisamente vicini a
considerare per così dire l’episteme cioè la conoscenza a
tutto campo della natura, emerge sì soprattutto in Empedocle, in
Anassagora eccetera, ma può essere forse compresa in modo indiretto
facendo riferimento a una grande dimensione speculativa coeva, che è
quella della medicina classica cinese. Questa è incentrata proprio
sul rapporto tra kaos e kosmos, e sulla relazione tra
maschile e femminile, tra luminoso e oscuro, tra secco e umido, buio
eccetera, cioè sulle relazioni tra le due forze primordiali:yang
e yin.
Perché può essere compresa mediante tale riferimento? Perché, se si
leggono gli antichi trattati della medicina cinese, si scopre che le
malattie vengono ricondotte alle stagioni e si parla di stati yang
in yin, o di stati yin in yang. Il rapporto tra
la conoscenza a tutto tondo dell’episteme cioè dei princìpi
dell’universo e la cura pratica, concreta delle malattie, ripeto, si
può capire soprattutto attraverso una sorta di analogia con quanto
effettivamente accadeva più o meno nello stesso periodo nella Cina
classica.
Quando ha luogo il divorzio della medicina dall’episteme?
Il divorzio della medicina dall’episteme ha luogo quando per
l'appunto con la scuola di Cos cioè con la scuola fondata dal
leggendario Ippocrate, quindi nel V secolo a. C., ci si rende conto
che la natura dell’uomo è la natura di un individuo che ogni tanto
o, se vogliamo, molto spesso, si ammala e va curato. Il physikos
non può essere semplicemente un osservatore speculativo in generale,
egli deve anche prendersi cura dell’uomo malato cioè deve diventare
iatreus , cioè “guaritore”, “terapeuta”. Ma per fare
questo l’oggetto dell’attenzione non può essere più la natura in
generale, deve essere l’uomo in particolare, la natura umana in
particolare. Ed infatti il vero divorzio della scuola di Cos dall’episteme
è segnato in quel famosissimo scritto che è La natura dell’uomo,
il cui autore è Polibo, genero di Ippocrate, tende a fare della
natura dell’uomo quasi il manifesto della medicina della scuola di
Cos.
Ciò che conta è l’uomo, l’uomo sano, l’uomo malato. Certamente
non si interrompe né tutta la ricchezza dei contenuti forniti dalla
ricerca epistemica propriamente detta, né tanto meno la relazione
diretta istituita dalla scuola di Cos con i fattori naturali. La
scuola di Cos dà una estrema importanza all’andamento delle
stagioni, anche perché l’attenzione della scuola di Cos - oltre a
quelle che sono le condizioni patologiche da trauma cioè le ferite,
le fratture eccetera - è concentrata fondamentalmente sulle grandi
malattie infettive, generalmente sindromi influenzali d’inverno e
malattie gastroenteriche, salmonellosi e probabilmente anche forme di
colera d’estate.
L’attenzione nei confronti della stagione e degli stress ambientali,
che sono fondamentalmente stress climatici, non si interrompe; però
è molto importante tenere presente comunque come oggetto, non tanto
la relazione tra l’uomo e la natura in generale, quanto l’uomo in
sé in particolare. Questo è molto importante, è questo l’aspetto
proprio della scuola di Cos e della tradizione ippocratica che segna
fatalmente il divorzio della medicina dall’episteme. Però il
divorzio in questione - questo è molto importante - non può essere
identificato a una sorta di divorzio della medicina dalla filosofia,
perché la filosofia propriamente detta non c’è ancora: nasce
infatti con Platone. E nasce proprio si può dire da una costola della
scuola di Cos, dalla medicina ippocratica.
Nel suo libro La medicina come scienza filosofica, lei cita
un testo del Corpus hippocraticum, Natura dell’uomo attributo
al discepolo di Ippocrate, Polibo. Quali sono a suo avviso le ragioni
dell’importanza di questo testo?
La Natura dell’uomo è un testo decisamente ippocratico anche
se non è di Ippocrate ma appunto di Polibo. Alcune posizioni del
vecchio Ippocrate sono decisamente accentuate, esagerate. E questo
spiegherebbe l’ippocratismo di Natura dell’uomo e
spiegherebbe anche perché Galeno, che era tanto interessato ad
Ippocrate, dava una speciale importanza a questo scritto. La sua
importanza è contenuta, come molti sanno, nelle prime considerazioni
che si fanno proprio su ciò che l’uomo è, vale a dire in quel
famosissimo motto di Polibo: “Se l’uomo fosse uno, non avrebbe
nulla a che fare con le malattie”.
Ecco, quanto dice Polibo ossia: “Se l’uomo fosse uno non
avrebbe nulla a che fare con le malattie”, può ritenersi il remoto
nucleo euristico della “complessità”, oggi contenuto privilegiato
delle scienze biomediche?
Direi proprio di sì, perché uno degli aspetti salienti del tema
della complessità, trattato dalla biologia e dalla medicina e in
generale da tutte le scienze biomediche - e la biologia è una scienza
biomedica, anche soprattutto perché è vero che ha influenzato la
medicina, ma è altrettanto vero che molte ricerche squisitamente
biologiche vengono già pensate in termini medici, quindi l’interazione
è molto profonda - concerne il fatto che tutto sommato il singolo
uomo, la singola donna, il singolo essere umano è piuttosto un “progetto”,
è un “processo” e non si può quindi definire in generale “entità”
nel senso rigoroso del termine. Soltanto quando l’individuo è morto
si può parlare veramente di entità individuale, di individuo
perché, almeno entro certo limiti, taluni processi non intervengono
più.
Finché vi sono i processi, - e questi consistono fondamentalmente
nell’alternanza di uno stato patologico all’altro, la salute è
perciò soltanto un concetto-limite - l’uomo non è una unità ma
una molteplicità, un complesso, un complesso di fattori: questa
complessità è il tema ricorrente della biomedicina contemporanea.
Allora, in che cosa si riscontra la complessità della biomedicina
contemporanea? Nel modo in cui vengono oggi considerate le malattie
che prendono in considerazione una quantità di fattori, per cui una
malattia non è più una singola individualità clinica, ma è una
collezione di stati patologici. La complessità del resto è un tema
ricorrente della biomedicina anche perché rappresenta un tentativo di
mediare e di mutuare continuamente tra componenti organiche e
componenti inorganiche.
È vero che, insistendo sulla molteplicità e sulla complessità in
qualche modo Polibo sembra smentirsi, dal momento che il tema della
complessità è un tema squisitamente epistemico. Però io direi
questo: la complessità e le malattie nascono a un parto. Se noi
prendiamo in considerazione l’uomo come un’entità unitaria, come
dominato da un solo principio, o magari da una molteplicità
determinata di princìpi, non solo perdiamo di vista la possibilità
che l’uomo possa ammalarsi, ma anche la possibilità di considerare
l’uomo per quello che è effettivamente, ripeto: un intreccio di
cose, un processo, un progetto, piuttosto che un’entità che rimane
costante nel tempo.
Professor Voltaggio, quando e come la filosofia nasce dalla
medicina?
Nelle mie ricerche ho sviluppato un tema che mi è stato suggerito
indirettamente, molti anni fa, da uno dei massimi storici italiani
della filosofia antica, Francesco Adorno. Nella sua ricostruzione
della filosofia platonica Adorno metteva in evidenza come gli eide fossero
in realtà desunti dalla tradizione concettuale e dal lessico proprio
della scuola di Cos, cioè della tradizione ippocratica. In Platone l’eidos
è la forma generale nella quale si possono visualizzare le cose;
nel lessico della scuola di Cos l' eidos è il genere, forma o
specie della malattia, vale a dire è la sinossi, la visione unitaria
di un insieme di segni e di sintomi che possono contrassegnare la
malattia. Tra l’ eidos ippocratico e l’ eidos
platonico c’è effettivamente una relazione diretta. Ma ci sono
ancora due altre cose molto importanti che permettono di considerare
la filosofia intesa come teoria degli eide e delle idee, o
meglio delle ideai , e quindi la prima vera filosofia greca,
quella di Platone, come una filiazione diretta dalla medicina
ippocratica, dalla scuola di Cos.
Due cose fondamentali. La prima fa riferimento all’uso dell’anamnesi
nella tradizione platonica e in origine proprio in Platone, l’altra
fa riferimento ad un particolare aspetto delle malattie, messo in
evidenza mediante il concetto di “patocenosi” (nel suo capolavoro Le
malattie all’alba della civiltà occidentale ) dal grande
storico della medicina Mirko Grmek. Che cos’è l’anamnesi di Cos?
È l’interrogazione del malato non soltanto su quello che egli
avverte, cioè sul suo malessere, che in termini soggettivi equivale a
ciò che gli anglosassoni chiamano illness, la malattia come
“stato di sofferenza”, di “malessere” eccetera, ma anche sulle
malattie pregresse e sulle abitudini di vita, tant’è vero che l’anamnesi
della scuola di Cos talvolta assomiglia addirittura a un processo
inquisitorio: cosa hai mangiato? Quale abuso sessuale hai commesso? In
che modo hai condotto o non hai condotto il tuo lavoro? E così via.
L’anamnesi, come è noto, compare in quel dialogo cruciale di
Platone che è il Menone, in questo famosissimo dialogo viene
risolta una complicata questione legata al Teorema di Pitagora,
nonostante che colui che la risolve, uno schiavo, sia affatto digiuno
di nozioni di geometria. Bene, l’anamnesi di Platone ricorda l’anamnesi
di Cos, ma si pone come una decisa trasformazione di essa. Perché? La
trasformazione consiste nel fatto che il coinvolgimento di Socrate
nell’anamnesi è infinitamente superiore al coinvolgimento del
medico nei confronti del malato nella tradizione propria di Cos. Anzi,
in questa tradizione c’è un distacco, nel Menone , invece,
un coinvolgimento totale. E come si manifesta questo coinvolgimento
totale? Innanzi tutto nel fatto che le domande fatte da
Socrate-Platone diciamo, sono incalzanti e ricordano moltissimo
l'invito alle spinte che la levatrice fa alla gestante al momento di
dare alla luce il bambino, l’infante. Questo però che cosa implica?
Implica il fatto che, sia pure in una forma estremamente sublimata,
nell’anamnesi platonica il terapeuta è come lo sciamano, come il
guaritore arcaico greco, il quale entrava in un rapporto diretto con
il corpo del paziente, quasi in una simulazione del coito
eterosessuale. Lo sciamano si faceva donna del paziente che doveva
essere guarito, e la guarigione era la nascita del nuovo uomo, ossia
la guarigione veniva avvertita in qualche modo come una sorta di
rinascita. Ora, questa dimensione c’è in Platone, nel Menone,
solo che non è più il rapporto tra due corpi, ma la stretta
fecondante tra due menti. Il luogo di origine della filosofia della
filosofia greca in senso proprio, è proprio il Menone.
In quale modo e misura in due giganti della tradizione medica
occidentale, Galeno e Paracelso, si manifesta una costante nostalgia
epistemica della medicina?
Per quanto concerne Galeno si può dire fondamentalmente questo: la
Roma del II secolo d. C. era contrassegnata, per quanto riguarda la
medicina, da un numero enorme di scuole mediche diverse. Alcuni degli
esponenti di queste scuole mediche erano semplicemente dei praticoni,
dei mestieranti, mentre altri erano medici importanti e illustri.
Occorre dire però che tutti erano alle prese con i problemi sanitari
di una grandissima città costantemente visitata dalle epidemie, anche
epidemie gravissime come per esempio quella della peste, per cui erano
costretti a fornire risposte tagliate sul bisogno e quindi, dal punto
di vista strettamente teorico di una precisa sistemazione concettuale,
la medicina era entrata un po’ in decadenza.
A questo si aggiungeva una congiuntura particolare, la fioritura della
magia, di escatologie di tipo millenaristico, come quella del
cristianesimo, e il crescente attacco ad alcuni contenuti cruciali
dell’ideologia ufficiale quali il carattere di “divinità” dell’Imperatore
e la superiorità sotto il profilo civile, culturale e ideologico,
dell’idea di Roma. Occorreva quindi operare una grande rivoluzione
ideologica che rimettesse in sesto le componenti cruciali dell’ideologia
romana e per fare questo bisognava però partire da una scienza che
fosse in grado di contrastare anche dal punto di vista strettamente
scientifico da un lato l’empirismo “deteriore” dominante tra i
medici romani, dall’altro la mania escatologica degli abitanti dell’impero.
Per fare questo era necessaria una cura medica della filosofia e cioè
dell’ideologia, e una cura filosofica della medicina. Questo si
apprestò a fare Galeno.
Galeno, uomo ricchissimo, coltissimo, celebre perché non voleva farsi
pagare, scrisse al riguardo due testi fondamentali: Perché il
miglior medico è anche filosofo ), e il Gli insegnamenti di
Ippocrate e di Platone. Ma in che senso c’è questa forte
nostalgia epistemica in Galeno? Nel senso che lui era profondamente
convinto che se si fosse riuscito a dimostrare sperimentalmente la
superiorità dell’“egemonico”, cioè della mente, sul corpo,
sarebbe stato possibile in qualche modo far ritornare in auge l’episteme,
un’episteme , però, molto più scaltrita rispetto a quella
della tradizione presocratica. C’è un luogo bellissimo di Galeno,
in cui egli esaminando l’armonia dell’assemblaggio delle diverse
parti che compongono il corpo umano, sostiene: “È questo un
miracolo infinitamente superiore ai miracoli di Eleusi e di Samotracia”,
perché in questo miracolo si vede come l’Autore di tutto ciò miri
appunto alla superiorità dello spirito sul corpo. In questa tesi si
può vedere quella che alcuni hanno definito la “preghiera laica
della scienza”; con essa si evidenzia fondamentalmente proprio la
nostalgia epistemica, o per la filosofia, che è caratteristica di
Galeno. La medicina può essere guarita dalla filosofia, ben inteso se
si tratti di una filosofia che fa riferimento alla grande tradizione
aristotelica ma soprattutto a Platone e a Ippocrate. Non può
certamente essere guarita la medicina dal ricorso alle follie, alle
superstizioni, alle sciocchezze che i millenaristi vanno blaterando.
In questo c’è un radicale rifiuto del cristianesimo, come del resto
un rifiuto radicale e argomentato di esso c’è in Plinio il Giovane
e, soprattutto, in Marco Aurelio. I Pensieri di Marco Aurelio
sono l’ultimo testo anticristiano del mondo tardo-antico.
Per quanto riguarda Paracelso, la nostalgia per la filosofia non è
tanto una nostalgia per l’episteme quanto per quella
dimensione demoniaca attinta da Socrate. Egli aveva presentato il
filosofare come una riflessione della vita “prima” sulla “seconda”,
cioè del pensiero sull’esperienza quotidiana. Quegli stati
particolari in cui cadeva Socrate, forme quasi di oblio della
coscienza che ricordano molto la trance isterica e che sono
stati oggetto di un’attenzione speciale da parte di Taylor, il
grande storico del pensiero di Platone, non erano tanto effettivamente
espressioni di morbo e di malattia, quanto espressione del vivere la
filosofia come sdoppiamento: l’uomo che vede se stesso vivere e che,
vedendo se stesso vivere, può criticarsi e può migliorarsi.
Paracelso era molto affascinato dalla personalità demoniaca di
Socrate ed era lui stesso una personalità demoniaca, cioè una
personalità appunto sdoppiata.
Vuole parlarci delle ricerche di Claude Bernard - penso soprattutto
all’ultimo scritto Sui fenomeni della vita - come una più
recente tappa significativa del recupero della dimensione epistemica
propria della medicina?
Per quanto riguarda Bernard infine, la nostalgia epistemica, o la
nostalgia per la filosofia, va riscontrata in almeno due dimensioni:
prima di tutto nella riconduzione della fisiologia a Galeno. Uno degli
scritti più importanti e anche uno dei primi, perché se non sbaglio
è del 1855, e cioè le Lezioni di fisiologiadi Bernard, fa
riferimento preciso proprio a L’utilità delle parti di
Galeno. Galeno avrebbe intuito, secondo Bernard, la natura del corpo
come un sistema di parti e di organi deputati allo svolgimento di
precise funzioni.
L’altro aspetto fondamentale della nostalgia filosofica di Bernard,
che costituisce per altro una specie di dilatazione, per così dire,
della posizione già assunta da Bichat, nelle sue osservazioni sul
morire, è legata al concetto stesso di milieu intérieur, di
“ambiente interno”. L’organismo individuale va riguardato
come un ambiente ben strutturato, che esercita una forte resistenza
all’aggressione esterna, aggressione che naturalmente non è
soltanto l’aggressione patologica, da parte delle malattie, ma
aggressione di qualsiasi fenomeno che possa perturbare, condizionare,
impedire la vita dell’individuo. Nei suoi scritti sui tossici, i
veleni, per esempio, sono riguardati appunto come tali nella misura in
cui costituiscono componenti estranee che entrano in contatto con l’organismo,
anche se i tossici possono essere riguardati come uno strumento
potente per studiare in negativo le funzioni fisiologiche del corpo
del vivente, in particolare del corpo umano.
In questa sua idea dell’ambiente interno o milieu intérieur
Bernard, da un lato prepara il terreno allo sviluppo della teoria
generale dell’omeostasi, cioè dell’equilibrio interno degli
organismi, messa a punto da Selye e da Cannon nella prima metà del XX
secolo, dall'altro riproduce a modo suo uno dei momenti cruciali della
filosofia occidentale: il concetto di “monade” di Leibniz. Che cos’è
la monade? È l’organismo, e in generale ogni entità, visto come
resistenza alle perturbazioni esterne e perciò stesso perturbante. E
qui entra un elemento speculativo molto interessante: da una parte il
concetto di organismo è un concetto molto complicato, nel senso cioè
che un organismo non è mai veramente tale, non è mai un’entità
compatta, un qualcosa di definitivo, in quanto l’organismo è
piuttosto un processo, è un progetto; dall’altra, però,
effettivamente è un progetto che mira al costituirsi dell’unità,
dell’entità, e quindi mira fondamentalmente alla permanenza dell’“individuo”
come unità isolata dal resto.
Qual è la maggiore aspirazione dell’essere umano? Essere solo lui e
non altro. Quindi questo mette in evidenza il fatto che l’individualità
non è mai realmente raggiungibile, ma anche il fatto che il
cosiddetto “ambiente interno”, visualizzato dal fondatore della
fisiologia moderna, sia tutto sommato un repêchage del vecchio
concetto leibniziano di “monade”. Se non fosse stato così, non ci
sarebbe stata l’estrema attenzione degli spiritualisti francesi nei
confronti degli scritti di Bernard, non solo nei confronti del lavoro
Sui fenomeni della vita, ma anche di quello che viene considerato
il suo capolavoro, L’introduzione alla medicina sperimentale.
Ammesso che in modo “consaputo” la medicina contemporanea
accolga l’istanza della filosofia, c’è il rischio che medici e
ricercatori si appiattiscano su opzioni metafisiche obsolete, quali il
vetero positivismo o, per contro, il creazionismo, oppure dalle loro
indagini può scaturire la possibilità di una cura medica della
filosofia, un trattamento che forse è decisamente necessario?
Il rischio di quest’appiattimento c’è. Basta leggere
effettivamente molte delle riflessioni di carattere speculativo dei
grandi protagonisti della ricerca biomedica contemporanea, direi
soprattutto di area anglosassone. Perché in fondo va detto anche
questo e va detto con molta forza: la filosofia come sapere
specialistico è soprattutto un fatto italiano e tedesco, e in parte
francese, ma non è affatto una caratteristica propria dell’attività
speculativa anglosassone ossia dell’Inghilterra e degli Stati Uniti.
Al contrario: la quasi totalità del pensiero filosofico che viene
prodotto nel mondo anglosassone è in effetti l’esito della
riflessione dei protagonisti della ricerca che, arrivati a sessant’anni
- un caso classico per esempio è quello di Edelmann - cioè a
conclusione dell’attività più intensa di ricerca, cercano di
capire che cosa hanno studiato, che cosa hanno fatto, che cosa hanno
visto, che cosa hanno capito, dopodiché appunto creano dei quadri,
delle interpretazioni complessive dell’universo.
Fondamentalmente le due opzioni più frequenti sono il
veteropositivismo - basta pensare per esempio a un importante libro di
Edelmann, La materia della mente - e il creazionismo: alla fine
si finisce col pensare che ci sia un limite oltre il quale le cose non
si spiegano se non con una specie di improvviso atto di energia o di
amore, a seguito del quale appunto il mondo viene creato. Il
creazionismo, in particolare, è annidato in moltissime delle
prospettive degli studiosi dell’evoluzionismo. Come mai per esempio
è impossibile trovare il missing link, cioè l’“anello
mancante” che rende possibile spiegare la comparsa dell’uomo
propriamente detto, dell’Homo Sapiens-Sapiens? Evidentemente
c’è un salto: questo salto non può essere l’irruzione della
creazione?
Ecco che nella speculazione dei medici e soprattutto dei biomedici
compare la possibilità di questa opzione metafisica. Ma in realtà da
queste trappole si può uscire abbastanza facilmente. Perché? Perché
se si leggono con attenzione le pagine delle riviste che pubblicano le
ricerche di campo, intendo riferirmi soprattutto a “Sciences,” a
“Cell”, in particolare, al “New England Journal of Medicine”
si scopre qualche altra cosa, si scopre che in realtà i concetti di
“individuo”, “classe”, “specie”, “bene”, “male”,
“giusto”, “ingiusto” sono oggetto di un ripensamento profondo:
portando alle estreme conseguenze la riflessione della biomedicina su
se stessa si possono produrre quadri di interpretazione del mondo
totalmente inediti.
È molto probabile che la biomedicina produrrà una nuova filosofia,
cioè è molto probabile che si verificherà in termini totalmente
inediti quello che accadde all’epoca di Ippocrate, maestro in un
certo senso di Platone. C’è un settore drammaticamente importante
della ricerca biomedica, quello dello studio del cancro, che non solo
produce una serie di modelli incessanti su come interpretare la
causazione dei tumori maligni, ma sta producendo anche una serie
incessante di modelli mediante cui interpretare i rapporti tra bene e
male, tra salute e malattia, tra etica e non etica. Quindi la
biomedicina è in grado di diventare filosofia. Certo occorre molta
“sofisticazione”, molta presa di coscienza, occorre soprattutto
che i filosofi - e questo è molto importante a mio parere - non
cerchino di spiegare ai biomedici come devono interpretare le malattie
e come devono fare la loro ricerca, ma cerchino, al contrario, di
rivedere i loro strumenti concettuali per seguire i progressi della
biomedicina.
E' opportuna una preparazione filosofica dei medici, in particolare
dei clinici e dei sanitari di base, che non si riduca a quelle che
sono definite medical humanities?
Per certi versi potrebbe essere davvero opportuna. Io ritengo, ad
esempio, che la conoscenza di qualche pagina della filosofia greca o
della filosofia classica tedesca non farebbe male, però non so fino a
che punto sarebbe veramente utile. Oggi si parla molto di medical
humanities e si praticano le medical humanities: si tratta
allora di vedere come. Sono stati fatti degli esperimenti
interessanti, importanti, consistenti nel mettere a contatto gli
studenti di medicina con la tradizione letteraria di contenuto medico.
Effettivamente se solo si guarda alla letteratura tra l’Otto e il
Novecento si incontrano un mare di racconti a carattere decisamente
medico. Basta pensare, per esempio, a Cecov: Un caso della pratica
medica, Corsia numero 6, I nemici, Il duello eccetera; o alla
straordinaria ricchezza di contenuti medici e propria per esempio de La
montagna incantata di Thomas Mann. Però lì bisogna stare molto
attenti: il rischio delle medical humanities sta nel fatto che
possono in qualche modo trasformarsi in una disciplina specialistica,
che si aggiunge alle altre discipline.
Uno specialismo che concresce su altri specialismi non può dare ai
medici futuri, soprattutto ai medici di base, la flessibilità e la
plasticità mentale e soprattutto l’apertura “filosofica” che
sarebbe opportuna per la loro professione. Si possono fare altre cose!
So di un esperimento condotto in un università degli Stati Uniti
consistente in questo: gli studenti dopo una esercitazione anatomica
sono invitati a scrivere un racconto per mettere in evidenza la
possibile vita del soggetto di cui avevano operato, assieme al
professore, la dissezione. A me sembra un esperimento molto
interessante che è può essere molto più utile della letteratura di
argomento medico dell’Ottocento. Perché? Immaginiamo un giovane
studente di medicina che si trova davanti al cadavere di un uomo dell’apparente
età, poi verificata, di trent’anni. Il cadavere è un “reperto
archeologico” perché il corpo racconta tutta la storia delle
malattie di una persona. Lo studente che è invitato a inventarsi una
storia relativa alla persona di cui ha operato la dissezione, può
effettivamente, senza rendersene conto, entrare veramente nella vita
della persona che è dietro a quel cadavere. Può scoprire il
processo, il progetto che c’era e che ovviamente è stato
interrotto. Perché è possibile fare questo? Perché in realtà, lo
studente entra così in rapporto con una dimensione antichissima della
medicina: la relazione stretta tra medicina e archeologia.
Basta citare, per esempio, alcuni casi cruciali: il dio egiziano della
medicina Imhotep è legato all’archeologia ed è legato all’architettura.
Morgagni, l’inventore dell’anatomia patologica, era un
appassionato di archeologia, appassionato di archeologia era Freud e i
riferimenti alla dimensione archeologica sono frequentissimi nell’opera
freudiana. Si pensi per esempio a quello che Freud dice dell’inconscio
quando opera la celebre analogia tra le stratificazioni dell’inconscio
e le stratificazioni della città di Roma. In questo senso si può
fare dell’Umanesimo proprio attraverso quella che è la più
terribile delle discipline mediche, l’anatomia patologica, che non a
caso è pensata oggi da molti anatomopatologi come la più umanistica
delle scienze mediche. Quando gli anatomopatologi lamentano che si
fanno troppe poche autopsie, dicono qualche cosa di molto giusto,
perché effettivamente questa particolare prassi medica
riumanizzerebbe molto la medicina, la sottrarrebbe all’imperio, per
esempio, della tecnica e della diagnostica strumentale, farebbe vedere
al futuro medico che cosa c’è dietro la malattia, quale progetto,
quale processo c’è dietro un corpo morto.
Così la vera filosofia dei medici è, da un lato, il ritorno a certe
prassi, consuetudini, quali l’anatomia patologica, dall’altra, una
riflessione continuata della medicina su se stessa. Che cosa è la
vera filosofia per la medicina? L’apprensione del proprio tempo, la
capacità del medico di vedere se stesso come il protagonista di una
sorta di autobiografia della medicina. In questo senso forse la più
utile o la sola esclusiva delle medical humanities sarebbe una
vera storia della medicina.
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