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L'Antropologia e l'Utopia del Teatro

José Luis Sànchez-Martìn



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Segnalazione/Il Corpo del Teatro
Chi è José Luìs Sànchez-Martìn

Gran parte del rinnovamento o, per meglio dire, della rivoluzione del teatro del Novecento ha avuto a che fare con termini che fino a quel momento appartenevano all'antropologia: Rito, Mito, Rappresentazione collettiva, Pratica Simbolica, ecc. La rivolta contro la decadenza e l'impoverimento che caratterizzava allora il teatro si propose di abbattere la concezione del teatro-letteratura, della centralità egemonica della scrtitura drammaturgica, e prendeva atto del bisogno immediato di trovare una nuova figura di attore che sostituisse il mestierante di routine il quale trascinava ormai stancamente il repertorio o il "grande" attore che declamava quella letteratura secondo modi eclatanti ed enfatici, una serie di cliché svuotati di senso e di reale organicità ma molto cari al pubblico borghese, che nel riconoscerli poteva allora sentirsi autorizzato a decretare la "bravura" e corrisposto del prezzo del biglietto che pagava per partecipare a quello che ormai non era altro che un evento mondano, inserito nelle dinamiche umanamente appiattite della società industriale.

Nell'urgenza di riportare la "pratica" teatrale ad un livello di artisticità e soprattuto di trovare per essa un nuovo senso nella società che gli permettesse la sopravivenza nell'estabilire un nuovo tipo di rapporto con il pubblico, allora, come scrive Monique Borie "i discorsi dell'antropologia e le ricerche teatrali si incontrano in uno spazio comune: quello di un interrogativo sull'uomo, sul suo modo di esistenza sociale e sul ruolo delle pratiche simboliche."

Infatti, come in modo cosciente o incosciente fa l'antropologo, molti dei rinnovatori del teatro, sia nelle sue pratiche tecniche che nel suo senso sociale e umano, si son rivolti a culture extra europee considerate come positivamente primitive e quindi "autentiche" mantenitrici di un senso e di un arte "delle origini" che dovrebbero fornire le istanze e gli elementi necessari al rinnovamento, quasi un "ritrovamento" del senso originario, e alla creazione del nuovo rapporto con la collettività. Continua la Borie: "Prodotto da una civiltà occidentale colpevole, l'apparizione dell'antropologo è legata all'Occidente colonizzatore e ai suoi rimorsi; 'la sua stessa esistenza non è comprensibile, se non come un tentativo di riscatto' dice addirittura Lévi-Strauss.

Legato alla sua civiltà, marchiato dalla sua colpevolezza e dalla sua cattiva coscienza, l'antropologo concentrando le sue forze sullo studio di altre società fa una scelta che implica una riserva nei confronti del suo gruppo. Nella sua apertura all'Altro, riscatto di questo contrasto che si verifica nella colonizzazione in modo violento, come fuggire del tutto alla tentazione di investire questo Altro di tutte le virtù?".

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Questa estrema valorizzazione dell'Altro primitivo o esotico come fonte di nuovi valori e di modello per una nuova società, secondo Paul Hazard, "è apparsa ogni volta che c'è stata una crisi della coscienza europea", per esempio nel diciottesimo secolo con la revoluzione francese. Se quello che Hazard chiama crisi di "coscienza" noi lo chiamiamo crisi del "sistema di valori etici", allora è applicabile anche ai giorni nostri, alla ricerca ormai di massa di riferimenti o addirittura di rifugio totale in sistemi culturali e mistici a carattere esotico o "degli origini", comunque Altri.

Tornando al concetto di "autenticità", per il famosissimo Lévi-Strauss è proprio la determinazione di questa caratteristica che delimita il campo d'interesse dell'antropologo, che studia le società "autentiche", cioé basate sulle relazioni personali, su rapporti concreti e diretti tra individui. Le relazioni col prossimo si basano su "un'esperienza così globale, su una comprensione così concreta dei soggetti fra loro" che le nostre società moderne hanno perduto. Prosegue ancora la Borie: "Le hanno perdute soprattutto perché sono società della scrittura, dunque dominate dall'espansione delle forme indirette di comunicazione, che, pur allargandone le possibilità di contatto, gli hanno conferito questo carattere di "inautenticità", che è diventato il contrassegno stesso dei rapporti fra i cittadini e i Poteri, ma anche dei rapporti tra l'individuo e i suoi contemporanei, tra l'individuo e il suo passato, dato che il contatto vissuto con delle persone -narratori, preti, saggi, anziani- che caratterizza le società di tradizione orale, è completamente sparito."

E' a partire di questo concetto di "primitivo" come "degli origini" e soprattutto come "autentico", che prenderà spunto il rinnovamento non solo del teatro ma praticamente di tutte le dinamiche artistiche occidentali: la pittura, la scultura, la musica, la danza, attingeranno a mani piene, il più delle volte senza comprenderne fino in fondo il senso reale o addirittura equivocandolo clamorosamente, agli elementi estetici, filosofici e dinamici delle antiche tradizioni dei popoli esotici che in molti casi erano stati delle colonie, Africa, India, Cina, Indonesia, Giappone. Basti citare il Cubismo, desunto dalle sculture e dalle maschere africane.

Ma è il teatro quello che ha tratto dal concetto antropologico di "autentico" prima espresso la maggior forza, imparando tecniche del corpo e della mente ed elaborando addirittura dei sistemi di utopia della collettività che sopravvivono fino ai giorni nostri e che forse in una società ipertecnolocizzata come quella in cui viviamo hanno ancora più senso. Sul teatro come campo in cui esperimentare l'approccio antropologico, quello della ricerca di modi di relazione più autentici, conclude ancora la Borie: "Sono precisamente questi modi di relazione che, nell'ambito del teatro, diversi dei suoi addetti cercano di ristabilire. Il teatro, percepito sempre di più, anche prima di Artaud, non come spazio destinato all'illustrazione del testo e sottomesso alla supremazia dello scritto, ma come luogo di contatto fisico e concreto per eccellenza tra attori e spettatori, non offre dunque uno spazio privilegiato per sperimentare un ritorno all'autenticità dei rapporti umani? Di conseguenza tanti esperimenti fondati sulla ricerca del 'contatto', della 'partecipazione', dell''incontro', cercando continuamente di produrre un rapporto più autentico con il prossimo, una relazione vera da soggetto a soggetto. Si cerca sempre di più di rivolgersi all'individuo spettatore."

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A questa concezione dei rapporti, che cercano il contatto tra individui, si somma un'altra apparentemente contraria, quella della "collettività", anche questa influenzata da concetti e modelli messi in luce dall'antropologia. Nascono così delle realtà teatrali che non sono delle compagnie, che non vengono regolate dai soliti rapporti commerciali stabiliti per contratto, ma che si definiscono in base a un'identità culturale stabilita dai membri, delle vere e proprie tribù, che in alcuni casi diventano delle comunità in tutti i sensi. Questa identità culturale è prima di tutto il teatro stesso e l'approccio tecnico, estetico e filosofico che i membri condividono, magari mutuati dal rapporto diretto o indiretto con quelle culture delle "origini".

Non potrebbe essere altrimenti perché malgrado l'Europa che inizia il Novecento abbia raggiunto un alto livello economico e industriale, forze anche proprio per questo, attraversa qualcosa di più oscuro e inquietante di una crisi di "coscienza", come la chiama Hazard; la sua grandezza è basata sullo sfruttamento disumano e violento delle colonie ed è il territorio fertile in cui nascono i nazionalismi, i fascismi, il nazismo e tutte le guerre sanguinose e crudeli e gli sterminii che ne conseguono. Paradossalmente, quindi, tutto il clima artistico europeo dell'epoca, così fertile, variegato e soprattutto di rottura con qualunque tradizione, è in qualque modo condizionato dal rifiuto di partecipare alla cultura "europea", opponendogli valori estetici e filosofici che molto spesso vengono proprio dalle vittime di quella cultura.

Questa rottura non è una novità nella storia europea, è solo quella più estrema, più radicale, l'ultima di un modo di concepire la cultura come un processo di rotture e antagonismi, che, dopo secoli in cui le novità bruciavano e consumavano l'acquisito senza la conservazione degli elementi viventi dell'identità culturale, ha portato a un senso di vuoto e di crisi esistenziale tipica della mancanza di un sistema di valori vivi che sostenga l'identità tra individuale e collettivo. L'Occidente aveva venduto l'anima al Diavolo ottenendo ricchezza e potere, ma aveva pagato un prezzo molto caro, l'anima appunto. Non risulta strano, allora, che l'identità dei gruppi di persone che all'inizio del secolo hanno cercato di cambiare il mondo tramite il teatro, sia stata costruita molto spesso con elementi e valori importati da società almeno in apparenza più rassicuranti, quanto meno per la loro "autenticità". Non risulta strano che ancora oggi, più che mai, gli occidentali cerchino la pace, i riferimenti, una coscienza pulita, un corpo sano, rivolgendosi all'Altro delle"origini".

Ci ha sorpreso positivamente invece, ritrovare molti degli elementi di rinnovamento del teatro auspicati dai grandi maestri europei e che per loro sono passati attraverso l'acquisizione "antropologica" delle tradizioni dell'Altro, in un bello spettacolo profondamente e genuinamente egiziano visto la settimana scorsa al Teatro Vascello di Roma, portato nel nostro paese dall'Accademia di Egitto in collaborazione con il Centro di Ricerca Teatrale "La Fabbrica dell'Attore". Si tratta dell'affascinante e coinvolgente "Mekhadat El-Kohl" (The Eyeliner Pillow), traducibile più o meno come "Il Cuscino della Matita per gli Occhi", diretto da uno dei più importanti registi del teatro di ricerca contemporanea di Egitto, il quarantasettenne Intesar Abd-El-Fattah.

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Lo spettacolo è una produzione del Ministero della Cultura dell'Egitto, della "Drama House" e del "Taliaa Theater" e ha vinto il premio della giuria internazionale come migliore spettacolo al "Cairo International Festival for Experimental Theater" del 1998, festival al quale il regista ha partecipato rappresentando l'Egitto per almeno cinque volte. Inoltre, i suoi lavori sono stati presentati in diversi paesi come Germania, Francia, India, Marocco, Pakistan, Libano e Italia. Il mondo che noi chiamiamo per comodità "arabo", non ha nelle sue tradizioni il teatro così come lo concepisce l'occidente. Il teatro drammaturgico è stato imposto dai colonizzatori europei tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo e si è fatto largo con le difficoltà che incontra ogni novità imposta, fino a produrre, in particolare in Egitto, scrittori interessanti che però l'occidente ignora perché "occidentalizzanti". In cambio, tutta la cultura araba, come si suol dire del Medioevo europeo, è profondamente permeata di "teatralità".

Dall'archittetura alla musica, dalle danze ai costumi tradizionali, dai modi di parlare a quelli di gesticolare, dalla ritualità religiosa a quella quotidiana. Ciò che rende molto interessante lo spettacolo "Mekhadat El-Kohl" è il fatto che il regista ha sapientemente utilizzato per fare teatro tutti questi elementi carichi di teatralità ma che teatro non sono, orchestrandoli con grande misura ed efficacia in quello che lui ha battezzato il "teatro polifonico". Intesar Abd-El-Fattah così lo spiega: "Ciò che io chiamo polifonia è la decomposizione di una idea in vari elementi, vari livelli e vari aspetti, tutti riuniti in una scena unica. In questo spettacolo sono fondamentalmente in contemporanea l'illuminazione, il suono, la musica, il canto, la danza e l'espressione corporea." Se riportato a un livello generico, questo concetto di "polifonia" è quello che molte realtà teatrali di ispirazione più o meno antropologica che hanno segnato la storia del teatro di ricerca occidentale portano avanti. Primo esempio che viene in mente è L'Odin Teatret diretto da Eugenio Barba, in questi giorni a Roma per un lungo progetto e di qui parleremo nelle prossime settimane.

La differenza con qualunque compagnia o gruppo occidentale consiste nel fatto che, in un approccio che possiamo definire in linea con quello che abbiamo chiamato antropologico per le realtà occidentali, il materiale utilizzato in modo assolutamente non tradizionale e considerato come esperimentale proviene tutto dalla tradizione araba, ovviamente in particolare quella egiziana. Anche se non sempre sono riproduzioni di specifici elementi della tradizione, canto, musiche, strumenti musicali, gestualità, danze, figure, presenze, il lirismo del testo e, cosa da non sottovalutare, le tematiche affrontate, appartengono profondamente all'identità culturale di chi è in scena e del luogo in cui è stato prodotto lo spettacolo. Forse potrebbe essere tratta una lezione su come le proprie radici possano dire qualcosa oggi e in modo contemporaneo.

Lo spettacolo, senza un filo narrativo in senso classico, è un viaggio in forma di poesia attraverso il mondo della donna araba, i silenzi, l'inizizione alla vita adulta, le contraddizioni, le frustazioni, i desideri, le ambizioni, ma anche la magia, la forza, la bellezza. In fondo, una semplice struttura a due piani, decorata con arabeschi, nella quale ci sono alcune ragazze che sono le responsabili di molti degli elementi della polifonia, in particolare dei rumori effettuati con oggetti quotidiani o semplici pietre e pezzi di legno e delle gestualità rituale, che spesso ripetono a lungo all'unisono. Davanti alla struttura è seduta una signora, la famosa e molto apprezzata attrice Samira Abd El-Aziz, madre, nonna, maga, incarnazione della forza femminile e della tradizione, narratrice del testo in poesia di Kathar Mustafa, grande incantatrice che, malgrado non comprendessimo le sue parole, ci teneva inchiodati ad ascoltarla con altri sensi che non sono dell'intelletto.

Una attrice potente e affascinante come poche. Essa ha una vecchissima macchina da cucire manuale, con cui scandisce costantemente i ritmi della sua narrazione e dello spettacolo. Ai lati, musicisti di varia provenienza, tutti eccellenti, in particolare si fanno notare per intensità e bravura Ahmed Higazi che si accompagnava con l'Ud, strumento padre del Liuto e la cantante percussionista Attouna Al-Magruss, potente e con una presenza che sa di magico e sciamanico. Al centro dello spazio una danzatrice di colore di rara bellezza, che esegue le coreografie della danzatrice e ricercatrice libanese Jana Al-Hassan e che ha come alter-ego una ragazza sempre coperta col velo che esegue dei movimenti rarefatti e ripetitivi. Sempre di spalle, l'unico maschio che sia sulla scena oltre ai musicisti, in genere seduto, che contrappunta le azioni della ragazza con movimenti che potremmo definire di danza, ma che data la geometricità sorprendente e la difficoltà sono più vicino ad un contorsionismo "artistico" molto suggestivo e originale.

Ci dice il regista che lo spettacolo non parla della parità tra uomo e donna ma piuttosto della sofferenza di quest'ultima a causa della inconsiderazione e della inconscienza della società e degli uomini. Il testo, interamente narrato dalla signora con la macchina da cucire, è diviso in un prologo e sette scene. "C'era una volta una bellissima ragazza che soffriva di insonnia, una reginafra tante...Domanda ad un ragazzo: il lupo ulula nel deserto, il mio cuore ne è scosso e tu non rabbrividisci per questo? Il ragazzo risponde di non essere suo amico, di non esistere. La ragazza si contorce nella domanda e rimane sveglia." La ragazza cresce:"Tuo padre ha detto che se rompi una costola ad una ragazza ne nasceranno altre due e tuo fratello ha detto che ti dobbiamo nascondere dall'occhio altrui..." La ragazza soffre: "Ogni volta che gira e si nasconde, appare una luna e i suoi capelli sono come la coda di un cavallo che corre veloce, assomigliano alle onde del mare, alle lingue di un fuoco, il suo desiderio è pieno di pianto, il suo desiderio la sta uccidendo, è un desiderio impossibile e peccaminoso, è come un treno che va e viene verso i confini di un sogno che inizia con il sogno e finisce con la danza."

La ragazza si lamenta: più volte per la sua sorte: "Il fuoco ha divorato la mia anima e la sete il freddo...legata oppure no, libera o prigionera, mi hannodiviso in mille pezzi...Hanno piantato dentro di me cento bastoni, mi hanno fatto oscillare tra i sì e i no, tra peccato e preghiera, tra bugie e verità...il mio cuore era come un fiore e ora è un pezzo di carbone...come può sognare una ragazza se la ragazza stessa è un sogno?...Sotto la seta dorme una pelle morbida, tatuata, e al calare di ogni notte il paziente ripete la domanda: comesi cancellano le tracce degi zoccoli duri su un corpo morbido? La ragazzariceve risposte di ghiaccio: "E' facile piangere, ma uscire è difficile...tutte le ferite un giorno guariranno...molte sono le lune, ma il cielo è sempre nero...il cuore delle ragazze è sempre pieno e la terra rivela i loro segreti."

"Le lacrime delle ragazze ci sono ancora, o notte, e la terra è indifferente, ma il saggio dice che il cerchio va completato come è iniziato".

Ad un certo punto, la Grande Madre dice: "Per tutte le parole che sono state dette non c'è un oratore che le possa diffondere". Non è vero, questo spettacolo e il regista Intesar Abd-El-Fattah sono l'oratore che le diffonde. Ciauguriamo che continui a lungo a diffonderle con la stessa maestria, intensità ed onestà.

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