Il cervello e la teoria delle emozioni
Alberto Oliverio con Silvia
Calandrelli
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L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme despressione
e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica, la conoscenza della filosofia nel
suo svolgimento storico e nei termini vivi della cultura contemporanea.
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Professor Oliverio, cominciamo innanzitutto da una breve ricognizione storica: quando e
in quali discipline si comincia a parlare di emozioni?
I poeti e i filosofi hanno sempre parlato di emozioni: ma dal punto di vista della
filosofia occidentale, nell'ambito dei rapporti tra emozioni e cervello, forse si può
partire da Cartesio e dalla sua tendenza a scindere tra quelle che erano, secondo lui, le
proprietà prettamente umane - tra cui la razionalità - e quelle che erano proprietà
più di tipo animale. Indubbiamente le emozioni per Cartesio appartenevano al cosiddetto
"esprit des bêtes", allo "spirito degli animali". Erano un qualche
cosa che ci mette in contatto con una serie di automatismi e di comportamenti più
semplici di quelli che, invece - secondo il suo dualismo - sarebbero stati diretti da
un'anima, che avrebbe trovato delle risposte naturalmente di tipo cognitivo, di tipo più
elevato. Pertanto Cartesio è noto non soltanto per questo suo dualismo tra spirito e
corpo, tra una mente materiale e un cervello, ma anche perché ha introdotto questa
separazione tra la ragione e l'emozione.
Esistono poi varie tradizioni filosofiche che oggi chiameremmo neuro-scientifiche. Ad
esempio molti filosofi illluministi hanno teso a considerare le emozioni nell'ambito di
una materialità del comportamento e nell'ambito di qualche cosa che ci poneva più vicino
agli animali. Anche gli animali hanno delle emozioni - come sanno tutti i proprietari di
animali, o gli etologi. Fin qui siamo restati nell'ambito di teorie filosofiche, quindi di
un qualche cosa che riguardava delle speculazioni sull'animo umano, sullo spirito degli
animali, e così via. Ma è soprattutto nell'Ottocento, che le emozioni entrano in un
campo più solido e soprattutto, con Charles Darwin, si avvicinano fortemente alla
biologia.
Charles Darwin ha dedicato alle emozioni un importante lavoro? Può parlarcene?
Il saggio di Darwin è ancora oggi letto e consultato, anche perché contiene alcune tra
le prime immagini dell'espressione facciale delle emozioni nell'uomo e negli animali: vi
si trovano i primi dagherrotipi, le prime fotografie di emozioni prodotte dalla
contrazione dei muscoli facciali, cioè di espressioni che esprimevano paura, tristezza,
gioia. Darwin riteneva che molte delle espressioni facciali delle emozioni avessero un
significato adattativo - come si dice in termini evoluzionistici - cioè servissero a
comunicare qualcosa (lo stato interno di una persona che, senza bisogno di parole, dice
agli altri come si sente in quel momento), avessero, cioè, una utilità ben definita. La
paura, per esempio, è un'emozione che segnala spesso un pericolo che è utile comunicare
agli altri.
Ma oltre a questo aspetto, Darwin riteneva che questa espressione delle emozioni fosse
legata anche a degli aspetti di tipo fisiologico: emozionarsi vuol dire anche piangere,
vuol dire respirare più profondamente, sudare, e così via. Darwin ha cercato di
comprendere come questi correlati fisiologici delle emozioni avessero anch'essi un
significato adattativo e ha sostenuto che molti degli aspetti delle nostre emozioni - che
ritroviamo in qualche misura anche negli animali - sono delle specie di "fossili
comportamentali", cioè un qualche cosa che è servito un tempo in una lontana
preistoria dell'evoluzione, e che oggi ha un minor significato. Possiamo perciò dire che
Darwin è stato il primo a dare delle basi solide alle emozioni, a indicare il loro
significato, il loro valore adattativo, ad interpretarle cioè in termini di utilità, di
comunicazione. Egli ne ha sottolineato degli aspetti estremamente importanti; ma le ha
anche indicate come un retaggio antico, che ha perduto in parte la sua forza. Darwin è
stato il primo che ha studiato in modo moderno - ad esempio nei neonati, fotografandole o
traducendole con disegni - il nascere delle emozioni; queste possono essere più o meno
indifferenziate al loro inizio - un neonato può stare bene o star male, può provare
piacere oppure dolore e fastidio - ma, man mano, si attua una sorta di differenziazione
delle emozioni, in cui queste diventano sempre più sofisticate, sempre più riferite a
degli stati interni, a degli stati mentali.
Da Darwin in poi si comincia dunque a delineare una teoria delle emozioni, che si
sviluppa poi attraverso due percorsi principali: la teoria centralistica e quella
periferica. Può descrivercele?
Darwin ha contribuito a inaugurare un filone di ricerca, quello della fisiologia delle
emozioni. Fisiologia delle emozioni che nasceva anche grazie agli strumenti dell'epoca, in
quanto allora molti degli esperimenti implicavano l'uso della stimolazione elettrica. E
nei suoi studi, stimolando con degli elettrodi alcuni dei muscoli del viso, di attori o di
volontari, Darwin riusciva a far contrarre questi muscoli e a dimostrare che alcune di
queste contrazioni sono legate a emozioni: quando si ha paura, per esempio, si dilata la
bocca; quando si prova tristezza, gli angoli della bocca vanno all'ingiù.. Ora questi
esperimenti - che servivano a Darwin per dimostrare appunto come le emozioni fossero, come
diremmo oggi, implementate su dei muscoli - sono stati ripresi dai fisiologi, che hanno
cercato di studiare non soltanto l'espressione facciale delle emozioni, ma anche i
correlati interni di questo stato. Essi hanno cercato di stabilire, cioè, quanto
l'emozione si accompagni a dei correlati del sistema nervoso autonomo - del cosiddetto
sistema nervoso vegetativo - che, in maniera quasi del tutto indipendente dalla nostra
volontà, fa sì che quando siamo emozionati il nostro cuore batta più rapidamente oppure
i capillari si contraggano, facendoci impallidire, o si dilatino, facendoci arrossire;
oppure fa sì che noi possiamo sudare, sbattere le palpebre più rapidamente, dilatare la
pupilla, o restringerla.
Questa grande suggestione - in termini di teorie delle emozioni - ha fatto sì che a un
certo punto, a cavallo tra Otto e Novecento, si sia arrivati a due schieramenti opposti.
Da un lato c'erano coloro che dicevano: le emozioni sono un qualche cosa di istintivo, che
nasce in rapporto a degli stimoli particolari - a qualche cosa che induce in noi paura o
piacere o gioia - e il cervello, reagendo a questi stimoli, fa sì che il corpo si
"emozioni".. Essi sostenevano quindi una teoria in cui le emozioni stanno al
centro e la periferia ne risente: il cuore batte, il viso impallidisce o arrossisce, le
nostre mani sudano e così via.
Dall'altro, vi erano i sostenitori di una teoria periferica che dicevano: noi reagiamo in
modo automatico ad alcuni stimoli; però, quando reagiamo, il nostro corpo ha delle
reazioni. Per esempio, di fronte ad un brusco rumore noi possiamo fare un salto, oppure
scappare o correre. Un'automobile frena all'improvviso vicino a noi, noi eravamo
soprappensiero, e facciamo un salto. E allora - dicevano i sostenitori della teoria
periferica - queste reazioni dell'organismo vengono lette dal cervello come un segno di
emozione: il cervello riceve dai territori periferici, dai muscoli, dai vasi, e così via,
dei segnali che lo fanno emozionare.
Da un lato Cannon, un fisiologo americano, sosteneva una teoria centralista, e cercava di
bloccare gli input negli animali - i segnali che provenivano dai territori periferici -
per dimostrare che le emozioni stanno nel cervello; e dall'altra, invece, altri
sostenevano che le emozioni nascono dalla periferia e fanno emozionare il cervello. In
qualche modo siamo di fronte ad un dualismo: il cervello che induce un'emozione nel corpo
o il corpo che dice al suo cervello: "io sono emozionato e quindi emozionati a tua
volta". Da un lato Cannon, dall'altro James e Lang: l'uno sostiene una teoria
centralista - che segue questo assioma: "non si ha paura perché si fugge, ma si
fugge perché si ha paura"; i secondi una teoria periferica, per la quale, in
pratica, è la fuga che induce la paura. Si tratta quindi di due concezioni opposte,
benché entrambe legate, in qualche modo, ad un aspetto istintuale delle emozioni.
Nello sviluppo delle teorie sulle emozioni, una tappa fondamentale è costituita
dagli studi di Freud: qual'è stato il suo contributo?
La teoria delle emozioni di Freud non era direttamente connessa con la fisiologia, ma ne
era in qualche modo legata, in quanto teoria istintualista: le emozioni provengono da un
nucleo antico, da un nucleo centrale, sono spesso separate da quella che è la mia
coscienza, fanno parte cioè dell'inconscio. D'altra parte, molte delle teorie di Freud
non sono nate all'improvviso, ma hanno una storia: sono frutto di quelle ricerche fatte
nell'Ottocento che già indicavano come ci fosse una sorta di mondo inconscio, in virtù
del fatto che il nostro corpo ha degli automatismi. Per esempio, noi reagiamo in modo
riflesso ad una luce e la nostra pupilla si allarga o si costringe; oppure abbiamo dei
riflessi, come possono essere quelli provocati dal medico, quando batte col martelletto
sulla nostra rotula: alcuni di questi processi dell'organismo, che implicano un'attività
nervosa, spesso sono portati avanti in modo inconscio, senza che io esplicitamente sappia
che si verificano.
Quindi a partire da questa sfera dell' inconscio, Freud ha elaborato man mano il concetto
di una vita mentale che si può verificare in modo separato da quella conscia, che può
trasparire attraverso alcune azioni, che spesso non venivano giustificate o a cui non si
dava sufficientemente valore, e che poi traspaiono nel sogno. Però è in queste azioni -
attraverso il linguaggio dell'inconscio, attraverso il linguaggio dei sogni, attraverso i
lapsus, le azioni mancate o le azioni apparentemente bizzarre - che, sosteneva Freud, una
parte di questa vita sommersa, in gran parte legata a delle emozioni a volte bloccate, non
sviluppate, emerge e fa sì che il mio Io abbia degli aspetti che fino a quel momento non
erano stati abbastanza valutati. Questa è stata una forte rivoluzione, non soltanto dal
punto di vista delle teorie della mente - perché anche quella di Freud è una teoria
della mente - ma anche per l'attenzione che, a partire dai primi anni del Novecento, si è
data ad un continente così vasto - quello della vita emotiva - a livello letterario,
espressivo, e in seguito, a livello cinematografico. L'idea che le emozioni abbiano un
loro linguaggio, che possano restare ad un livello sommerso, man mano passa nella cultura
della nostra epoca e complica anche il significato dell'emozione.
L'emozione può essere qualche cosa che uno deve andare a ricercare, che mi ricorda
qualche cosa, che mi lascia in uno stato di insoddisfazione, e così via. Perciò, questa
dimensione che Freud è riuscito ad evidenziare, rappresenta un aspetto importante, e
forse, paradossalmente, un punto di connessione - anche se Freud parlava di inconscio -
con una dimensione cognitiva delle emozioni, per cui esse non sono più soltanto qualche
cosa di istintivo, ma anche qualche cosa che si aggancia con tanti altri aspetti della
nostra vita. Ora, se questi fenomeni istintuali riescono a coinvolgere vari aspetti
dell'inconscio e del conscio, vuol dire che non soltanto non sono delle categorie
automatiche - come in parte riteneva Cartesio - ma che esse hanno anche dei significati.
Uno spazio importante nella psicoanalisi è occupato dalla teoria cognitiva delle
emozioni: di che cosa si tratta e quali sono gli autori che hanno elaborato e sviluppato
questa teoria?
La teoria cognitivista delle emozioni supera le due bipartizioni che c'erano state in
precedenza: il cervello o il corpo, la teoria centralista o la teoria periferica;
soprattutto, essa supera quell'istintualismo un po' automatico che dominava sino agli anni
Trenta e Quaranta. Ad un certo punto, soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta, vari
autori cominciano a ritenere vero che le emozioni abbiano un linguaggio comune: tutti
sappiamo riconoscere quando un altro individuo è emozionato - ad esempio, siamo in grado
di riconoscere un individuo che è in preda al terrore, indipendentemente dalla cultura a
cui egli appartiene. Quindi è vero che le emozioni sono un punto per comunicare all'altro
come io mi sento, come sto, e così via; ma è anche vero, come indicavano questi
studiosi, che questa dimensione deve essere definita attraverso dei riferimenti concreti
alla realtà.. Non è una levetta che si preme e che fa scatenare una emozione o l'altra;
ma ha dei punti di riferimento con il mondo che mi circonda e con il significato che io
dò alle cose che succedono, agli stimoli che arrivano su di me.
E un modo di evidenziarlo è stato quello di manipolare le emozioni di alcuni individui
dall'esterno, attraverso dei meccanismi riduzionistici: ad esempio, facendo battere
rapidamente il loro cuore o facendo aumentare la loro pressione e quindi mandando dei
messaggi al loro cervello con dei modi abbastanza semplici. Si prendevano dei soggetti
volontari, gli si iniettavano delle sostanze che potevano accelerare il loro battito
cardiaco, senza dire loro che cosa sarebbe avvenuto. A quel punto, se l'emozione fosse
stata legata essenzialmente alla modifica interna - per esempio al batticuore -
l'individuo avrebbe dovuto essere o spaventato o comunque emozionato. In realtà, questi
studiosi osservavano che le modifiche interne non sono da sole sufficienti per
caratterizzare l'emozione. L'emozione è qualche cosa che si caratterizza in base agli
input, agli stimoli, alle situazioni che mi circondano. Io posso essere indotto, se
manipolato, a reagire in modo aggressivo, in modo empatico ad una particolare situazione.
Le emozioni diventano un qualche cosa che può portarci a delle reazioni - in qualche modo
incontrollate, se vogliamo dire inconsce, nel senso che sfuggono al nostro controllo -
portarci ad essere irritati, ad essere aggressivi, ad essere empatici, ad emozionarci, a
rattristarci, ma sulla base degli stimoli che ci provengono dall'esterno. Quindi se io
posso agitare l'emozione in una persona, posso anche in qualche modo indurla a reagire suo
malgrado. Questa è stata una acquisizione importante, perché prima si riteneva che
l'emozione viaggiasse da sola in qualche modo, fosse un qualche cosa di paragonabile ad un
meccanismo idraulico: si premeva un pulsante e veniva scaricata una pulsione. Poi si
capisce che bisogna fare attenzione, in quanto è vero che si può fare emozionare una
persona, ma è anche vero che - a seconda di ulteriori manipolazioni - io posso indurla,
per esempio, alla rabbia oppure all'empatia, in qualche modo a modificare il suo consenso.
E questo è stato utilizzato anche dai media, dai politici, dai persuasori occulti:
manipolare le emozioni per indurre delle risposte nella persona così manipolata.
Le emozioni dunque possono essere manipolate per provocare determinate reazioni.
Dalla fisiologia alla costruzione del significato: che ruolo hanno, rispetto a questa
teoria, il cervello e la memoria?
Il cervello ha un ruolo importante, nel senso che le emozioni hanno un loro punto di
partenza, che è il cosiddetto "sistema limbico".. Un sistema antico, dal punto
di vista delle sue origini filogenetiche, che si proietta verso la corteccia e che
coinvolge pertanto anche la sede di una serie di attività cognitive. Si tratta, comunque,
di un sistema che sregolarsi - e la sperimentazione su questo ha dimostrato che è
possibile soffocare le emozioni o al contrario provocarle. Basti pensare a tante droghe o
farmaci, che, agendo sul sistema limbico, possono renderci più tranquilli, meno ansiosi,
meno depressi, e così via. Questo non vuol dire naturalmente che queste sostanze
rimuovono le cause della nostra depressione o della nostra ansia: soltanto, esse
attutiscono il nostro modo di reagire a degli stimoli esterni o interni. In alcuni casi si
può verificare l'opposto: queste emozioni possono essere eccitate o manifestarsi in modo
irruente, come si verifica in alcuni disturbi psichiatrici, in cui l'individuo è preda di
una vita emotiva troppo violenta, in quanto tutto ciò che noi sentiamo fruisce verso la
corteccia e la stimola, bombardandola di un flusso di immagini, di sensazioni, di
emozioni, che man mano coinvolgono tutta la nostra mente.
Il fatto che ci siano dei nuclei del nostro cervello, da cui le emozioni possono avere una
maggiore o un minore effetto sulla corteccia e quindi sulla nostra mente in generale, è
un aspetto che è sempre stato studiato. Poi naturalmente ci sono stati degli studi anche
su alcune aree della corteccia, che possono essere più coinvolte in forme emotive. Per
esempio, il ruolo dei due emisferi nella vita emotiva: indubbiamente l'emisfero di destra
è più legato all'emozione di quanto non sia quello di sinistra, che è più legato ad un
linguaggio di tipo simbolico, razionale.
Lo studio della memoria ci permette poi di vedere come le emozioni non siano delle
categorie di tipo istintuale, ma siano qualche cosa di molto più complesso, in quanto si
è visto che gran parte dei nostri ricordi, se non quasi la totalità, in qualche modo
hanno delle valenze affettive od emotive. Non soltanto i ricordi più vivi sono legati a
delle emozioni, ma anche il processo di formazione di categorie si verifica secondo degli
agganci di tipo emotivo. In altre parole, se è vero che io posso ricordare una persona
perché ha determinate caratteristiche - perché il suo viso è irregolare o regolare, ha
gli occhi azzurri oppure scuri, è bionda oppure è bruna, ha una voce piuttosto che
un'altra - io posso anche formare delle categorie, sulle basi delle emozioni che ha
suscitato in me: mi è simpatica o antipatica, l'amo o non la amo, mi fa arrabbiare. Cioè
delle categorie di tipo emozionale, che rappresentano dei veri e propri agganci della
memoria.
Studiando la memoria, si è visto che la separazione tra l'emozione e la cognizione,
tra la vita delle emozioni e quella della memoria, è in gran parte artificiosa. Può
spiegarci questo fatto?
Il fatto è che non esiste una memoria che non abbia una valenza emotiva, e non esiste
un'emozione che non abbia una valenza cognitiva: raramente si verifica un'emozione allo
stato puro. Un'emozione è sempre un paragone tra ciò che si è verificato in passato e
ciò che si verifica in un particolare momento. L'emozione è anche un'attesa, qualche
cosa che io aspetto, che ritengo si verificherà. C'è sempre il modo di rapportare le
emozioni ad una mappa cognitiva generale e ad un mondo che è quello dei cosiddetti
significati. In quest'ambito, un forte peso l'ha avuto Craik, un neurofisiologo inglese
che negli anni Trenta ha iniziato a studiare il mondo degli schemi mentali - o se
vogliamo, dei significati. Craik sosteneva appunto che tutte le nostre attività mentali
sono legate a dei significati. La percezione, visiva o acustica, ad esempio, è in realtà
legata a dei significati, perché io seleziono il mondo che mi sta intorno, soffermo il
mio sguardo su qualche cosa che mi interessa e che quindi è significativo.
Odo pronunciare il mio nome in un party affollato, perché il mio nome, diciamo, ha per me
maggior significato di un nome di un altro. Quindi in questo processo di selezione basato
sui significati, le percezioni, le memorie, le emozioni, giocano un ruolo importante. E
Craik ha in qualche modo costruito un ponte tra quel mondo di significati, che interessa
la filosofia, la psicologia, la psicoanalisi, e così via, e quel mondo invece delle
categorie neurofisiologiche, che interessano le scienze del cervello. I primi sono molto
attenti al mondo dei valori, dei fini, dei significati e rispondono di più a quelle
domande che tutti noi ci poniamo - che cosa mi succederà, che cosa è stato il mio
passato, che cosa sarà il mio futuro, mi vogliono bene, mi sentirò bene, e così via -
mentre lo studioso del cervello in genere ha rifuggito questo mondo, perché lo riteneva
troppo vago e non aggredibile con i suoi strumenti. Con il lavoro di Craik ci muoviamo
verso qualche cosa che non è così lontano dalla neurofisiologia, perché uno schema è
anche un istinto, è quel comportamento animale, che è programmato dai suoi geni, e che
lo fa rispondere, per esempio, anche con delle reazioni affettive. Fa sì che i mammiferi
allattino i loro piccoli, che i maschi siano territoriali o che abbiano dei comportamenti
di corteggiamento.
Ecco degli automatismi che si accompagnano però alle emozioni e che sono legati a dei
circuiti nervosi. Allora - sostengono alcuni - se ciò si verifica per alcuni schemi
innati, come sono gli istinti, perché non si può anche verificare per degli schemi più
generali, cioè per le nostre visioni del mondo? Ritorniamo insomma dentro il cervello,
cercando anche di comprendere come il cervello si formi degli schemi della realtà in cui
le emozioni hanno un ruolo decisamente importante.
L'ingresso del computer e dei modelli informatici, ha cambiato in qualche modo
l'interpretazione delle emozioni?
Il computer ha cambiato l'interpretazione dell'uomo sia a livello di inconscio collettivo
sia a livello di teoria delle emozioni. Nel momento in cui l'informatica ha fatto
irruzione nel nostro mondo, molti si sono domandati se le analogie che esistono tra le
menti artificiali e le menti naturali - cioè le nostre e quelle degli animali - non
proponessero un nuovo modello dell'uomo. In pratica molti studiosi delle scienze
cognitive, per esempio, hanno ritenuto che il nostro cervello funzionasse come un piccolo
o un grande computer; che gran parte della realtà sia legata a delle interpretazioni, che
sono "implementate" sui nostri circuiti nervosi e che corrispondono ai
cosiddetti algoritmi, cioè ad una serie di operazioni che fanno sì che io compia delle
azioni, delle scelte, che pensi, e così via. Queste immagini della mente umana, alla luce
della mente artificiale, hanno in qualche modo privilegiato le categorie di tipo simbolico
razionale e fatto sembrare meno rilevanti le categorie di tipo emozionale. Al tempo
stesso, però, hanno suscitato delle paure, quindi delle emozioni - come indica tanta
parte dell'immaginario letterario e cinematografico: il computer tenta di dominare l'uomo,
e l'uomo prova allarme, ansia, paura, e in genere vince sul computer grazie a questa dote
particolare, che è la sua emozionalità, la sua - direi quasi - istintualità: insomma
qualche cosa di differente dalla macchina.
Questo è un discorso che, per quanto sotteso, in qualche misura ha influenzato il
dibattito sui rapporti tra cognitivo ed emotivo. In realtà noi non siamo degli enti
razionali per eccellenza: siamo degli organismi razionali, ma con dei limiti, tant'è che
molto spesso abbiamo delle risposte irrazionali e che sulla base delle emozioni possiamo
avere delle risposte piuttosto che altre. Le emozioni ci aiutano ad orientarci in un mondo
imperfetto, nel senso che non dobbiamo analizzare la realtà nei suoi dettagli per
reagire. Di massima reagiamo con dei modelli: una persona mi è un po' antipatica, la
rifuggo, a prima vista magari, irrazionalmente; o vedo un ferito, e provo subito
un'empatia che è di tipo emotivo. Si tratta di schemi, in parte ereditari, in parte
appresi, che mi consentono di rapportarmi alla realtà in modo semplice, senza dover
pensare: "Adesso devo fuggire, perché c'è un incendio", oppure: "Devo
soccorrere questa persona perché è un individuo come me", e così via.
E' anche vero però che questi schemi di adattamento sono imperfetti e, se non usiamo
anche la ragione, possiamo trovarci a rischio. Sull'onda dell'emozione si possono prendere
delle decisioni di cui ci si pente. In un mondo tradizionale il pentimento poteva portare
a una ristrutturazione delle nostre azioni. Quando non c'erano pulsanti da premere per
sganciare una bomba, diciamo, si poteva anche essere un po' più emotivi. Oggi invece si
richiedono delle scelte di tipo razionale, se non altro in alcune situazioni, altrimenti
una parte della nostra sopravvivenza può essere a rischio. Che si tratti di una reazione
a dei titoli di borsa oppure ad una minaccia bellica, l'emozione e la ragione debbono
essere contemperate.
Le emozioni sono come degli schemi che ci aiutano ad orientarci, a rapportarci
alla realtà in modo semplice. Ma possono essere anche causa di malessere?
Ci si può ammalare a causa delle emozioni, nel senso che alcune emozioni possono essere
pervasive, possono essere lo sfondo della nostra essenza quotidiana. Possiamo vedere tutto
attraverso la tristezza, attraverso la depressione; o attraverso il lato opposto, più
raro, che è quello della maniacalità, e possiamo essere sopraffatti dall'emozione. Un
evento cruciale, che ci colpisce duramente, che porta a delle reazioni di tipo depressivo,
può in qualche modo incidere sulla nostra stessa salute. In questi casi l'emozione è la
dimensione che più caratterizza la mia coscienza. Ma in realtà questa emozione
appartiene al mondo dei significati; non solo la perdita di una persona cara suscita in me
una forte emozione, ma distrugge un sistema cognitivo di relazioni, di interpretazioni, di
puntelli, di appoggi, che sono stati costruiti nel corso della mia vita. Questi aspetti
fanno sì che naturalmente ciò che più traspare di noi è l'aspetto emotivo: ha avuto un
grave lutto ed è prostrato, diciamo; oppure è travolto dalla gioia. Noi siamo attenti
all'aspetto, al temperamento, alle manifestazioni generali - ancora una volta - a come le
emozioni influenzano il nostro corpo. Ma in realtà, poi, tutta una serie di reazioni
dell'organismo vengono modificate e così tutti i nostri pensieri, tutta la nostra vita
cognitiva.
Si apre così un nuovo settore, che è quello del rapporto tra l'emozione e la salute. E'
un campo ancora un po' fragile, nel senso che sono soprattutto ricerche di laboratorio o
di tipo epidemiologico: però in qualche misura hanno indicato che dei traumi possono non
soltanto influenzare la mia emozione, ma anche le risposte del mio organismo possono, per
esempio, rendermi meno resistente a delle infezioni o a degli aggressori esterni. Questo
senza implicare un nesso di causa ed effetto: non ogni trauma comporta, per esempio,
l'emergere di infezioni o di reazioni psicosomatiche. Però indubbiamente c'è una certa
predisposizione a questo tipo di fenomeni. Possiamo quindi dire che le emozioni sono dei
fenomeni pervasivi, e che la mente e il corpo non sono divisi da una linea di demarcazione
netta.
Ma non si corre il rischio, professore Oliverio, attribuendo alle emozioni un
ruolo pervasivo, di sopravvalutarle? E in che senso si pò parlare di un loro incremento e
di un cambiamento in senso più individualistico, nell'era del computer?
Noi passiamo attraverso dei bipolarismi culturali. Ci sono state epoche di grande
razionalità, ed epoche invece di sopravvalutazione della vita emotiva. Basta pensare alla
differenza tra un clima di tipo illuministico e un clima di tipo romantico. Forse quando
si espande troppo uno dei due poli, alla fine si generano delle reazioni di senso
contrario, che a volte travalicano anche il loro significato. Una sopravvalutazione della
razionalità allo stato puro, di un uomo che agisce come una macchina - che pure ha
ragione - finisce per non tener conto di una vita emotiva, che ha un ruolo molto
importante. Noi siamo degli animali, sia pure degli animali dotati di un cervello molto
sviluppato: non siamo pura emozione - la pura emozione non si verifica quasi mai
nell'uomo, se non in alcune situazioni limite - la razionalità è importante. Siamo
soggetti a dei climi culturali: lo sviluppo dell'informatica, di questi nuovi mezzi di
comunicazione, indubbiamente ci porta verso un mondo controllato, anzitutto, in cui noi
pensiamo di poter avere un controllo assoluto, ma anche in un mondo in cui possiamo
evadere emotivamente. Col computer si possono fare i calcoli, si possono far predizioni,
si può simulare la realtà; ma questi nuovi media ci introducono anche in un mondo in cui
noi possiamo quasi fuggire, entrare in una dimensione di emozioni virtuali.
Le emozioni sono un territorio ibrido ormai, in cui si incrociano tanti saperi, tante
interpretazioni, tanti aspetti. Forse le emozioni prendono corpo anche attraverso i modi
con cui le si può rappresentare. Faccio un esempio. Il coro, nella tragedia greca, era un
modo per rappresentare delle emozioni, anche se con le maschere, che indicava a tutti
qual'era il ruolo delle emozioni. Potevano essere un po' polarizzate: la tristezza e la
gioia e così via. Però quello era il modo con cui si diceva: gli uomini hanno delle
emozioni, hanno dei punti deboli, queste emozioni ci possono portare verso territori o
inesplorati o critici. Oggi, queste emozioni possono essere in gran parte amplificate dai
nuovi media - pensiamo alla musica, per esempio, e all'accoppiamento musica e immagine -
attraverso la manipolazione dell'immagine, attraverso una realtà virtuale, in cui posso
esperimentare delle sensazioni e quindi delle emozioni nuove: entriamo così in un
territorio diverso rispetto al passato, forse più individualistico. A differenza che nel
coro della tragedia greca, il mio rapporto col computer o con una realtà virtuale -
attraverso guanti, occhiali e altri strumenti di questo tipo - è di tipo individuale.
Anche la droga è una forma per abbandonarsi a delle emozioni essenzialmente individuali,
è un vivere le emozioni in modo solitario - a parte quegli episodi in cui ci si abbandona
a droghe leggere di gruppo, in cui c'è un effetto alone legato al gruppo. Quindi in
qualche misura i media e la droga hanno delle dimensioni in comune, come vari sociologi
hanno mostrato.
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