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From: Pietro Muni coalizione@iol.it
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Subject: Cittadinanza Perduta da Ritrovare
Date: Fri, 10 Mar 2000 12:15:27 +0100

"Da sempre ogni gruppo di persone chiuso verso l'esterno tende a distinguere i propri membri da chi non vi appartiene e a tracciare una linea di demarcazione tra chi è dentro e chi è fuori. Se poi il gruppo è anche solo minimamente organizzato, al suo interno vengono stabiliti ruoli e funzioni, diritti e doveri, ma anche privilegi per chi è incluso e discriminazioni per chi è escluso. Ciò vale a maggior ragione per quel gruppo politicamente strutturato che si chiama Stato. È questa la funzione peculiare della cittadinanza: quella di fornire un criterio di inclusione e di esclusione tra chi è cittadino di uno Stato e ha una serie di diritti, e chi non è cittadino e ne viene escluso. La cittadinanza è quindi una condizione (o status) dell'individuo appartenente a uno Stato, alla quale viene attribuito un insieme di diritti e di doveri" (BELVISI F., Cittadinanza, in BARBERA A. (a cura di), Le basi filosofiche del costituzionalismo, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 117). La cittadinanza è dunque una sorta di marchio, che indica l'appartenenza ad uno Stato. Il concetto di c. entra nel mondo contemporaneo attraverso la Rivoluzione francese anche se affonda le proprie radici nel mondo antico.

Nell'antica Grecia il cittadino faceva tutt'uno con la polis. "La libertà individuale era sconosciuta" (BENDIX J., Cittadinanza, in >Enciclopedia delle scienze sociali, Enc. Italiana, Roma 1991, p. 773): solo in quanto membro di una comunità si poteva essere riconosciuto uomo a pieno titolo e soggetto di diritto, e non viceversa. Secondo Aristotele, autentico cittadino è solo colui che partecipa "alle funzioni di giudice e alle cariche" della polis (Politica, 1275a, 22-4); mentre "è alla stregua di un meteco chi non partecipa agli onori" (Politica, 1278a, 39). Ma chi poteva occuparsi di politica se non colui che disponeva di sufficiente tempo libero, che non era costretto a lavorare dalla mattina alla sera per la sussistenza. Di fatto, dunque, era cittadino chi poteva contare su qualche proprietà e sul lavoro di schiavi. Libero da incombenze lavorative, costui poteva dedicare le proprie energie agli affari della polis. Si tratta, come si può ben vedere, di una concezione aristocratica di cittadinanza.

Agli inizi della storia romana, la cittadinanza era un attributo pertinente alle famiglie (gens) che discendevano dai fondatori di Roma, in pratica i patrizi. Era dunque un titolo nobiliare. Poi, a partire dalla rivoluzione plebea del IV secolo a.C., patrizi e plebei si collocarono su un piano di parità e la cittadinanza divenne un diritto di tutti i paterfamilias della città di Roma. Con la concessione dello status di cittadino a tutti gli uomini adulti dell'impero (editto di Caracalla del 212 d.C.) la cittadinanza si svuotò della sua valenza politica e si ridusse a poco più di una semplice etichetta formale, priva di importanza. "I cittadini divennero sudditi con diritti e doveri nei confronti delle autorità politiche, diritti determinati fondamentalmente dal censo romano" (BENDIX J., Cittadinanza, in Enciclopedia delle scienze sociali, op. cit., p. 774).

Iniziava così la crisi della cittadinanza politica, che si protrarrà per tutto l'alto medioevo, fino all'affermarsi dei liberi Comuni. Il cittadino comunale è un uomo libero, che si è affrancato dall'ordinamento gerarchico feudale e vive del proprio lavoro all'interno di un contesto cittadino. La differenza con il cittadino di Aristotele sta proprio in questo diverso rapporto col lavoro. Ma le somiglianze sono notevoli. Per Marsilio da Padova (1324), per es., cittadino "è colui che nella comunità civile partecipa secondo il proprio rango al governo o funzione deliberativa o giudiziaria" (MARSILIO DA PADOVA, Il difensore della pace, a cura di C. Vasoli, UTET, Torino 1975, I, 12, 4). Al pari di Aristotele, Marsilio escludeva dalla cittadinanza stranieri, servi, donne e minorenni, e, sempre al pari di Aristotele, conferiva il potere legislativo all'intero corpo dei cittadini (o alla maggioranza di essi). Per entrambi poi il cittadino non è ancora concepito come singolo individuo, bensì come membro di una comunità, di un ceto o di una corporazione. Fino all'età moderna i diritti politici rimasero sostanzialmente una questione di censo e la cittadinanza una sudditanza. "Doveri e subordinazione nei confronti della gerarchia erano i motivi dominanti, giustificati e sostenuti dalla dottrina religiosa" (BENDIX J., Cittadinanza, in Enciclopedia delle scienze sociali, p. 774).

Così Bodin (1576) poteva affermare che "ciò che fa il cittadino è l'obbedienza e la riconoscenza del suddito libero per il suo principe sovrano, e la protezione, la giustizia e la difesa del principe nei riguardi del suddito; ed è questa la vera ed essenziale differenza fra cittadino e straniero" (BODIN J., I sei libri della Repubblica, a cura di M. Isnardi Parente, UTET, Torino 1964, p. 304). Contrariamente a quanto affermato da Aristotele, Bodin riteneva non essenziale per lo status di cittadino la partecipazione alla vita politica, mentre condivideva la concezione greco-romana della cittadinanza da riservarsi al paterfamilias.

La situazione cominciò a mutare con Hobbes, secondo il quale "essere uomo è il presupposto per ogni ulteriore status, e non viceversa" (BELVISI F., Cittadinanza, op. cit., p. 125). Si apriva così un orizzonte individualista, che ancora però non riconosceva l'individuo come soggetto di diritti sovrani e assoluti.

È con Rousseau che, per la prima volta, prende forma il concetto di cittadino-sovrano, che gode della pienezza dei diritti politici e che è chiamato ad autogovernarsi alla stessa maniera degli antichi cittadini ateniesi. Alla vigilia della Rivoluzione francese, la società era suddivisa in tre «stati»: l'aristocrazia e l'alto clero, che costituivano una piccola minoranza di privilegiati, e la sterminata massa del popolo, il cosiddetto «terzo stato», che non aveva parità di diritti (i diritti erano in rapporto al censo) ma che doveva lavorare per mantenere la società intera.

Abbattendo il sistema dei «tre stati», la Rivoluzione francese dava origine ad una nuova figura di cittadino, che non era più membro di un ceto, bensì dello Stato nel suo insieme (il cosiddetto Stato-nazione), dinanzi al quale gli veniva riconosciuta parità di diritti-doveri.

A differenza dell'antica Grecia e Roma, poi, il titolo di cittadino non era conferito su basi elitarie, bensì al popolo intero, seppure con alcune limitazioni, legate al sesso, all'età e al censo: donne, minorenni e domestici rimanevano esclusi dalla pienezza dei diritti politici (NOTA: In opposizione alla Dichiarazione dei diritti del 1789, che escludeva la donna, Olympe de Gioges redasse due anni dopo la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina). Di fatto, il nuovo cittadino che emerge dalla Rivoluzione appare legato alla proprietà privata: cittadino è l'individuo proprietario.

Nell'Otto-Novecento si è affermato il valore della solidarietà sociale, e lo Stato etico ha cominciato a rivolgersi non più e non solo al cittadino proprietario, bensì a tutti gli uomini, concepiti però non nella loro singola individualità, ma nella loro rete di rapporti comunitari sussunti nello Stato. Il cittadino moderno non ha valore in quanto individualità in sé, così che egli non è chiamato ad una partecipazione politica diretta e, anzi, può benissimo disinteressarsi degli affari pubblici ed estraniarsi dai vertici dello Stato. Si è venuto così a determinare un dualismo, più o meno profondo, tra Stato e cittadini, dimenticando che "il rapporto classico di cittadinanza implicava anche una partecipazione alle decisioni" (BENDIX J., Cittadinanza, in Enciclopedia delle scienze sociali, Enc.Italiana, Roma 1991, p. 776).

Ma si dimentica anche che lo Stato non dovrebbe essere un semplice centro di potere, bensì un servizio ai cittadini. Come giustamente sottolinea John Bendix, "Se si ritiene che lo Stato sia creato e legittimato dall'insieme dei cittadini, c'è poco da discutere: il ruolo dello Stato diventa quello di obbedire e di fornire servizi ai cittadini" (ivi, p. 776). In questi ultimi decenni si sta diffondendo la consapevolezza che molti problemi umani, relativi alla politica, all'economia, all'ecologia, alla ricerca, ecc., non possono essere affrontati da una singola Nazione o da un singolo Stato: il cosiddetto globalismo. Si comincia così a intravedere la realtà del singolo individuo, non più strettamente legato ad una comunità etnica o statale, ma cittadino del mondo, cosmopolita. È in questa direzione che si muovono molti pensatori contemporanei, come Dahrendorf (DAHRENDORF R., Il conflitto sociale nella modernità. Saggio sulla politica della libertà, Laterza, Roma-Bari 1992), Ferrajoli (FERRAJOLI L., Dai diritti del cittadino ai diritti della persona, in ZOLO (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Roma-Bari 1994) e Veca (VECA S., Cittadinanza, Feltrinelli, Milano 1990).

Pietro Muni co
coalizione@iol.it

 

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