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L'illusione del sindaco manager


Emanuele Fiano

 

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Nell’immaginario pubblico il discorso su Milano è fermo.

Milano è una città che è la sua caricatura. Una città che racconta di sé la sua internazionalità, ma in cui trionfa una dimensione miope delle trasformazioni. Una città che ha impiegato il doppio di tempo per costruire una rete metropolitana pari a un quarto di quella di Parigi, che ancora (caso unico in Europa, per città di questo calibro), non depura le proprie acque, che ancora si pensa con un unico centro (Piazza Duomo) dove concentrare le sua iniziative popolari di massa, in cui ancora, ogni anno, le richieste inevase di posti negli asili nido pubblici superano le duemila, circa il 30% della domanda complessiva.

Una città, infine, che ha deciso di licenziarsi dalla politica.

Questa è oggi Milano, o meglio questa è l’immagine contraddittoria che Milano racconta di sé.

La questione , tuttavia, che oggi abbiamo di fronte sullo scenario di Milano è molto più complessa e per certi aspetti è anche meno scontata.

Questa città ha optato per l’antipolitica. La scelta di un sindaco le cui competenze professionali fossero il biglietto da visita per un buon amministratore, per quanto spacciata come risposta a una città depravata e stuprata dall’ingordigia dei politici, ha avuto cittadinanza culturale su tutto l’asse politico da destra a sinistra nel corso degli anni ’90, perché insisteva su un vecchio mito di Milano: quello di una città in cui ha avuto un peso e un ruolo una borghesia civile.

Una borghesia civile che ha pensato che Milano non fosse solo il luogo dove arricchirsi, che fosse buona cosa interessarsi alle sorti della città, incrementare i suoi luoghi pubblici, migliorare la qualità dei suoi servizi, sovvenzionare e favorire la nascita di una rete di assistenza.

Certo questo dipendeva anche dall'assenza di un ruolo pubblico dello Stato, dalla dimensione spesso di mera contabilità di chi era deputato all’amministrazione della cosa pubblica a livello nazionale. Ma non solo. Questa borghesia civile non aveva l’ambizione o la pretesa di governare. Voleva esserci, ma in dimensione discreta, sapeva di contare per uno (un principio classico del pensiero politico liberale).

Milano negli anni ’90 a destra come a sinistra ha pensato che sarebbe bastata la scorciatoia di individuare un borghese, propagandarlo come la nuova espressione di questa consolidata tradizione e perciò riprendere la vecchia strada abbandonata e dimenticata dopo la lunga parentesi del monopolio dei partiti sulla politica.

I miti come si sa sono difficili a morire. In ogni caso di solito non sono una medicina efficace, ma solo il sintomo di un profondo malessere, o comunque di un malvivere non metabolizzato né risolto.

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Oggi a otto anni esatti da quella sera del febbraio 1992 dalle parti del Trivulzio, siamo qui a domandarci se non siamo vissuti in una sorta di luna park dove un trenino impazzito continua a farci girare nello stesso circuito senza mai fermarsi.

Per uscirne dobbiamo smettere di pensare che siano sufficienti soluzioni tampone. Milano non ha mai avuto una borghesia che esprimesse in politica solo i propri interessi. Per esser più precisi Milano ha avuto molte borghesie contemporaneamente: quella civile, che ne è stato il tratto umano e urbano caratteristico, ma anche quella borghesia liberale classica, una borghesia cattolica e anche una borghesia "compradora", ovvero un ceto finanziariamente ricco, vissuto all’ombra del politico potente che ha come fine il controllo sociale del territorio e la possibilità di esercitare potere con il minor numero possibile di trasformazioni.

E ancora più a monte occorre osservare che Milano ha avuto tante borghesie, perché ha avuto più aristocrazie: per esempio una che pensava in termini di buona amministrazione, ma senza trasformazione (ed è l’aristocrazia di cascina, e di città, che dominerà Milano per gran parte del Settecento e la cui espressione massima è Gian Rinaldo Carli); e una che capiva che la possibilità di un futuro per Milano viene da fuori, dalle culture degli altri, dal sapere e che talora il governo e la politica impongono anche che si eriga un potere forte, autoritario, ma amministrato e costruito in base a un progetto di prosperità collettiva, di bene pubblico, di "pubblica felicità". E’ il progetto di Verri nelle sue riflessione sull’economia. Ed è il principio per cui l’aristocratico Verri sceglie di essere consigliere comunale nella Milano dell’Italia giacobina: non per fare da sentinella ai propri interessi minacciati, ma per costruire insieme ai democratici le nuove regole della politica sul territorio.

E’ stato detto in queste settimane che l’opposizione democratica di centrosinistra ha dormito sonni tranquilli per anni e che solo un po’ di difficoltà (giudiziarie ma non solo) in seno alla maggioranza l’avrebbero risvegliata dal suo torpore.

Non è questo. E’ successo molto più semplicemente che oggi il centrosinistra, non senza difficoltà, ha avviato lentamente una pratica in cui è in gioco il futuro civile di Milano e in cui non si tratta più populisticamente di distinguere tra società civile (con le mani pulite) e politica (con le mani sporche), bensì tra un uso pubblico della politica come ricostruzione di uno stile amministrativo in cui conta un rapporto di fiducia e un uso della politica come promozione di se stessi, come automonumentalizzazione. Tra un amministratore-Sindaco, che rinnova il mito del " mi manda PiconeSilvio " (prima era Bettino), e un uso del proprio mandato teso a ricostituire l’identità dell’appartenenza civica.

Vi sono oggi aspetti della fase politico-amministrativa milanese che sfuggono al nostro giudizio, perché aspettano risposte tra i faldoni della Procura della Repubblica., ma non per questo si deve rinunciare ad assumere un ruolo.

C’è una crisi di domanda nei confronti della politica; ai politici in stile Albertini non si chiede più di reidentificare il ruolo del cittadino in termini socialiesistenziali, ma di risolvere in termini di performance esigenze pratiche, specifiche, con un’ottica postpolitica. E’ qui il pericolo maggiore, nel pensare che la politica non possa avere un ruolo, di controllo, di indirizzo, di analisi, di rappresentanza, ma spossa solo essere di ostacolo alle capacità gestionali, dei manager, dei gestori, dei principi o vassalli.

Eppure a Milano sta di nuovo emergendo un inquinamento della politica e un’ambiguità di alcune scelte fondamentali, o il loro rinvio sine die (vedi vicende depuratori, Pio Albergo Trivulzio, SEA-Argentina, accordo AEM-e-Biscom), per cui anche il Buon Borghese, Benpensante, Manager-Efficiente, stile Albertini, mostra segni di usura.

Non si può tacere però il grande gradimento dell’uomo Albertini presso l’opinione pubblica; e questo cortocircuito, tra grande gradimento dell’uomo o del modello e scarnificazione del rapporto collettivo con la politica, fino alla delega al manager, può essere letale, e per molto tempo, per la sinistra milanese. Un po’ perché la gente crede comunque che i bravi manager nascano solo a destra della mappa politica e un po’ perché la gente a sinistra vuole i leader politici, nei posti di comando.

A Milano è esistita una stagione riformista, vincente, illuminata, negli anni 70 e 80, oggi offuscata dai gravi inquinamenti che l’hanno attraversata, ma pur sempre esemplare per la capacità di esprimere una strategia collettiva di progetto della città, della sua dimensione internazionale, innovativa, anticipatrice. E’ questa capacità di ricoinvolgimento collettivo della Milano laica, riformista, cattolico-democratica e di sinistra, in un progetto strategico che anticipi le agende amministrative della destra, che può forse far tornare ad appassionarsi e a sperare il popolo della sinistra milanese.



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