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Football romantico, che nostalgia

Antonio Carioti



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Hanno tolto poesia anche ai numeri. Sì, i numeri sulle maglie, che non servono solo all’arbitro per distinguere i giocatori l'uno dall'altro. Come spiegano molto bene Antonio Papa e Guido Panico nel libro "Storia sociale del calcio in Italia" (il Mulino), ogni numero da 1 a 11 era diventato, nella fantasia dei tifosi, "simbolo di un ideale tattico". Qualche esempio? "Il 2: il terzino dal gioco duro e deciso, il 7: l'ala destra piccola e veloce, l'8: il saggio organizzatore del gioco d'attacco. Infine il 9: il centravanti dal tiro secco e preciso e dallo stacco di testa imperioso". Ma soprattutto il 10, il numero dei fuoriclasse: da Pelè a Baggio, da Suarez a Platini, da Rivera a Maradona.

Oggi tutto questo è finito. Ogni calciatore ha un numero personale, assegnato all'inizio della stagione, privo di qualsiasi rapporto con il suo ruolo in campo. Anche snocciolare le formazioni ("Un esercizio che riscalda il cuore del tifoso, rinsalda antiche amicizie, crea subitanee simpatie", scrivono Papa e Panico) è diventato un rebus, perché non si sa quale criterio adottare per dare un ordine ai nomi degli atleti.

Il cambiamento, introdotto nel 1995, "ha dissolto ogni suggestione" dei numeri. E non ha neppure sottratto i calciatori all'anonimato, come sostengono, quasi a titolo di consolazione, i due autori. Macché: il numero stravagante poteva servire a distinguere il campione, come il 14 che usava indossare Johann Cruyff, ma oggi quella sequela di 18, 25, 32, 44 non fa che accentuare l'appiattimento generale.

Possono sembrare fisime da nostalgici o da puristi. Tuttavia anche la questione dei numeri è un indizio del progressivo snaturamento del calcio, che lo porta ad assomigliare sempre più agli sport americani, in cui la logica d'impresa, fatta d'investimenti, diritti televisivi, quotazioni in Borsa, prevale sempre più sull'aspetto ludico e cabalistico.

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Basta pensare a come è stata trasformata la Coppa dei campioni, oggi Champions League, per capire che si tende a delimitare la contesa tra le squadre più influenti, garantendone i profitti ed emarginando le cenerentole con pochi tifosi e ancor più scarsi capitali. Per fortuna la palla resta rotonda e ogni tanto si vendica, così i turchi del Galatasaray vincono la Coppa Uefa, mentre il Valencia umilia Lazio e Barcellona. E magari i dilettanti del Calais arrivano alla finale in Coppa di Francia. Però è una magra consolazione.

Papa e Panico titolano un capitolo "Corea, Corea!" per sottolineare quale segno bruciante abbia lasciato la sconfitta subita dagli azzurri ai Mondiali britannici del 1966. Ma un calcio in cui si fa di tutto affinché una vittoria della Corea del Nord sull'Italia diventi sempre meno probabile, perché l'Italia garantisce più audience, è destinato a perdere molto del suo fascino.

Proprio il declino delle nazionali è un altro segnale nella medesima direzione. E' stata piuttosto fiacca per esempio, almeno da noi, l'attesa per i campionati europei. Forse è perché la squadra di Dino Zoff delude sul piano del gioco e dei risultati, tanto da attirarsi il biasimo unanime della critica. Eppure dal tripudio del Mundial spagnolo, quando ci ritrovammo tutti in piazza ebbri di felicità, sono passati appena diciotto anni. Ma già nel 1994, giova ricordarlo, il secondo posto negli Stati Uniti, dopo una finale con il Brasile decisa ai rigori, non suscitò entusiasmi né rimpianti particolari.

La verità, come notano Papa e Panico al termine del loro saggio, è che i tifosi s'identificano sempre meno con la nazionale: "Il fatto che essa rincorra il suo pubblico giocando molti dei suoi incontri in città minori, nelle quali la presenza degli azzurri costituisce un evento inconsueto, è un segno della minore attrazione che essa esercita". Si può pensare che la stagione calcistica dei club sia talmente densa di appuntamenti da saturare gli appassionati, ma non è da escludere che la nazionale sia solo l'anello più debole di una catena che comincia a scricchiolare.

Vengono i brividi rileggendo il passo che i due autori hanno ripreso da un racconto profetico di Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares, scritto addirittura nel 1967, in cui s'immagina un football senza stadi né pubblico, ridotto a pura e semplice fiction televisiva. Non ci siamo ancora, ma i passi che si stanno compiendo in quella direzione sono notevoli. E francamente inquietanti.

Forse è meglio approfittare del libro di Papa e Panico per tuffarsi nel passato, per rievocare il grande Torino, il Milan (e il Padova) di Nereo Rocco, l'Inter di Helenio Herrera, l'indimenticabile partita Italia - Germania 4-3 di Mexico '70. Il volume peraltro ha il pregio di non limitarsi a ripercorrere le gesta dei campioni, ma di spaziare su tutti gli innumerevoli aspetti del vivere sociale influenzati dal calcio. Si parla quindi della pratica sportiva in generale, del Totocalcio, delle figurine Panini, di libri, film e canzoni. Persino di politica.

Così facendo, però, l'oggetto della ricostruzione diventa difficile da riassumere in appena 216 pagine di testo. E a volte si ha l'impressione che lo sforzo di sintesi sconfini in una forzata superficialità. Nel libro non c'è quasi traccia, per esempio, dei Mondiali d'Argentina del 1978, che pure videro la consacrazione in azzurro di campioni come Paolo Rossi, Antonio Cabrini, Gaetano Scirea. E si nota altresì qualche imprecisione: nel 1954-55 il Milan vinse il quinto scudetto, non "il suo terzo titolo nazionale" (p. 48); ai tempi della tragedia dell'Heysel presidente della Juventus era Giampiero Boniperti, non certo "Gianni Agnelli" (p. 160).

In compenso un merito indubbio di Papa e Panico, entrambi docenti all'Università di Salerno, è l'attenzione che dedicano al calcio meridionale, di solito sacrificato rispetto al predominio dell'asse Milano-Torino. Protagonista assoluto è ovviamente il Napoli, prima con Lauro e poi con Maradona, ma c'è spazio anche per la Salernitana di Gipo Viani, per la vitalità del football lucano, per le imprese del Bari, del Lecce, del Catanzaro.

Apprendiamo inoltre che il primo morto ammazzato allo stadio non fu, come quasi tutti pensano, il laziale Vincenzo Paparelli, colpito da un razzo in occasione di un derby romano nel 1979, ma Gaetano Plaitano, ucciso da un proiettile vagante durante l'incontro Salernitana - Potenza del 28 aprile 1963. Per quanto si pensi di conoscerla, la storia del calcio può riservare sempre sorprese, a volte anche molto tristi.


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